Nel suo puntuale saggio Autorità ed entropia, pubblicato all’interno del secondo volume di Polemos (http://polemos.eu), Andrea Venanzoni considera la realtà contemporanea nel suo configurarsi come un vasto campo di dispersione di significati e fenomeni in un caos socio-linguistico burocratico. Al fine di assicurare un nucleo vivo al collasso di questo stato di cose, «deve rimanere una camera sacra chiusa alla comunicazione con l’esterno, ove giaccia il significante del nuovo Ordine». In ultimo questo significa: forzare la mano alla distruzione dei principi del 1789.
Le righe che seguono insistono brevemente su questo tema. Insistere vuol dire: mantenersi all’interno del perimetro e consolidarlo, in funzione di un rafforzamento e soprattutto di un contrattacco, nel momento di radicamento delle idee e dei principi, preparando l’uscita dal bosco, pena un processo lento e inesorabile di irrigidimento nell’autoreferenzialità – vizio estremo di chi porta all’eccesso i confini, facendoli diventare “ghetto”.
La città contemporanea è evanescente, non sembra avere confini reali, si distende ed esaurisce nei dintorni al di là della periferia, disperdendosi in qualcos’altro di ancora indistinto. Più la città s’ingrandisce, più questo carattere di vacuità si amplia, fagocitando ciò che sta intorno. È ormai abituale l’argomentazione secondo cui questo è il naturale evolvere delle cose.
La globalizzazione ha ormai portato con sé l’appiattimento dei luoghi e delle popolazioni; è quindi normale lo slittamento della realtà cittadina verso qualcosa di astratto e impalpabile. Il senso di appartenenza gradualmente si è esaurito. L’identità di una città, e quindi di coloro che la abitano, si disperde e disgrega a causa dello sfiguramento demografico, architettonico, sociale. Quello che vale per le città, vale naturalmente per gli Stati e quel che resta del loro potere. Non esistono confini né frontiere reali, non esistono distinzioni e tutto è diventato computabile secondi astratti canoni economici.
Il potere statale si articola poi secondo una dicotomia perversa e lacerante: forte e repressivo verso il cittadino autoctono, facilmente tracciabile, regolarmente schedato e ipertassato; estremamente tollerante – sin dai presupposti ideologici – verso l’irregolarità di coloro che sarebbero chiamati a colmare il crollo demografico, verso i “devianti” di tutte le origini e provenienze, verso coloro che godono di protezioni importanti e via elencando.
In questa che è la realtà quotidiana della maggior parte degli europei oggi, il senso di appartenenza viene meno. Il fondamentale istinto territoriale viene estirpato dai processi universalistici e, con lo sradicamento, si ha anche uno svuotamento della forza. Oggi si elogiano ovunque i deboli, gli arrendevoli e gli insicuri e le caratteristiche autentiche dell’uomo virile e virtuoso sono messe in secondo piano se non discreditate. Alla forza tranquilla si sostituisce l’arroganza, alla cultura si sostituisce il nozionismo take-away. Un uomo che non senta di appartenere a niente e a nessuno – forse neppure a se stesso – non ha identità e non ha doveri. Questo uomo, che riflette i caratteri della maggioranza delle persone oggi, crede di essere libero perché tutto gli è concesso, ma è soltanto un figurante impotente a cui è stato tolto ogni ruolo concreto. Sarebbe fuorviante confondere questo “non appartenere a nulla” con una forma superiore e spirituale di spersonalizzazione attiva e trascendente, di sublimazione e superamento delle eteronomie. Al contrario, questo dissolversi atomistico dell’uomo di oggi, procede entropicamente dalla sua estrema individualizzazione nella finta libertà, tanto che spesso, per colmare il suo vuoto, finisce con l’aderire ad identità sostitutive: mode, presunte controculture, velleità di ritorno alla terra in chiave anarchica e primitivista (ma che con l’origine nulla hanno a che fare).
È tipico di questi periodi di crisi il primato dell’opinione pubblica, il quale si esprime al massimo grado nell’emotività e nell’irrazionalità egocentrica di individui che si sentono nella condizione di criticare ogni cosa, al sicuro davanti a uno schermo. Sono quindi davvero rare vere forme di opposizione che, nonostante un generale svuotamento delle energie vitali, sono comunque il segno di un possibile risorgere di esemplarità. In taluni contesti basterebbe poco per cominciare a cortocircuitare il sistema imperante, il suo controllo pervasivo e il suo condizionamento. Bisognerebbe però riconoscersi in un ruolo concreto e agire attivamente, sorgere come uomini e non come marionette. In prima battuta si tratterebbe cioè di coagulare un gruppo umano attorno a un nucleo, rigenerare una sinergia solidale; ma per farlo bisognerebbe superare le comodità dell’individualismo e dell’egoismo. Assegnare un significato diverso alla vita di coppia, porre in secondo piano la rispettabilità sul lavoro, restringere il campo della pigrizia e del riposo. Se sui social si lanciasse un evento di contestazione e protesta, con tutta probabilità raccoglierebbe moltissime adesioni virtuali, andando pressoché deserto nella realtà. Il sistema delle comodità ha scavato talmente nel profondo da intaccare la tenuta interiore di chiunque, senza eccezione.
