Da studente di ginnasio, sbarbatello capelli corti e lenti spesse, iniziai il percorso per confrontare le forze, in verità alquanto modeste (peso forma 56 kg su un metro e 74), là dove mi sembrava ci fosse agile la lingua e lesta la mano. Insomma mi convinsi come ‘nero è bello!’ e, nonostante alcune traversie e cadute di tono e pochezza di uomini e l’irrompere di idee bislacche, l’anagrafe m’ha fiaccato il fisico, dato colpi di spugna alla memoria, inceppato il pensare alto e la vivacità dell’eloquio, tuttavia la primitiva scelta monocromatica, con una spruzzata abbondante di rosso libertario, s’è aggrappata simile ad edera fedele alla misura del tempo e partecipe dell’esistenza. Così ebbe a morire ‘martire e volentieri’, come trascrisse un cronista assistendo al rogo in piazza Campo di Fiori del ‘monaco’ Giordano Bruno (la citazione è un omaggio benevolo per l’amico Luca), ed io al termine ‘martire’ che non mi compete vi ascriverei ‘irriverente’ in linea con quella giovinezza descritta da Robert Brasillach ne Il nostro anteguerra.
La sezione Istria e Dalmazia, più comunemente nota come ‘la Colle Oppio’, si trova scendendo pochi gradini all’interno dei ruderi delle Terme di Traiano – oggi, persa la sua originaria fisionomia, è luogo d’incontro per i giovani dei ‘fratelli d’Italia’ e dintorni. All’inizio anni ’60, già in declino nel suo attivismo spavaldo e rissoso, manteneva il suo fascino, noi la si chiamava ‘il Covo’ in memoria di via Paolo da Cannobio a Milano (storica sede de Il Popolo d’Italia e del primo Fascio, 1919), un fascino un po’ sepolcrale con le sue luci soffuse busti del Duce pareti decorate con frasi celebri del Mussolini ultimo. Libri pochi, manici di scopa bastoni catene e gambe di sedie tanti… Qui partimmo – io ero l’ultimo arrivato e partecipe, credo, alla prima azione di emulo dello squadrismo – per dare assalto alla redazione e tipografia del Paese Sera e de L’Unità nel cuore di San Lorenzo, quartiere storicamente precluso al Fascismo e ai suoi eredi.
E, tra la sezione e le panchine del giardino, temprai l’animo e il fisico con l’ausilio di un ragazzotto poco più grande di me, esule istriano, orfano, ospitato con poco affetto da dei parenti, divoratore di libri e di buona cultura (suo tramite conobbi del Futurismo i poeti Marinetti e Majakovskij); mentre non mi sottraevo alla compagnia di Zambo, reduce dal fronte russo, un omone grande e grosso, lento nei movimenti a causa dei piedi congelati, fede e forza incrollabili, un ‘barbone’ diremmo, uso dormire sotto le stelle e scontrarsi con ‘i compagni’ quasi fosse il nostro Nume tutelare. Così tentai, da spaurito uccellino travestitosi con variopinte penne di pavone, rendere mio il motto latino ‘mens sana in corpore sano’ e l’ideale spartano, aristocratico, espresso da Platone e tanto caro ad Adriano Romualdi, della kalòs-kai-agathìa (la virtù della bellezza fisica e dell’animo nobile).
Accanto al gusto provocatorio di citare il Duce e le sue lapidarie esternazioni (il professor Taraborelli, un pretaccio dai capelli rossi, tronfio e modesto, mi regalò l’insufficienza ad un tema proprio perché avevo virgolettato il pensiero di Mussolini), qualche motto un po’ retorico ma, ingenui e irruenti, convinti che ci rappresentasse appieno. ‘Quando nel mondo la canaglia impera, la patria dei fascisti è la galera’. In effetti, se non erro, in origine al termine ‘fascista’ v’era quello di ‘onesti’. Conta poco perché l’onestà – essere contro tutto e tutti ci rendeva tali e tali ci sentivamo e tali eravamo nei comportamenti di fronte all’età del kali-yuga (quell’età oscura ove ‘i bianchi e i rossi giudicheranno alla rovescia’, come si legge in una sestina di Nostradamus). E mi viene a mente la figura di Franco, maresciallo d’artiglieria della caserma Giulio Cesare, a Rimini, amico sincero e camerata d’animo nobilissimo, morto giovane (non sono più in grado e voglia di pensare e scrivere ‘troppo presto’), che sul manubrio della bicicletta, ovviamente nera, aveva incollato un adesivo su cui aveva scritto ‘i fascisti non rubano’. In un tempo arcaico, simile alle Piramidi d’Egitto i giardini pensili di Babilonia il foro di Roma, vestigia di cui, oggi, sembra non esserci più neppure traccia come se un vento malsano e sabbioso ne abbia ricoperto lo stesso ricordo.
