9 Ottobre 2024
acqua Attualità Politica

Politica dell’acqua e beni comuni. Chi calpesta la volontà popolare – Roberto Pecchioli

Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei grandi della Rivoluzione Conservatrice, scrisse che “la democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino”. Se questo è vero, ed in larga misura lo è, il referendum è uno strumento privilegiato per esprimere la volontà popolare, e l’esito della consultazione del 2011 sull’acqua, con il 95% dei votanti a favore della gestione pubblica delle risorse idriche è un risultato che si commenta da sé.

Non conta: un emendamento a firma del deputato PD Enrico Borghi abroga l’articolo 6 della legge sull’acqua all’esame del Parlamento, che obbligava alla gestione pubblica dei servizi idrici. Premesso che il parlamentare ossolano è già tristemente noto per aver proposto di ripopolare le zone di montagna con gli immigrati clandestini dell’Africa occidentale, ed è quindi il classico politico al servizio del potere mondialista, non stupisce che l’attacco al carattere di bene comune dell’acqua provenga dalle terze linee progressiste, né, tantomeno, che lo sprezzo della chiarissima volontà popolare avvenga sotto forma di emendamenti semi clandestini nel chiuso delle stanze delle commissioni di Montecitorio. La truffa della democrazia rappresentativa è ormai chiara al settore più ricettivo dell’opinione pubblica.

Il tentativo di privatizzazione dell’acqua, cui, sperabilmente, si opporrà un fronte articolato d’opinione, tuttavia, necessita di qualche riflessione non legata esclusivamente alla cronaca più recente. Secondo tutti gli osservatori qualificati, infatti, il bene –acqua, insostituibile e essenziale per la sopravvivenza fisica del creato, è tra quelli che sprechiamo in maggiore quantità, tanto è vero che si stima che sulla Terra ce ne sia almeno un 30 per cento in meno rispetto a meno di quarant’anni fa, e che dal 2020 in poi, saranno quasi tre miliardi, degli otto che ne ospiterà il pianeta, gli esseri umani che ne avranno carenza, o addirittura mancanza.

Senza avventurarci in previsioni legate al cambiamento climatico ed al massiccio l’uso agricolo ed industriale dell’acqua ed ora anche minerario, nell’ estrazione dei gas di scisto, il problema geopolitico legato al controllo ed all’utilizzo delle risorse idriche è già ai primi posti di un’agenda umana realistica, responsabile e pensosa delle generazioni future.

Già nel 1995, il vicepresidente della Banca Mondiale Ismail Serageldin dichiarò : “ Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo avranno come oggetto del contendere l’acqua”. E’ quindi evidente che il problema è di enorme rilievo e che, anche su questo tema, l’informazione dell’opinione pubblica è assai scarsa e orientata dagli interessi dei grandi gruppi privati. I più veloci ad affrontare la materia, come sempre, sono proprio loro, i protagonisti di quella che Jean Ziegler, in un saggio fortunatissimo, chiamò “La privatizzazione del mondo”. Ecco dunque spiegata la brillante azione del loro zelante amico onorevole Enrico Borghi. Mettere le mani sull’acqua, per multinazionali e giganti finanziari, non significa soltanto un lucrosissimo affare, ma innanzitutto la possibilità definitiva, diremmo l’arma assoluta, per il dominio del mondo attraverso le nostre stesse vite, che dell’acqua non possono fare a meno.

Negli anni Settanta del Novecento, si diffuse il concetto di biopolitica, la conoscenza volta a rivelare l’implicazione diretta ed immediata tra la dimensione della politica e quella della vita, intesa in senso biologico. Fu Michel Foucault, personalità tanto discutibile umanamente e politicamente quanto geniale, a descrivere per primo i meccanismi di controllo biopolitici; noi ci limitiamo ad osservare che la proprietà stessa del nostro corpo viene messa in discussione se passa il principio di privatizzazione, dunque di commercializzazione, assoggettamento alla cosiddetta legge della domanda e dell’offerta, dell’acqua e di alcuni altri beni essenziali, che ormai vengono definiti “beni comuni”.