Viene da chiedersi per quale motivo simili defezioni non fossero diffuse tra i bolscevichi, tra i Freikorps o tra i legionari fiumani? Perché l’educazione, la disciplina di partito e militare, la prassi della “mobilitazione totale” derivante dall’esperienza bellica avevano rinvigorito l’essere umano, già in potenza migliore a quello contemporaneo, non contaminato da influenze mediatiche, dall’infiacchimento estremo della comodità e dell’edonismo senza fondo.
Come un simbolo contrario ed in opposizione a tutto ciò esistono ancora cittadelle costruite all’interno della cinta murarie di fortezze medievali. Attorno al perimetro collinare scorrono sottili torrenti e ponti di legno e pietra collegano i punti chiave della cittadella con l’esterno. Le mura delimitano, proteggono e racchiudono una ricchezza identitaria fatta di storia, cultura, arte. L’istinto immediato è quello di percepire una grande coesione, il pulsare di una vita autentica nelle vie di acciottolato e nelle piazze su cui dominano i campanili e i bastioni turriti. Anche le abitazioni rispecchiano questa realtà contenuta e ristretta, i tetti rispettano l’altezza delle torri di guardia e la vita quotidiana assume un ritmo sconosciuto alle città più grandi e dispersive. Forse è solo un’illusione momentanea, o il richiamo romantico di epoche andate, eppure l’estetica e la potenza delle cinta murarie trasmettono ancora un senso di radicamento territoriale e il dispiegarsi nel quotidiano del mito comunitario.
La fortezza è il simbolo della grandezza europea. In essa si riuniscono l’autorità, la forza, l’ingegno e l’arte che trascendono le campagne circostanti. La forza militare che la domina è una forza appartenente al territorio, gli uomini in armi sono i difensori del perimetro e i garanti della prosperità cittadina. Già Platone assegnava ai Guardiani un ruolo fondamentale e allo stesso modo le milizie medievali conservarono un peso politico decisivo. L’uomo in armi, quale sia il suo rango, è l’uomo potente, è l’uomo che può decidere e modificare la realtà delle cose. L’uomo disarmato dipende dagli altri, è in balia degli eventi. Non a caso i lacedemoni assegnavano forza e potere di fare la guerra ad una sola ristretta cerchia di liberi, gli spartiati, proprio per non elargire con troppa facilità l’autorità che deriva dall’uso delle armi. Oggi, nell’entropia dei legami comunitari, la protezione della città e della popolazione è – teoricamente – demandata alle forze dell’ordine e alle presunte cure dello Stato, il quale in ultimo si preoccupa soltanto di proteggere il sistema.
Nel periodo di interregno attuale il margine reale di libertà di ciascuno si misura quindi dal grado di indipendenza dall’autorità “perversamente” costituita, dalla capacità e dalla volontà cioè di fare da sé, di difendere il proprio territorio e la propria libertà. Forza e virtù si troverebbero così di nuovo appaiate. La forza è energia oppositiva, spinge a compiere sortite fuori dalle mura “forti della propria forza” e del suo impatto estetico. Configura un dominio nel quale il perimetro, il confine, non diventa “ghetto” ma avamposto.
La realtà più concreta e viva a cui l’uomo di oggi possa sentire di appartenere è la comunità dei propri simili, la propria famiglia, il clan. Nella società globalizzata e senza confini, è nel ristretto e nel limitato che si può riscoprire l’autentico legame, l’identità profonda e una forza solidale e vitale. Una comunità costruita sull’esercizio della disciplina interiore e fisica, radicata in un luogo custodito e difeso ad ogni costo. Si comprende allora il senso dell’abitare una fortezza o un bastione che, come un faro, si staglia su una realtà quotidiana grigia e disgregata. Una moderna fortezza con le sue leggi e i suoi ordini, l’origine di una realtà differente dall’attuale, una crepa di selvaggia bellezza e di discordante armonia nel grigiore monolitico del mondialismo dominante.
Polemos III.2016