La famiglia M. apparteneva alla media delle famiglie mediamente borghesi, mediamente istruite, mediamente religiose. I suoi membri non avrebbero mai superato i confini di questa virtuosa mediocrità. Se qualcuno di loro ci avesse provato, i sensori mediometrici della famiglia avrebbero subito dato l’allarme.
Occorre precisare che la famiglia M. era in realtà la somma di quattro nuclei diversi. Il primo comprendeva nonno Ermanno e nonna Aida, con cui viveva zia Elvira, sorella maggiore del nonno. Venivano poi le famiglie dei figli, Vanni e Marco, e della figlia Lisa.
I due maschi s’erano mediocremente sposati con due medie nuore dalle quali entrambi avevano avuto rispettivamente tre figli medi, il che faceva sei mediocrità equamente distribuite tra maschi e femmine. Anche la figlia aveva rimediato un marito assolutamente medio, ma insieme – si suppone – avevano procreato un figlio stranamente ribelle e anti-conformista, la classica pecora nera.
A Natale i vari M. si aggregavano per il tradizionale pranzo. Per oltre vent’anni il rituale ritrovo s’era dipanato senza incidenti e difficoltà seguendo un palinsesto immutabile quanto un’etichetta di corte: il liturgico scambio di auguri e di doni, i celebrati tortellini in brodo della nonna, il suo speciale cappone con la verza, il panettone artigianale dal costo esorbitante.
Il clou della giornata era la recita pomeridiana, sacra rappresentazione cui la nonna procurava un canovaccio biblico, una scarna scenografia e una rigorosa regia. Ai nipoti veniva assegnato il ruolo di evangelisti narranti o di dramatis personae della natività. Si poteva essere esonerati da questa esibizione solo all’apparire della prima peluria puberale. Vanni e Marco, resi abulici dall’ingorgo digestivo e dall’abuso di alcolici, applaudivano sempre fuori tempo. Di solito, prima che il sacro mistero fosse finito, si addormentavano emettendo sgradevoli grugniti.
Era un Natale medio, rassicurante nella sua imperturbabile banalità, nei suoi automatismi ben oliati. Ma quell’anno tutta la famiglia M. era in agitazione. La nonna specialmente mostrava un’aria funerea e angosciata. Sul Paese incombeva lo spettro di una spaventosa epidemia e il governo aveva emanato norme severe, una sorta di Decalogo, per disciplinare gli assembramenti natalizi.
Nonna Aida, che era donna di fede, approvava le intenzioni del governo. Erano certo per il bene di tutti. Le sembrava inconcepibile che qualcuno potesse insinuare intromissioni diaboliche nelle misure politico-sanitarie. “Come può essere satanico un governo che impone tanti dolorosi sacrifici al Paese pur di salvare il Natale, la festa di Nostro Signore?”.
Tuttavia, ragioni mediche minacciavano di annullare la recita annuale. L’aveva chiamata “La pace nel mondo, la pace nel cuore”. Testo semplice ma ricco di concetti edificanti. Aveva rinunciato ai Re Magi e agli angeli perché erano rimasti disponibili due soli nipoti impuberi – Matteo e Giacomino. Essendo entrambi maschi, aveva pensato di usarne uno en travesti per il ruolo della Madonna, dopo aver accarezzato l’idea di assumere lei quella parte.
Ma come conciliare l’intermezzo teatrale con le norme di sicurezza? Calcolò mentalmente gli spazi. Sedici persone, tra consanguinei e parenti acquisiti, cui bisognava aggiungere il fidanzato di Filippo. Qui i ragionamenti della nonna ebbero un intoppo. Pensò che avrebbe preferito una fidanzata. Cominciò perciò a flagellarsi con vari epiteti – retriva, moralista, bacchettona etc. – finché non fu sicura di aver rimosso quell’anacronistico pregiudizio.