Tale concetto comprende l’insieme delle risorse, materiali ed immateriali utilizzate da più persone e che possono essere considerate patrimonio comune dell’umanità. Il termine britannico commons definiva le terre di uso collettivo per diritto consuetudinario, su cui le popolazioni potevano liberamente esercitare il pascolo, il legnatico, l’agricoltura di sussistenza. La recinzione di quelle terre, per l’uso esclusivo di proprietari zootecnici, tra la fine del XVII secolo ed i primi decenni del XVIII, con la famigerata legge delle chiusure – enclosures bill – costituì la premessa per la prima Rivoluzione Industriale. I feudatari volevano per sé tutti i terreni per allevare un numero sempre maggiore di pecore, la cui lana alimentava l’industria tessile.

Fu quello uno dei primi frutti della cosiddetta “gloriosa rivoluzione”, protestante, preborghese e mercantilista del 1688/1690 nell’Inghilterra orangista, il cui pensatore di riferimento fu John Locke, l’autore di quella bieca Lettera sulla Tolleranza, in cui si conclude che occorre riconoscere libertà a tutti, tranne ai portatori dei valori cattolici e, di riflesso, ai poveri contadini indifesi. Espulsi dalle campagne e gettati in città nelle braccia dei nuovi imprenditori, quelli di Manchester, essi costituirono il primo esempio di proletariato industriale. Bassi salari, orari impressionanti, lavoro minorile, lavorazioni pericolose e insalubri, nessuna protezione.

Oggi, le nuove enclosures sono lo smantellamento dei diritti sociali e la conquista, da parte dei privati, di tutti i beni e di tutti i servizi che siamo stati abituati a chiamare pubblici. Difendere la natura comune delle risorse idriche è quindi porsi in prima linea sul fronte del rispetto di noi stessi e di principi che l’uomo ha sentito come naturali per un lunghissimo tratto della propria vicenda storica. Ci sono almeno tre tipi di beni comuni: il primo comprende ciò da cui dipende la vita: acqua, terra, foreste, pesca, cui vanno aggiunti i saperi locali, le sementi selezionate nel corso dai secoli dalle popolazioni (oggi Monsanto procede a colpi di brevetti, rubando letteralmente la cultura materiale del mondo!), il patrimonio genetico nostro e delle specie animali e vegetali, la biodiversità.

Come verifichiamo ogni giorno, l’attacco è potentissimo anche qui, e non solo con l’introduzione di Organismi Geneticamente Modificati, ma anche con tecnologie che trasformano l’idea stessa di vita, riproduzione, natura. Per questo primo gruppo di beni, i tradizionali diritti collettivi d’uso, gli usi civici, è necessario stabilire, anzi ristabilire, un principio generale di intangibilità rispetto alla dimensione del profitto privato e, più in generale, recuperarne un primato “politico”.

Un secondo ordine di beni che possiamo indicare come comuni sono i beni “globali”, l’atmosfera, il clima, i mari, la conoscenza, ma anche ormai, alcuni frutti della sapienza umana come Internet ed i brevetti. Si tratta di qualcosa che solo da poco possiamo percepire nella loro valenza comunitaria, da quando cioè sono stati ridotti a merce, ad accesso limitato, recintati con enclosures normative imposte dai più potenti. Viene in mente, come esempio di prevaricazione falsamente legale, il sistema di trattati imposto alle popolazioni angolchine (indiani), che non conoscevano la scrittura e tanto meno la codificazione giuridica, da parte degli americani del XIX secolo.

Un terzo ambito di beni comuni è costituito dalla scuola, dalla sanità, dall’amministrazione della giustizia, dalle reti energetiche, informatiche e di telecomunicazione, la sicurezza alimentare. Potremmo concludere affermando che i beni comuni sono la concretizzazione di quel conclamato quanto astratto diritto alla vita di cui un essere umano è portatore per natura, ma di cui, come afferma Amartya Sen, uno dei pochi economisti filosofi portatori di un etica, troppi non riescono a far valere il pur valido titolo di proprietà.

Se è lecito il dibattito sulla presenza dei privati nella gestione dei beni del terzo tipo, occorre difendere con accanimento la natura comune di quelli del secondo elenco, tenendo conto che è giusto remunerare la conoscenza e lo sforzo intellettuale di chi ha realizzato scoperte od invenzioni, ma che il sistema dei brevetti, delle privative industriali e della proprietà intellettuale in genere necessita di una revisione profondissima, che tagli le unghie a troppe rendite di posizione ed ad autentiche porcherie, come i prezzi di certi farmaci e di beni o servizi che fanno la differenza tra vita o morte.

