8 Ottobre 2024
Appunti di Storia

ASPETTANDO LA RIVOLUZIONE: (l’assassinio di Federico Florio, Prato 11 gennaio 1922) – 3^ parte – Giacinto Reale

 

Solo una fede, che ha raggiunto le altitudini religiose, solo una fede può suggerire le parole uscite dalle labbra ormai esangui di Federico Florio.

(Mussolini su “Il Popolo d’Italia” del 20 gennaio 1922)

 

 

  1. “fascisti, questa volta muoio”

 

Il 21 gennaio del 1922, su “Il Popolo d’Italia” appare un disegno di Mario Sironi con la scritta “Ricordiamolo”, e si può ben dire che mai appello fu più ascoltato, a Prato, ma anche in tutta l’Italia squadrista.

 

“Sono con voi. Deponete il mio bacio sulla fonte del nostro Grande Martire. Il suo sacrificio non sarà perduto, ma affretterà il trionfo della fede comune(1)

Questo il telegramma che Mussolini indirizza al Fascio di combattimento pratese, accompagnato da un articolo apparso sul Popolo d’Italia del 19 gennaio e intitolato “Vincolo di sangue”:

 

Nessun Partito d’Italia, nessun movimento nella storia recente italiana può essere confrontato al Fascismo; nessun ideale è stato come quello fascista, consacrato dal sangue di tanti giovinetti. Se il Fascismo non fosse una fede, come darebbe lo stoicismo e il coraggio ai suoi gregari? Solo una fede, che ha raggiunto le altitudini religiose, solo una fede può suggerire le parole uscite dalle labbra ormai esangui di Federico Florio.

Esse sono un testamento. Sono semplici e gravi come un versetto del Vangelo. I fascisti di tutta Italia le raccolgano e le meditino, in silenzio, continuando a camminare, sempre più risoluti, verso la meta. Nessun ostacolo ci fermerà. (2)

 

Non passa nemmeno un mese, che il Fascio pratese deve lamentare un’altra vittima. Si tratta del giovane operaio Ischiras Calamai, di 21 anni, che vive e lavora nella valle del Bisenzio, dove, per i motivi già detti, sono particolarmente marcati i caratteri sovversivi.

La sera del 13 febbraio del 1922, con altri fascisti, lui, che non è ancora iscritto, ma ha solo fatto domanda, parte dalla sede del Fascio di Coiano, diretto a Santa Lucia, per “invitare alcuni elementi facinorosi a rassegnare le dimissioni dal partito comunista”.

Questa la tesi ufficiale, sulla quale è lecito però avanzare dei dubbi. Più probabilmente si tratta di un tentativo di intimidazione…finito male, però.

A Cartaia Vecchia, dall’interno dell’abitazione di due noti fratelli comunisti (uno è soprannominato “Lenin”, e il padre è il capo del locale nucleo degli Arditi del Popolo) viene aperto il fuoco a fucilate contro i fascisti, che fa un morto e un ferito.

Calamai è la vittima. Pochi giorni prima, quasi con un triste presentimento, aveva detto ai camerati:

“Il sentirmi solo mi piace e mi inorgoglisce. Mi possono uccidere, se vogliono. Ma anche dopo morto, costerò sempre più io di loro”

Nel martirologio fascista pratese, che comprenderà otto Caduti (e non sono pochi, per una cittadina, tutto sommato, di piccole dimensioni), il nome di Calamai si affianca a quelli del diciassettenne Guido Lottini e del diciottenne Arnaldo Puggelli, vittime entrambi della infausta giornata di Sarzana, il 21 luglio dell’anno prima.

L’esperienza fascista di Lottini è stata breve (si era iscritto al Fascio il 18 aprile), ma improntata da subito all’attivismo più deciso, e tragicamente segnata.

Infatti, nei primi giorni di luglio viene ferito, a Porta Fiorentina, da un pregiudicato comunista, senza per questo rallentare la sua azione, che, già all’uscita dell’ospedale, lo vede nel capoluogo presente, con i suoi camerati, alle esequie di Annibale Foscari.

Sempre con loro, una ventina, parte la sera del 20 luglio per raggiungere il concentramento squadrista che da Avenza deve muovere su Sarzana.

Ferito dal fuoco poliziesco, è soccorso da due Pratesi della sua squadra che, trasportandolo a braccia, si avviano verso l’ospedale. Un viaggio che si rivela un’odissea. Prima alcuni Arditi del Popolo, di quelli che si sono appostati in paese, ma non si erano fatti vivi, aggrediscono i suoi accompagnatori e impediscono che al ferito venga dato quel sorso d’acqua che disperatamente chiede, poi anche alcuni militari intervenuti, impauriti, non si comportano molto meglio.

Essi, infatti, allontanano i due squadristi e “depositano” il ferito, adagiato su una barella, sul marciapiede antistante la sede della Pubblica Assistenza dell’Olmo, da dove, solo in un secondo tempo saràportato all’ospedale.