Se ci si scazzava fra noi, se qualcuno veniva allontanato, magari con qualche pedata al culo, lo si faceva per indegnità perché s’era tirato indietro durante uno scontro o mancato di stile con la donna di un camerata – O.G. se ne andò di sua libera scelta quando, sulla torre di lancio, a Guidonia, non ebbe il cuore di lanciarsi nel vuoto e sul telone. Ebbe il cuore di riscattarsi, pochi anni dopo, però, calandoci un paio di sedie dal tetto della ‘casermetta’ con cui ricavammo bastoni per affrontare ‘i rossi’ durante la commemorazione di Paolo Rossi, studente di Architettura, volato giù dalla facoltà di Lettere, e di cui venimmo accusati essere gli assassini. E Nerio prese a ceffoni due giovanissimi aderenti perché avevano avuto il torto di comprarsi delle sigarette con gli spiccioli del fondo-cassa. Non ricordo, neppure durante il congresso di Pescara, era l’estate del 1965, quando riempimmo di insulti e monetine – e cercammo di mettergli le mani addosso – Giorgio Almirante, tanto che se la legò al dito, vendicativo, chiedendo la mia testa mentre già mi trovavo a Regina Coeli, insomma, nessuno di noi gli gridò del ladro… Ora ladro dichiarato, pur se in altra area politica, lo si fa vice-segretario di una striminzita funerea squallida fiammella e altri, troppi, non si vergognano di proporsi sulla scena politica dopo aver amministrato, circondati da ben più che ‘i quaranta ladroni’, quello che, ironia oggi, si definiva ‘bene comune’…
Dopo gli anni della ferocia, del terrorismo diffuso, dell’asfalto bagnato del sangue generosamente disperso, della P 38 facile e del detonatore pronto a provocare la deflagrazione, sono arrivati i ‘professorini’ – con il papillon gli occhialetti rotondi la puzza sotto il naso e l’arroganza del primo della classe. In fondo paghi che qualche guru della sinistra, modello Massimo Cacciari, desse loro una pacca sulla spalla o di un trafiletto di poche righe su qualche rivista patinata. Fossero rimasti nella fogna e la voce nella strozza, poco danno, al contrario eccoli dare patenti di coerenza e di novità e di brillanti intuizioni dispregiando tutti coloro che li avevano preceduti, ridotti a rozzi mazzieri manovalanza golpisti e stragisti, accodandosi così a quella sinistra che aveva lucrato sulla ‘strage di stato’. Branco nel branco per poter spolpare poche ossa… Del resto darsi la definizione di ‘nuova destra’ là dove, comunque si voglia intendere, tutto fummo – e le nostre radici ce lo ricordano – che borghesi e codini e ansiosi di scranni e poltrone, è già di per sé indice da pollice verso. Su di loro non il nostro inutile disprezzo; su di loro l’assordante silenzio come dopo il passaggio della meteora. Un lampo e tutto è finito, tutto intorno tace…
Come, in spiaggia, con lo stecco al centro d’una montagnola di sabbia e a ciascuno tocca dare una spalata ora qua ora là e a pagar penitenza chi lo fa cadere. Infine cosa resta? nulla, solo tempo sprecato e mala compagnia. Il famoso ultimo cerino o la sedia in meno in quelle festicciole in casa, anni ’50, un po’ patetiche ma in fondo ancora di una Italia ‘sana’. E ti aggrappi a quel tuo essere ostinato nel difendere un solitario sì, consapevole come esso sia il frutto maturo di tanti no e molteplici negazioni e consapevoli rifiuti. Un sì che si traduce nei libri che leggi e quelli che scrivi, nei sogni che danno ali al volo ardito, negli ideali a cui hai legato concetti quali ‘onore’ e ‘fedeltà’, in piccole comunità sparse e pronte ad ospitarti e raccogliere le tue parole…
Eppure la tentazione, sì, la radicata e cattiva abitudine ti spinge ancora a prendere posizione, schierarti là dove, suggeriva Evola, non ci si difende, ma si muove incontro al nemico, anche se sei costretto a coabitare sovente (coabitazione da tastiera, per fortuna) con ‘alleati’ (leggasi quanto scriveva Drieu la Rochelle nel suo testamento) o compagni di strada o fratelli di lotta, (mai l’uso frettoloso del termine ‘camerata’, che si deve conquistare e non elargire a pioggia buonista e democratica), che sono prossimi a suscitare il disgusto e non la stima. Bene.
Qualche giorno fa una giornalista – da un popolo di poeti a quello di scribacchini non male per chi ha annoverato Dante – ha tenuto a ricordare d’aver avuto una buona educazione in famiglia borghese (e la lotta di classe? E l’annientamento di quella borghese quale luogo d’ogni nefandezza?) ma che, nonostante ciò, esortava imperiosa a menare i fascisti… Rullo di tamburi grida di guerra scandalo e per i moderati della destra berlusconiana e dintorni orrore e lagna. Tutti – o quasi – a sentirsi offesi sorpresi in tempi in cui i cattivi, pur se vestiti di nero e con nere bandiere, vengono retrogradi e feroci dalle terre del Califfato, e non dal dialogo dalla solidarietà dall’incontro dalle chiacchiere di un’Europa ed Italia svirilizzate. Io, invece, retrogrado e ferocemente avvinto alle radici primigenie (bastoni e barricate), Vecchia Guardia, Soldato postumo, ‘emme rossa uguale sorte fiocco nero alla squadrista’, penso che così le cose trovano il luogo del giusto del vero del bello (come si caratterizzano le idee di Platone), insomma che la strada e la piazza vanno conquistate e che, se ci si trova di fronte il nemico, tanti o meno tanti chi se ne frega, ci si guarda e, sicuri di non avere la mala compagnia dei professorini e dei furbetti del quartiere, s’è certi che si va e che nessuno si tira indietro. Boia chi molla o Odino! o, alfine, faccia al sole e in culo al mondo… Come ebbi lezione da Angelino Rossi, ‘prima mena e poi discuti’…