Il simbolo dei campionati mondiali di calcio invernali del Qatar è il gesto di chi, all’atto della premiazione, ha rivestito in mondovisione il capitano della nazionale argentina vincitrice Lionel Messi con la tunica araba chiamata bisht. Quel momento resta come immagine e metafora non di un evento sportivo, ma di un mondo e di un tempo. Peraltro, il fuoriclasse di origini marchigiane difficilmente si sarebbe potuto sottrarre all’imposizione, poiché è un dipendente dell’emiro del Qatar, proprietario del Paris Saint Germain, la squadra francese in cui milita, che gli corrisponde più o meno quaranta milioncini annui.
Uguale disagio a rifiutare di indossare la palandrana – un aperto atto di sottomissione – avrebbe avuto il campione francese sconfitto, Mbappé, anch’egli del PSG, a libro paga del Qatar. E a libro paga sono risultati membri autorevoli del parlamento europeo – uno degli enti più inutili, dannosi e costosi del pianeta – come l’avvenente vice presidente greca Eva Kailli, l’italiano Panzeri e chissà quanti altri. Il ritrovamento di ingenti somme di denaro presso esponenti politici, rivelatisi corrotti, camerieri ben pagati di chi comanda davvero, fa capire sino a quale punto il malaffare sia ai vertici delle istituzioni politiche e soprattutto mostra chi comanda davvero. Diceva un grande intellettuale, Giano Accame, che il potere ce l’hanno coloro di cui non si può dire male. E’ un esercizio da consigliare all’opinione pubblica, se non fosse del tutto inutile: tra panem et circenses e servitù volontaria, il Dominio vince tra gli applausi.
Se volessimo fare una battuta su Panzeri e compagni, e sulla gentile, progressista signora Kailli, messa in ulteriore difficoltà dalle confessioni del suo giovane amante italiano (uno dei tanti portaborse parlamentari pagati da noi) potremmo dire che la parte politica che rappresentano è riuscita a imporre un tetto al denaro contante: quello di casa loro. Stranamente coincidenti sono le dichiarazioni della politica ellenica e del presidente della federazione calcistica internazionale Gianni Infantino sul Qatar: entrambi definiscono il paese del Golfo Persico “un paladino dei diritti umani”, a cui non possiamo impartire lezioni morali, il che, ahimè, è vero, visti i pulpiti occidentali. Infantino, che nei giorni del campionato mondiale si è esibito in varie dichiarazioni “politiche” in linea con l’agenda mondialista e progressista, si è detto incapace di comprendere le critiche al Qatar, per lui un modello di virtù e integrazione dei lavoratori immigrati. Poderoso caballero es Don Dinero, potente cavaliere è messer denaro, scriveva quattro secoli fa Quevedo.
Cerchiamo allora di capire che cosa è davvero, in che consiste l’enorme potere delle monarchie petrolifere del Golfo, in particolare quella qatariota, che in mezzo al deserto ha organizzato l’evento sportivo più importante e costoso al mondo dopo le Olimpiadi. Intanto, gli stadi e le infrastrutture: secondo uno dei giornali simbolo del progressismo liberal, il britannico Guardian, la costruzione dell’immenso baraccone legato all’evento calcistico è costata la vita di seimilacinquecento operai, quasi tutti immigrati africani e asiatici Impressionante, ma ben poco è trapelato nella “libera” stampa e politica d’Occidente. Adesso sappiamo perché: Don Dinero.
Il grande vincitore dei mondiali di calcio è lo stesso che tiene in pugno una parte rilevante delle istituzioni – politiche ed economiche – europee, lo sceicco Tamim Bin Hamad Al Thani, dominus del fondo QIA (Qatar Investments Autorithy) e non solo in quanto, attraverso il Qatar Sports Investment (QSI) è proprietario del Paris Saint Germain, valutato quattro miliardi di euro. Il fondo sovrano del Qatar, controllato personalmente dall’emiro, ha un fatturato di quattrocentocinquanta miliardi di dollari e partecipazioni bancarie, finanziarie, energetiche, immobiliari, nel mondo della comunicazione, dello sport e della moda in tutto il mondo.