Qui, prima di spirare a sua volta, gli toccherà di assistere agli ultimi minuti di vita del sedicenne Gastone Bartolini, giunto da Firenze, che sarà il Caduto più giovane della tragica giornata. In ospedale lo raggiungerà anche la notizia della morte di Arnaldo Puggelli, che con lui è venuto da Prato.

Quest’ultimo ha condiviso con Lottini una singolare circostanza. Anch’egli, al momento della partenza, è reduce da una grave aggressione, che lo ha portato in ospedale ed ora lo fa zoppicare, senza però che la menomazione gli impedisca di “esserci”.

Fortunatamente rimasto incolume dopo lo sconsiderato fuoco ad altezza d’uomo di Carabinieri e militari sul piazzale della stazione, cerca salvezza dirigendosi verso le campagne con altri, finchè, rimasto isolato, arriva al Magra e poi al Romito.

Raggiunto, però, da una delle squadre miste Arditi del Popolo e contadini che stanno battendo la campagna, mentre cerca di sottrarsi alla cattura, è colpito, a distanza ravvicinata, da un colpo di fucile all’addome, esploso da uno sconosciuto al quale forse credeva di poter chiedere aiuto.

Il suo corpo sarà ritrovato solo qualche giorno dopo e trasportato poi a Prato per i solenni funerali.

Morti dolorose, ma che non fermano la ormai inarrestabile marcia del fascismo. Anche a Prato, dove, ai primi del 1922, alla originaria squadra costituita e comandata da Florio si affiancano altre formazioni, che nel nome vorranno sempre ricordare il Caduto: la “Disperata Florio” e la “Arditi Florio”. Seguiranno, a maggio, altre due formazioni, intitolate ai Martiri di Sarzana, la “Guido Lottini” e la “Arnaldo Puggelli”.

Una crescita continua, che farà sì che diventi abituale una forma di piccola provocazione “da caffè”, presto diffusasi in tutti i quartieri, e della quale c’è frequente traccia nella memorialistica e nelle narrazioni relative al periodo. Vediamone una descrizione, anche se, per la prevenzione della fonte, va presa con cautela, come dimostra l’assoluzione a processo dei presunti responsabili, ammessa a denti stretti nella frase finale:

 

La sera del 4 maggio 1921, Brunetto Langianni (uno dei più conosciuti fascisti pratesi ndr) con un gruppo di squadristi entrò nel caffè Vestri, fuori Porta al Serraglio. Con atteggiamento di aperta sfida, si avvicinarono al banco, ordinando “quattro ponci alla fascista”.

Dopo la consumazione, Giovanni Galli (noto squadrista, soprannominato “il fascista di Tavola” ndr) continuò a provocare con sguardi e con motti le persone presenti, in particolare Guido Conti, operaio metallurgico iscritto alla Camera del Lavoro. Nacque così un diverbio tra i due, che continuò anche fuori del caffè.

Galli tirò fuori la pistola contro Conti, e gli sparò un colpo, a cui ne seguì un altro da parte di Langianni che era poco distante con le altre camicie nere. Il “fascista di Tavola” tirò ancora due volte, gambizzando il suo presunto avversario.

Gli squadristi scapparono via, lasciando a terra Conti che, ferito alla coscia sinistra, fu trasportato all’ospedale.

Anche per questa vicenda, le camicie nere sarebbero state assolte. (3)

 

Questo mentre il fascismo cittadino, che ha avuto, come detto, un’origine essenzialmente combattentistico-studentesca, viene assumendo, nel corso del 1922 in particolare, caratteri più spiccatamente popolari ed interclassisti, con l’assunzione in proprio della tutela delle classi meno abbienti, deluse dalla precedente inconcludente campagna social-comunista che puntava a”fare come in Russia”, ma in realtà si crogiolava nel burocraticismo più deteriore.

Una conferma la troviamo nelle conclusioni di un “insospettabile” libro, che, edito dalla stessa Amministrazione Comunale nel 1974, con molte cautele e qualche sovrabbondante aggettivazione, a proposito del successo delle iniziative fasciste tra le masse operaie e contadine, scrive:

 

Questo spiega perché nel 1922 i sindacati fascisti nelle loro azioni apparentemente a favore della classe operaia trovassero resistenza nel ceto imprenditoriale. Questi infatti erano un pilastro del fascismo e quindi ne volevano condizionare la forza e l’azione.

Le nuove organizzazioni sindacali fasciste erano quindi spinte, per accattivarsi le restie masse operaie, a manovre demagogiche e a prese di posizione populiste, a favore della classe operaia, ad un “rivoluzionarismo tricolore“ che destavano pur tuttavia qualche incertezza nella classe industriale. (4)

Su questo stato di cose incide certamente l’influenza che – ancorchè ormai lontani da Prato – esercitano sull’ambiente fascista cittadino due personaggi come Tamburini e Malaparte.