Quanto all’acqua, alle foreste, ai mari, al patrimonio genetico, ogni eccezione rimossa, il loro carattere comune non può neppure essere oggetto di discussione teorica: è la linea del Piave che ci separa dalla schiavitù o dalla barbarie. Un vero e proprio manifesto dei beni comuni, di ampio respiro giuridico e filosofico, è stato scritto da un docente torinese, Ugo Mattei. Non tutto è condivisibile della sua analisi, che risente, ad avviso di chi scrive, di alcune incrostazioni collettiviste, ma il nocciolo duro del pensiero di Mattei è importante, e potrebbe essere un valido punto di partenza per animare un vasto fronte di oppositori del liberismo trionfante, tanto sul piano programmatico che etico.

Un elemento di notevole complessità è quello del rapporto tra bene comune e proprietà, che, in base alla definizione del nostro codice civile (art. 832) è il “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, non rilevando, a questo fine, la pur decisiva questione del carattere pubblico o privato della proprietà. Il bene comune, per natura intrinseca, o per scelta normativa, è qualcosa che può essere fruito da tutti i membri di una comunità per la soddisfazione di interessi o bisogni diffusi. Attiene più alla sfera della decisione diretta, della partecipazione, dell’immediatezza, piuttosto che a quella della rappresentanza o della burocrazia. Mattei, e prima di lui Garrett Hardin, un biologo economista autore della “Tragedia dei beni comuni”, puntano i loro strali polemici sull’”homo economicus” potentissimo ed istituzionalizzato nella forma della persona giuridica. Sotto forma di società anonima, o di “corporation”, egli agisce in uno spazio di non diritto, creando di fatto una novità assoluta, “la giuridicità globale funzionale ad esigenze di predazione, la quale rende impossibile l’esercizio della sovranità economica statuale. “ (Mattei, op.cit.)

Le posizioni di Mattei richiamano le parole di fuoco pronunciate già alla fine degli anni sessanta del novecento da Giacinto Auriti sul potere “proprietario” delle società sullo stesso patrimonio e volere dei soci, sino a sollecitare una profonda riformulazione del concetto di persona giuridica. Oggi, nel pieno di un’ondata storica volta alla distruzione dello spazio pubblico a favore di monopoli ed oligopoli privati, occorre riprendere con coraggio quei concetti e quelle idee, tanto più che la stessa iniziativa privata, la libertà d’intrapresa ed il diritto di proprietà non sono minacciati da ideologie collettiviste, ma, paradossalmente, vengono vanificate dalla potenza devastante di società multinazionali ed entità finanziarie senza volto, che espellono chiunque da ogni mercato in nome del… Mercato.

Dell’uomo non si può fare mercato, e spira una bruttissima aria quando si deve ripetere un’ovvietà del genere, dunque non si può fare mercato di ciò senza il quale l’uomo non può sopravvivere. Milioni di persone devono rimettersi in marcia per recuperare elementi comuni ed istituzioni condivise. La battaglia per l’acqua bene comune – pubblico è già un’altra cosa – può costituire una vigorosa spinta per riorientare le popolazioni su posizioni di contrasto, antagonismo, aperta opposizione, disobbedienza ai dettami dell’economicamente corretto, dunque del mercatismo cinico delle società di capitali per (pessime) azioni.

Già si sta costituendo un movimento intellettuale che si autodefinisce benicomunismo, ossia ideologia della rivendicazione dei beni comuni. Il liberismo, tutto sommato, se lo merita: il suo egoismo, la cieca violenza con cui abbatte diritti sociali, identità nazionali, spazi comunitari, culture tradizionali, usanze locali, non potrà che comportare la rinascita di collettivismi. Il benicomunismo nascente, peraltro, sembra lontano dal materialismo di ascendenza marxista.

L’antidoto è la riscoperta della comunità, il ritorno di una morale privata e pubblica, fondata sulla sobrietà e sulla concretezza del bene comune, sulla convivialità che Ivan Illich chiamò vernacolare, per sottolinearne la gratuità e la lontananza dal paradigma economico. Ripartiamo dall’acqua, che è di tutti, non dello Stato padrone e nemmeno della multinazionale di turno.