Sport e politica percorrono strade destinate ad incrociarsi. Non solo lo sport ha smesso da tempo di essere tale, ma non è soltanto un lucroso affare. E’ soprattutto uno strumento politico utilizzato da Stati e governi per promuovere se stessi, rigenerare e ripulire la propria immagine internazionale. Il Qatar ha una popolazione di 2,7 milioni di abitanti, il settanta per cento dei quali immigrati praticamente senza diritti, inseriti in un sistema di lavoro, la kafala, che ne fa degli schiavi. Nessuna indignazione da parte dei virtuosi paladini dei diritti umani della nostra parte di mondo. In alto, sono impegnati a contare il denaro sparso a piene mani dagli sceicchi, in basso siamo felici di assistere a eventi come i campionati di calcio, il gran premio che apre la stagione motociclistica, i campionati di padel (il simil tennis che piace alla gente che piace), quelli di pallamano e, a seguire, nel 2023 di judo e nel 2024 di nuoto.
Nel portafogli qatariota, oltre a ricche sponsorizzazioni a squadre come l’indebitatissimo Barcellona, figurano molte altre entità sportive europee. Inezie, rispetto agli affari che contano: con buona pace delle prescrizioni della finanza islamica, Qia è titolare del 15 per cento delle azioni della Borsa di Londra ed è entrata nel gruppo finanziario Barclay. In Germania, spicca il 17 per cento del capitale di Volkswagen, mentre sono diventati qatarioti alcuni dei brand più noti della Gran Bretagna, come i magazzini Harrod’s, l’iconico grattacielo The Shard – il più alto del Regno Unito, il famoso Hotel Ritz. Il fondo è azionista della metropolitana londinese e della catena di supermercati Sainsbury’s. Sembra che gli sceicchi abbiano più proprietà nel Regno Unito che la stessa corona britannica.
Negli Usa, centro dell’impero di Don Dinero, oltre a molte importanti proprietà e incroci azionari, i tentacoli del Qia si allungano sul grattacielo Empire State Building, di cui possiede azioni per 622 milioni di dollari. Denaro, profitto e simboli che sembrano marcare il territorio come padroni, non solo a fini di lucro. In Spagna, il fondo qatariota è presente in Iberdola (gigante dell’energia), nel turismo e nel colosso commerciale El Corte Inglés. Dopo avere concentrato le sue operazioni in Francia (ove ha acquisito quote di Vivendi, Air Liquide, Engie, Vinci, Orange, Veolia e naturalmente Paris Saint Germain) e nel Regno Unito, il Qia ha ampliato le sue attività anche in Italia. Nel 2015, con un investimento da due miliardi di euro acquisì la proprietà dei grattacieli del nuovo quartiere milanese di Porta Nuova, salvandolo da un clamoroso insuccesso di vendite che stava travolgendo anche la giunta comunale di sinistra. Importanti investimenti nel turismo di élite fanno della Costa Smeralda un’altra colonia del QIA, oltre ad altri poli del lusso e al progetto aeronautico Air Italy.
Il costo del “loro” campionato di calcio è stato stratosferico: duecentoventi miliardi di dollari, oltre dieci volte quello delle edizioni precedenti, ospitate in Brasile e Russia. Per offrire al pubblico italiano i circenses del pallone, la Rai ha sborsato almeno duecento milioni di euro. Dietro i lustrini e l’ostentazione di ricchezza, silenzio di tomba sul regime schiavista imposto a centinaia di migliaia di poveracci e sui caduti del lavoro (almeno dodici a settimana per anni) ) uccisi, feriti e resi invalidi dall’assenza di regole e protezioni, che hanno permesso a noi goderci lo spettacolo in poltrona.