Della camicia “nera, di tela grezza da ferroviere, mentre i fascisti “bene” se la facevano fare di seta dalla camiciaia” del primo, abbiamo già detto. Per il secondo sarà sufficiente ricordare che nella seconda metà del 1922 si farà tentare, sia pure per un breve periodo, come è nella sua natura irrequieta, dall’avventura sindacalista.

Sarà a Firenze, dove lo chiamerà proprio il vecchio sodale pratese, che lo iscriverà al suo “Fascio autonomo”, a fare il Segretario Generale dei Sindacati aderenti alla fascista Camera Italiana del Lavoro. Breve periodo, abbiamo detto, ma intenso ed entusiasta, come traspare da questa sua lettera a Piero Gobetti del settembre:

 

Ma credo sia questo il momento di dare prova che l’intelligenza italiana è capace di mettersi, non solamente a chiacchiere, al servizio del proletariato. Di quello stesso che ieri era rosso e oggi è tricolore. Bisogna dare un’anima a questo popolo, spesso popolaccio.

I giovani italiani di ingegno e di cultura debbono essere i primi ad essere innanzi al popolo. L’umanità grande significa che anche l’Italia deve essere grande. Noi Italiani dobbiamo cominciare dall’Italia, è logico. Passeremo poi all’umanità. (5)

Malaparte darà del sindacalismo una sua personale interpretazione, che lo porterà a scontrarsi con Edmondo Rossoni, il dirigente fascista ufficialmente preposto al settore. Ne uscirà soccombente, con la conseguenza che, dopo la Marcia, la sua Camera Italiana del Lavoro sarà sciolta, e dovrà ripiegare sul contentino della nomina a responsabile della propaganda all’estero per la costituzione di Fasci e Sindacati in ogni Paese d’Europa.

A quella data, e già da un pezzo, anche gli ambienti lavorativi nella “sua” Prato, saranno comunque completamente fascistizzati, anche con l’uso della forza.

La Camera del Lavoro, in verità, era già stata distrutta una prima volta nell’aprile del 1921, ed una seconda devastazione aveva subito nel gennaio del 1922, dopo la morte di Florio.

In questo caso, le conseguenze sono state più gravi, e l’organismo sindacale potrà riprendere la sua attività –sia pure parziale- solo a febbraio del 1923. Troppo tardi.

Le masse, facili agli entusiasmi ma anche ai cambi di bandiera, sono ormai convertite al verbo fascista e di buon grado accettano l’iscrizione ai nuovi sindacati.

Sem Benelli, parlando in piazza a marzo del 1922 aveva tracciato la rotta:

 

La nostra associazione vuole essere lontana dalla politica… la politica è la peste del mondo! La politica oggi non è più degna nemmeno di questo nome, è diventata una bassa speculazione di piccoli avvocati e di miserabili fannulloni, i quali, vivendo a spese della lotta di classe, a spese del Partito, covano nel loro piccolo cuore le più smodate ambizioni di governo senza sostanza, né capacità, né preparazione. (6)

 

Quando si arriverà alla Marcia, saranno circa seicento (e non sono pochi neanche questi, considerata la popolazione totale della cittadina) i Pratesi che raggiungeranno la Capitale. A Tamburini sarà assegnato il comando della “Legione Interna”, destinata a prendere possesso di Firenze (e lo farà, dopo un grosso diverbio con Balbo, per la intempestività di certe sue iniziative), mentre, alla sua partenza per Roma, sarà Malaparte a vantarsi (e non è vero) di essere il responsabile fascista nel capoluogo di Regione.

Per loro non è più tempo di quelle legnate con i “piazzaioli di Vaiano, di Campi e di Galciana” dalle quali eravamo partiti. Proseguiranno, con alti e bassi, la marcia nel fascismo, fino all’incarceramento –per motivi mai ben chiariti- ad opera dei tedeschi a Dachau del primo, dopo essere stato Capo della Polizia ai tempi della RSI, e allo (parziale, forse sì, forse no) innamoramento per il comunismo del secondo nel dopoguerra dominato insieme dal carisma togliattiano e dal fascino della Cina.

 

 

 

NOTE TERZA PARTE

  1. Maria Luisa Florio, Federico Guglielmo Florio, nella vita e nell’opera, Firenze 1924 (?), pag. 173
  2. (a cura di) Edoardo e Duilio Susmel, Opera omnia di Benito Mussolini, Firenze 1956, vol. XVIII, pag. 13
  3. Alessandro Bicci, Prato 1918-1922, Firenze 2014, pag. 172
  4. Rosangela degli Innocenti Mazzamuto, Le lotte sociali e le origini del fascismo a Prato, Firenze 1974, pag. 154
  5. Piero Gobetti, Scritti politici, Torino 1960, pag. 566
  6. Franca Tidda, Lotte sociali e sindacali a Prato 1919-1925, Firenze 2011, pag. 102

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