Tornò a riflettere. V’erano i due divani del salotto, due poltrone e le sedie. Bisognava però lasciare tra ogni spettatore almeno un metro e mezzo, come previsto dalla circolare ministeriale. Avrebbe dovuto disseminare il pubblico qua e là per la casa. Dopo aver tentato inutilmente la quadratura del cerchio, rinunciò. Si consolò pensando che era un doveroso sacrificio. Quando comunicò ai familiari la notizia, le parve di notare in loro una reazione di sollievo più che di delusione.
Per rifarsi almeno in parte, la nonna improvvisò una breve pantomima. Indossò il vecchio camice da medico del nonno e si mise sulla soglia di casa, esaminando chi entrava. Si sforzò di assumere un’aria arcigna mentre brandiva il termoscanner e ispezionava i documenti. Si era infatti stabilito che i convitati dovessero esibire un attestato di tripla vaccinazione, un certificato di tampone negativo ottenuto nelle 24 ore precedenti e indossare la mascherina regolamentare. Una volta appurato con ostentata pignoleria che tutto fosse in regola, la nonna diceva “passi pure, signore (o signora), lei è in regola! Le auguro un buon Natale!”.
Rachele, una delle nipoti, la riprese con tono petulante “nonna, non si può dire Natale!”. I figli e le nuore le confermarono che era sconveniente l’uso di quel termine, per rispetto delle diverse etnie e fedi religiose. In effetti, il fidanzato di Filippo era di origine algerina, e nessuno sapeva se fosse ateo, cristiano o musulmano. La nonna corresse dunque in “le auguro un buon pranzo!”.
Da questo meticoloso esame clinico fu esentato solo Luca, la pecora nera, l’unica nota stonata in quel mirabile accordo. Unico della famiglia renitente al vaccino, al tampone e persino alla mascherina. Per non mancare alla tradizionale riunione aveva promesso di usare come dispositivo profilattico il casco del motorino. Dopo varie perplessità e indagini scientifiche, gli era stato concesso, a patto che osservasse una doppia distanza dagli altri.
V’era in quell’accoglienza così scrupolosamente regolamentata una certa rigidità. I sorrisi erano nascosti dalle mascherine. Baci e abbracci erano esclusi a priori. Giulia, una delle nipoti più grandi, cultrice di yoga e filosofie orientali, suggerì il namasté. Mostrò come si dovevano congiungere le mani sul petto e portarle alla fronte inchinandosi con grazia.
All’ingresso degli ospiti il nonno mimava un gesto goffo, privo di ogni fascino orientale. Nonna Aida si sforzò invece di imparare il giusto movimento. Anche gli altri fecero del loro meglio, tranne zia Elvira, che lamentò dolori artrosici, e Luca, che ripiegò provocatoriamente sul saluto romano.
Il presepe era incombenza del nonno, che ne aveva tramandato nel tempo l’aspetto tradizionale, con asino, bue, pastori etc. Ma quell’anno Filippo vi volle metter le mani. Il nonno temette innovazioni sacrileghe. Tuttavia, alla fine, pareva il solito presepe. Unica nota eccentrica era un bambin Gesù girato bocconi nella mangiatoia. “Mostrando le terga alla società, dimostra di rifiutarne la struttura capitalistica”, spiegò il nipote, che studiava filosofia e attribuiva a Cristo tendenze proto-marxiste.
“Mi fa piacere” disse il nonno “che almeno san Giuseppe e la Madonna siano rimasti gli stessi”. “Ma dai, nonno, guarda bene!” fece Filippo. Il nonno si avvicinò alle due figure, aguzzò gli occhi. Non vedeva nulla di strano. Il nipote indicò la statuina barbuta, “questa è la Madonna” disse. Poi, indicando la donna col velo “quello è san Giuseppe”, e rise compiaciuto, imitato da Mohamed, l’amante magrebino.
Intanto la nonna cercava di risolvere il problema dei posti a tavola. Si doveva tener conto delle distanze di legge. Dopo essersi consultata con le nuore e la figlia, convenne che l’unica soluzione fosse sparpagliare un po’ ovunque i commensali. Alcuni avrebbero quindi pranzato in sala, altri in cucina, altri nella camera da letto dei nonni, altri in quella di zia Elvira. Luca sarebbe rimasto in bagno.