Verifichiamo allora, brevemente, qual è lo stato dell’arte, a partire da due casi drammatici uguali e contrari. Il capitalismo collettivista dei sovietici ha praticamente cancellato il lago d’Aral, 68.000 km quadrati (come Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Veneto insieme), per la smania infondata di irrigare deserti, allo scopo di destinarli ad immense aree cotoniere, cerealicole e arboricole. Canali mal fatti, scarsa o nulla impermeabilizzazione, perdite fino al 75% dell’acqua, insistenza negli errori, follie in nome dell’economia di proprietà statale, ed ora il lago è ridotto ad una pozza stagnante di circa 7.000 kmq. In Canada e Stati Uniti, l’acqua destinata al sottosuolo per provocarne lo spezzettamento e la risalita dei gas petroliferi di scisto (shale gas) sfregerà enormi aree dei due Paesi, provocando la fine dell’economia agricola di intere regioni e sprechi incalcolabili di risorsa idrica, oltre ad inquinamenti dagli esiti imprevedibili. Follia in nome dell’economia di mercato. C’è poi differenza tra i due disastri ? Meno male che gli elevati costi estrattivi stanno frenando la corsa dei nuovi petrolieri. Benedetto il crollo dei prezzi!

Una risorsa, l’acqua, rinnovabile, certo, ma non inesauribile, che deve essere valutata alla luce del criterio di impronta ecologica, ovvero di un consumo che non ecceda la capacità di rigenerazione, e del principio di indisponibilità ad essere trasformata in merce liberamente commerciabile.

Si sta già scatenando, sottotraccia, la battaglia per l’accesso all’ “oro blu”, e si rivela azzeccata la frase di Mark Twain “Il whisky è per bere, l’acqua per combattere”. E’ sufficiente rammentare il ruolo del fiume Giordano nel conflitto israelo-palestinese, la violenza repressione turca nel Kurdistan, in cui è presente la volontà di controllo indiretto dell’acqua di Tigri ed Eufrate, o il conflitto indo pakistano nel Punjab. Attualmente, sono almeno cinquanta i contenziosi internazionali legati al controllo dell’acqua.

In Spagna, ad esempio, la fiorente economia vinicola è strettamente legata alle acque del Tago e del Duero, che ha però desertificato ampie aree della Castiglia, mentre il fiume Ebro alimenta l’uso civile ed industriale della Catalogna e l’agricoltura valenciana, ma il suo sfruttamento ha svuotato di popolazione gran parte del territorio aragonese, diventato pietraia. Scelte politiche e strategiche, decisive e di lungo periodo: non si può essere dipendenti da aziende interessate a conseguire profitti immediati e noncuranti dei territori in cui operano.

L’Italia non fa eccezione, e ben conosciamo la scadente qualità delle infrastrutture idriche, specie del Sud, che arrivano a perdere fino al 40 per cento dell’acqua. Del ciclo dell’acqua piovana, la risorsa idrica disponibile è solo del 7 per cento. L’utilizzo è per il 45 per cento irriguo, per il 35 industriale ed energetico e per il 20 serve gli usi domestici. Dall’unità nazionale, le leggi hanno costantemente riconosciuto il carattere di interesse generale della risorsa, definendo le acque come pubbliche sin dal Regio Decreto 2644 del 1884, dunque in epoca liberale. La norma sabauda riconosceva altresì la legittimità dell’uso comune, dimostrato dalla consuetudine. Fu poi il fascismo a riordinare la materia, con il Testo Unico delle acque pubbliche nel 1933, che ne dispose il preciso censimento a cura delle province. L’anno successivo, il bieco governo del Duce istituì l’obbligo per i comuni di depurare le acque, rendendo l’approvvigionamento idrico un diritto universale a favore della cittadinanza come vero e proprio obbligo delle istituzioni pubbliche.

