11 Ottobre 2024
Poesia

Poesia, disciplina durissima – Vittorio Varano

Il primo corpo, mattone elementare con cui fu costruito l’edificio cosmico, è il tetraedro, la figura solida formata da quattro facce triangolari, il volume racchiuso da un’area racchiusa da tre lati ripetuta quattro volte, un 3 moltiplicato per 4 che invece di fare 12 come secondo le regole aritmetiche l’operazione dovrebbe, dà come risultato 6; è sufficiente contare gli spigoli per verificare che il numero dei lati del triangolo iniziale, invece di quadruplicarsi, nel passaggio dalla superficie piana allo spazio tridimensionale, è raddoppiato (o meglio: si è quadruplicato per dispiegamento della superficie piana nello spazio tridimensionale, e dimezzato per sovrapposizione di lati coincidenti a due a due sulle linee d’intersezione fra le superfici a cui appartengono coppie di facce adiacenti); la forma fondamentale è dunque un 12 che appare nello spazio come un 6, che è l’unità di misura del mondo manifestato e la soglia di quello invisibile, ragion per cui i poeti arcaici scrivevano esclusivamente in esametri, il verso per eccellenza, la cui particolare struttura provoca un fenomeno analogo a quello appena considerato.

Prendiamone due consecutivi, e numeriamo da 1 a 12 i loro componenti: i piedi da 1 a 6 costituiscono il primo verso, e quelli da 7 a 12 il secondo; eppure gli esametri contenuti nel distico non sono due ma tre, perché ce n’è uno intermedio che non si trova nello spazio monodimensionale della successione lineare delle righe di testo, ma nascosto in corrispondenza dell’intervallo tra esse, si estende dalla metà dell’uno alla metà dell’altro: quello che va dal 4 al 9; la sequenza di esametri si sdoppia in due serie parallele sfasate di 3 piedi, e come se in un pianoforte uscissero note udibili ad orecchio soltanto dai tasti bianchi, gli esametri diesis sono neri, cioè non sono oggetto di percezione cosciente da parte di chi legge, ma fanno da basso continuo, da controcanto in sottofondo, ed eccone l’effetto: dove in una serie c’imbattiamo in un punto di sutura tra le estremità accostate ma non coincidenti di due versi (pausa-passaggio tra un suono che finisce di affievolirsi ed uno che accenna appena allora ad affacciarsi all’aria aperta e farsi avanti, silenzio-strapiombo che spinge ad un salto capovolto che comincia con un atterraggio afflosciato a capitombolo e termina con uno slancio a capriola per spiccare il volo) la serie sorella che ora è la maggiore ma tra mezzo giro sarà la minore è giunta alla cresta dell’onda sonora, e la concavità del suo culmine compensa la convessa caduta di quella che ora è la minore ma tra mezzo giro sarà la maggiore, e salda il giunto, rendendo ininterrotta retta quella che altrimenti resterebbe una spezzata somma di segmenti separati, inutilmente intenti (ciascuno per conto suo ma tutti insieme) all’inseguimento di chi gli sta di fronte e simultanea fuga da chi gli sta alle spalle, una gara di corsa in cui non sono possibili i sorpassi, come un corteo di ergastolani in marcia a ranghi serrati, condotti alla colonia penale in cui sconteranno la loro condanna ai lavori forzati, camminanti come volatili costretti a rimpiazzare con le zampe le ali la cui apertura viene impedita dallo scarso spazio che hanno a disposizione, essendo addossati strettamente perché le catene che li legano sono più corte dei loro passi.

Non ogni metro usato in passato, però, estroflette da sé un ectoplasma come sua controfigura che si sposta in ordine cronologico e in senso antiorario, così che l’ombelico occupi alternatamente la posizione che appartiene al tallone d’Achille e poi al terzo occhio ; l’endecasillabo, ad esempio, non può farlo, perché l’undici è numero primo, non scomponibile in parti scambiabili. L’esametro è come l’orbita di un corpo celeste la cui rotazione segue una traiettoria che si svolge secondo una curva chiusa che ritorna su se stessa senza soluzione di continuità, in un moto perpetuo che distilla l’elisir di lunga vita, l’ambrosia del Parnaso con cui le Muse allattano i mortali scelti da esse per non essere più tali. L’endecasillabo, invece, rappresenta il flusso entropico del mondo sublunare, che cade come il corso di un fiume, in cui lo snodarsi delle anse è irregolare com’è la sua scansione in una o due o tre sillabe atone e un accento. Mi si può ovviamente muovere incontro un’obiezione sotto le sembianze di una domanda: se l’esametro è il verso supremo ed eccelso, perché a un certo punto il suo uso fu abbandonato? È ormai superato (nel senso di “sostituito da qualcosa di migliore”)? L’unica risposta efficace è una risata omerica di tale durata che la sua trasposizione onomatopeica esatta richiederebbe una sfila così estesa di A di H e di ! che l’articolo dovrebbe terminare qui (tralascio quindi di trascriverla). La spiegazione più convincente dell’avvenuto cambiamento è la meno lusinghiera per la concezione ottimista della nostra storia letteraria: affinché la composizione in esametri abbia buon esito ci vuole una competenza, un’abilità artigianale, ottenibile solo attraverso una disciplina a cui i successori degli aedi, a partire da un determinato momento, non sono stati più disposti-a e/o capaci-di sottoporsi.

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