Il ministero raccomandava di lasciare aperta una finestra nel locale in cui si pranzava, per favorire il ricambio d’aria e ridurre i rischi di contagio. Così, fu necessario tenere aperte quattro finestre, nonostante la temperatura esterna fosse scesa sotto lo zero. Marco pose la questione di chi, degli adulti, dovesse sedere vicino alla finestra aperta.
Si convenne che tale diritto spettasse al soggetto più fragile, quello cioè che più andava protetto dal rischio di contagio. Il dubbio era tra nonno Ermanno e zia Elvira. Si valutarono i dati clinici. Il nonno soffriva di diabete, ipertensione, scompenso cardiaco, gastrite. La zia di insufficienza renale, artrite reumatoide, artrosi ed enfisema polmonare. Il nonno aveva 87 anni, la zia 91. Infine prevalse il partito della zia, anche se dovettero penare per convincerla a sedersi accanto alla finestra, da cui spirava un’aria gelida.
Prima di sedersi a tavola, il nonno, com’era consuetudine, volle sentire il Papa. Quando vide il Santo Padre in tivù, Giacomino esclamò: “che buffo!”. “Zitto” lo redarguì la mamma. Il Papa indossava una lunga tunica nera con ricami dorati a forma di pentacoli, croci rovesciate, teste di capro e simboli misteriosi. “Ma che ostrega s’è messo?” chiese zia Elvira inforcando gli occhiali. “Sono simboli satanici” sentenziò Filippo, che aveva una farcitura di esoterismo. “Saranno i paramenti previsti dalla nuova riforma liturgica” ipotizzò la nonna.
Il Pontefice impartì la benedizione urbi et orbi tracciando strani segni nell’aria: “in nomine irtap et iilif et sutirips itcnas”. Zia Elvira toccò perplessa il suo apparecchio acustico. “Che ostrega ha detto?”, chiese. “Ha letto i nomi della Trinità al contrario. È chiaramente un rito satanico” insisté Filippo. “Ma no” intervenne la nonna “sarà greco o aramaico”.
E, per cambiar argomento, sottopose ai due nipotini una difficile questione: chi era il papà di Gesù? San Giuseppe, rispose Matteo. Giacomino era invece convinto che Gesù fosse figlio di Babbo Natale. Rachele intervenne con fare saputo: “Gesù era figlio di Dio”. La nonna prese la Bibbia, la aprì al Vangelo di Luca e cominciò a snocciolare un’interminabile genealogia secondo cui Gesù era figlio di Giuseppe, figlio di Eli, figlio di Mattàt, figlio di Levi, figlio di Melchi, figlio di Innài etc., fino a Enos, figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio. L’elenco, lento e ieratico, le prese circa cinque minuti. Ma Giacomino restò della sua opinione.
“E adesso tutti a sanificarsi!”, esortò la nonna, come ritemprata da quella lectio divina. Per evitare contaminazioni, ognuno si era portato il proprio flacone di disinfettante e una salvietta personale, col nome scritto sopra. L’operazione portò via un’altra mezz’ora buona. Una volta purificati, tutti si recarono al posto loro assegnato.
Il programma consueto prevedeva ora il coro di Natale. Ma il ministero aveva interdetto i canti. Il virus poteva approfittare delle note per viaggiare nell’aria. La nonna suggerì un coro a bocca chiusa. Lisa, più prudentemente, propose un coro mentale. Questa parve la soluzione migliore. Si decise di cantare tutti insieme “Astro del ciel”. Ognuno chiuse gli occhi per intonare interiormente la melodia. Seguirono due minuti di assoluto silenzio. Infine, riaprendo gli occhi, la nonna disse “bene! Ora possiamo mangiare”. “Ma io non ho ancora finito la canzone”, protestò Giacomino.