Una ONG, Fair/Square ha dato un nome e un cognome a ciascuno dei casi esaminati. Impressiona la vicenda di un giovane nepalese che aveva pagato una forte somma per emigrare nel Golfo, dove lavorò per alcuni mesi alle impalcature dell’Education City Stadium, per un salario assai modesto. Morì d’infarto a ventiquattro anni, dopo giornate lavorative di dodici ore, sette giorni su sette, con temperature prossime a cinquanta gradi. Per le statistiche locali, la sua morte non ha relazione alcuna con il lavoro svolto. La vedova ha ricevuto un indennizzo inferiore a duemila dollari. Anche Amnesty International, pur legata al mondo delle ONG e delle istituzioni finanziate dai miliardari “filantropi”, ha denunciato le condizioni di vita e lavoro degli immigrati, tutti regolari, nel senso che sono gestiti secondo il sistema “kafala”. Denaro a fiumi in alto – compreso il personale politico straniero di servizio – ma insostenibili condizioni, lavori praticamente forzati, non di rado mancati pagamenti, orari interminabili senza giorni di riposo. In altre parole, schiavitù legalizzata, giacché kafala significa patrocinio, un meccanismo diffuso in vari paesi del Medio Oriente.
Il sistema, la cui origine è nella pesca tradizionale di perle, sfrutta le persone inserendole in un labirinto da cui è difficile fuggire. Permette di bypassare la burocrazia dei permessi di lavoro e dei visti, conferendo uno statuto speciale agli immigrati, patrocinati da caporali-padroni (kafeel) che hanno i mezzi legali per schiavizzare i lavoratori stranieri. Il patrono può cancellare in ogni momento il permesso di residenza, condannando il malcapitato all’espulsione, spesso senza ricevere le proprie spettanze; non è permesso cambiare attività senza l’autorizzazione della kefala; gli intermediari riescono a lucrare sino a un terzo dei salari. Gli stipendi sono diversi a seconda dell’origine nazionale. In Libano il salario di un filippino è mediamente il triplo rispetto a quello di un collega bengalese.
In Qatar, i lavoratori stranieri (la maggioranza della popolazione) sono privi anche di protezione sindacale, stante il vigente divieto di associazione sindacale. Nel 2017 il governo si impegnò con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro a eliminare la kefala e riconoscere un salario minimo di 275 dollari mensili entro quest’anno. Secondo Amnesty International, le riforme sono inapplicate e la schiavitù resta istituzionalizzata, come in diversi altri paesi della regione. Qualcuno, intanto, continua a riempirsi le tasche senza vergogna. Talora, come si è visto, facendosi paladino dei diritti umani e dell’accoglienza.
Nel silenzio generale, senza il minimo moto di ripulsa di opinioni pubbliche anestetizzate, questo è il retroscena delle luci, degli stadi, del lusso sfrenato esibito in diretta televisiva a spettatori convinti di assistere al trionfo dell’una o dell’altra selezione calcistica. Le valigie di denaro trovate a parlamentari europei e loro collaboratori non sono che gli spiccioli di un sistema che – al di là dell’azione specifica del Qatar e di altri – dimostra un imponente progetto di sottomissione dell’Europa a interessi e valori estranei, a cui collaborano attivamente le classi dirigenti – economiche e finanziarie – e i maggiordomi politici di servizio.
Nessun riguardo per i diritti umani che tanto diciamo di amare, per l’ inclusione”, altra parola magica d’Occidente, per il lavoro di masse di dannati della terra che non trovano – stranamente – difensori o almeno coraggiosi divulgatori di verità. Solo volgare servilismo, assai ben pagato. Non colpisce più neppure l’indifferenza dei popoli europei, da tempo privati di identità, di amor proprio e di qualunque altro valore che non sia il denaro, il consumo, la difesa a ogni costo di un cadente benessere individuale. Chiusi in casa davanti allo schermo, applaudiamo Messi e Mbappé ignorando il sangue su cui è stato costruito il Colosseo mediatico di cui siamo spettatori passivi.
Perché, a Bruxelles e a Francoforte, a Doha o altrove, non dovrebbero trattarci da servi sciocchi? Per il popolo, feste, farina e forca, come nell’apocrifa citazione dei re borbonici. Evviva la servitù volontaria diventata sottomissione, evviva le valigie piene di petrodollari. Gaio, il Titanic si approssima all’iceberg al suono dell’orchestra e dei registratori di cassa.