Anche la legge Galli del 1994 ha poi ribadito il controllo e la gestione idrica in mano ad aziende o consorzi a capitale pubblico, che, a tutt’oggi, forniscono direttamente la cittadinanza (servizio in house). Purtroppo, l’acqua non è sfuggita ai sacerdoti europei del liberismo, che hanno emanato varie direttive comunitarie per costringere i governi ad aprire ai privati il delicatissimo settore. Il rischio, già fortissimo, di espropriare le popolazioni della loro acqua, e, di converso, quello di non risolvere le carenze, si moltiplicherà se verranno approvati i due micidiali trattati Europa Usa sui servizi (TISA) e sull’industria (TTIP), che consegneranno nudi gli Stati ed il loro cittadini al potere delle grandi corporations, cui è assegnato anche il potere di fare causa dinanzi ad un tribunale privato agli Stati ex sovrani, se intralceranno i loro piani di profitto.

Si profila una vera e propria emergenza acqua, tanto sul versante della disponibilità (siccità, aumento della popolazione umana e della zootecnia, dispersione, eccesso di usi industriali, ecc.), quanto del pericolo immediato di ritrovarsi nelle mani di gestori internazionali delle forniture o della depurazione. Di più: gli investitori privati non potranno che pretendere concessioni di lunghissimo periodo a prezzi stracciati, giacché le spese per costruire, adattare, ammodernare reti idriche sono gravose, e non si prestano al mordi e fuggi tanto amato dagli squali dell’economia contemporanea.

Un precedente inquietante è quello di Cochabamba, Bolivia, dove il servizio dell’acqua, privatizzato su ordine dei soliti noti, FMI e Banca Mondiale, ha fatto scoppiare una sanguinosa rivolta per rincari di cinque o sei volte il vecchio prezzo. Laggiù hanno poi vinto gli abitanti, ma da noi, sarà dura, con una popolazione rimbambita dalla propaganda, resa inerte dalla rassegnazione e da settant’anni di martellante pacifismo, ed in un quadro giuridico costruito dai nemici dei popoli ed approvato dai cosiddetti “rappresentanti” di una democrazia tanto finta quanto ben confezionata da sembrare vera a troppi ingenui.

Dunque, irrevocabilmente, l’acqua è e deve rimanere un bene comune amministrato e gestito con criteri pubblicistici. Fuori dai piedi gli speculatori, specie oggi, che l’acqua è più preziosa e rara di ieri. L’economia è l’organizzazione della carenza da parte di chi vive nell’opulenza. L’acqua pura è considerata il petrolio del futuro, e la sua importanza anche per la produzione di energia pulita la rende pedina essenziale del grande gioco geopolitico globale.

Non può, non deve cadere nelle mani dei mercanti.

Il dominio del mercante, la sua triste etica utilitaria, la sua indifferenza al bene, devono essere ribaltate. La proprietà, la gestione, l’uso e la distribuzione dell’acqua sono patrimonio indisponibile delle popolazioni coinvolte e delle istituzioni che si sono date. Una società anonima, una persona giuridica, quindi una finzione senza volto, non può comandare su un bene di cui non posiamo fare a meno. Se accettassimo anche questo, meriteremmo di scomparire, come popolo e persino come semplice gregge.

Perduta la moneta sovrana e l’indipendenza militare, regalata all’Unione Europea gran parte dell’iniziativa legislativa, colonizzati culturalmente dagli americani incolti, non possiamo perdere il controllo delle fonti della nostra vita.

Il pericolo estremo, in genere, moltiplica gli istinti, ed i popoli hanno riflessi di vita. Tuttavia, troppe sovversioni del senso abbiamo subito.

Le tre streghe di Macbeth, motori e propulsori della tragedia scespiriana, si danno appuntamento sulla landa ove dovranno incontrare il signore di Glamis. Prima di uscire di scena cantano insieme : “E’ brutto il bello, è bello il brutto…” : solo il male può pronunciare tali parole. avide di potere, fredde, consapevoli del male che fanno. Il potere mondialista, quello dei privati padroni del mondo, è riuscito a produrre una sconcertante inversione di significati, come le streghe di Macbeth. Per loro, davvero, il brutto è bello ed il bello è brutto. Hanno invertito le polarità della morale e dell’etica, del buon senso e della ragione, dei sentimenti. Il loro odio contro di noi può creare solo caos e disordine, fino a rubarci la vita.

L’acqua è vita, vedremo se sapremo evitare il destino di certi cetacei, che, inspiegabilmente, si suicidano “spiaggiandosi” sulla costa. Questo sta accadendo di noi, questo, forse, meritiamo.

Roberto PECCHIOLI

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