L’atmosfera era visibilmente tesa. Tutti temevano di violare sbadatamente qualche regola sanitaria. La conversazione si impaludò nelle solite banalità. Giacomino si affacciò sull’uscio della sala. “Vero che Babbo Natale porta i regali solo ai bambini negativi?” chiese. “Sì, con il brodo!” esclamò il nonno, che soffriva di un’incresciosa sordità, aggravata dal fatto di trovarsi così distanziati. Per ovviare tutti alzavano la voce. Allarmata, Lisa propose di mangiare in silenzio. Fece notare che continuando in quel modo avrebbero sparso nell’aria una massa di goccioline di saliva, permettendo al virus di accumularsi sotto forma di aerosol.
La teoria di Lisa parve a tutti scientificamente inoppugnabile. Tanto più che la temperatura s’era notevolmente abbassata, per via delle finestre aperte e ora, quando qualcuno parlava, si vedeva uscire dalla bocca una nuvola di vapore acqueo, forse impregnato da milioni di invisibili virus. Marco diramò il nuovo ordine anche ai ragazzi. La casa cadde in un silenzio tombale.
Si sentiva solo zia Elvira che a cadenze regolari si lagnava del freddo. Le misero addosso alcune coperte e una borsa d’acqua calda. Infine, parve assopirsi. Così, anche quell’ultima voce si spense. Trascorsi alcuni minuti, Vanni, interpretando l’inquietudine comune, indossò la mascherina e si avvicinò alla zia con grande cautela. Restò in ascolto. Vi furono alcuni attimi di trepidante attesa. “Respira”, disse.
Giunsero così, sempre in silenzio, al cappone con la verza. Marco stava mimando qualcosa alla cognata, cercando inutilmente di farsi capire, quando il suo telefono squillò. Rispose circospetto. Scambiò due parole. Poi, emettendo meno saliva possibile, disse alla moglie Rita “è Ale, ti vuole salutare”. Lei prese il telefono che il marito le porgeva e lo portò all’orecchio. “Nooo!” urlò Lisa, agghiacciando tutti. Avevano violato una regola cruciale: non passarsi mai il telefono. Persino zia Elvira, che stava russando come un controfagotto, si svegliò di soprassalto.
Rita lasciò immediatamente cadere lo smartphone, che si sfasciò sul pavimento. Era come se un serpente a sonagli l’avesse morsa. “Mio Dio” sussurrò, e corse in bagno per sanificarsi. Aprì la porta e trovò Luca seduto sul water che mangiava il cappone. Era senza casco. Aveva pure chiuso la finestra. Rita osservò inorridita quel volto oscenamente nudo, che respirava liberamente. Era indifesa, esposta ai mortali miasmi di un non vaccinato. Incapace di sostenere emozioni così violente, emise un gemito e cadde svenuta.
Luca si alzò dalla tazza, poggiò la coscia di cappone nel bidè e fece per soccorrerla. Marco si precipitò urlando “non toccarla! Stai lontano!”. Luca tornò a sedere. “Ma che cazzo succede qui?”, borbottò con tono flemmatico. Lo zio lo guardava pieno di astio: “maledetto incosciente!”. Lui si alzò, prese il suo casco, scavalcò il corpo esanime di Rita e si avviò verso l’uscita. Gli altri nipoti si affacciarono dubbiosi dalle camere in cui erano stati confinati. “È morta?” chiese Giacomino.
“Sapete cosa vi dico?” disse Luca prima di andarsene, “che mi sembrate tutti matti”. “Chiamiamo il pronto soccorso!” suggerì Anna, moglie di Vanni. “È tutta colpa dei non vaccinati” commentò Rachele, che l’aveva sentito in tivù. La nonna teneva lo sguardo basso, costernata. Zia Elvira aveva ripreso a ronfare. Lisa ebbe l’impulso di trattenere il figlio, ma il marito la fermò. “Lascia che vada, quell’irresponsabile”, disse con tono insolitamente virile. Gli avrebbe mollato volentieri un ceffone, ma le disposizioni sanitarie gli vietavano i contatti ravvicinati. Perciò si limitò a un “sei contento? Sei riuscito a rovinarci il Natale”. “E questo voi lo chiamate Natale?” rispose Luca. “A me sembra un Mortale”. Freddura che i familiari trovarono inopportuna, pur non avendola capita.
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