Rispetto al filo conduttore dei miei precedenti articoli (focalizzati su aspetti storici di carattere soprattutto mitico-tradizionale e che avrei intenzione di riprendere più avanti) vorrei ora fare una piccola deviazione prendendo spunto della recente uscita dei pezzi dell’amico Fabio Calabrese dedicati alla “Ahnenerbe casalinga” dove, menzionandomi, ricorda quelle informali riunioni triestine in occasione delle quali ho avuto il piacere di conoscerlo.
Si è trattato di incontri che ci hanno consentito di ascoltare le considerazioni di Fabio attorno a vari interessanti temi (l’indipendenza culturale della civiltà europea, la preminenza genetica delle nostre radici paleolitiche rispetto a quelle neolitiche, la negazione della provenienza mediorientale degli Indoeuropei, la riaffermazione dell’esistenza ed importanza delle razze umane, la critica all’idea di un’origine africana dei nostri antenati, ecc…): tutti argomenti che in larghissima parte mi hanno trovato in completo accordo. Per alcuni di questi vorrei ora proporre qualche riflessione dal mio punto di vista, anche perché Fabio giustamente ricorda come “la nostra Weltanschauung non richieda un totalitarismo di tipo staliniano” e quindi consenta spunti e contributi di tipo più o meno diversificato. Le note che seguiranno non hanno ovviamente la pretesa di rappresentare nulla più del mio personale pensiero, che si è formato soprattutto sugli autori vicini al cosiddetto “Tradizionalismo integrale” e quindi lungo percorsi forse non del tutto coincidenti con quelli di Fabio.
Come ricordato da Gianfranco De Turris – e per sgombrare subito il campo da ogni possibile equivoco – direi innanzitutto che il cosiddetto “metodo tradizionale” di indagine non trascura affatto i risultati cui pervengono le ricerche scientifiche, ma piuttosto li utilizza secondo altri parametri e punti di vista; un tanto perché forse i miei scritti precedenti possono aver dato l’impressione di un certo sbilanciamento nelle fonti utilizzate, magari proprio dall’analisi della bibliografia citata (che ho iniziato ad inserire a partire dal mio terzo articolo non certo per esibire una inesistente erudizione accademica, ma per venire incontro alla richiesta di un lettore di avere dei riferimenti più precisi). Se quindi anche il paleontologo Roberto Fondi ricorda come non possano in fondo esistere contrasti tra quanto asserito dalla scienza moderna e quanto affermato dalla cosmologia tradizionale, è anche vero che Giovanni Monastra ed il genetista Giuseppe Sermonti ricordano come l’obiettività scientifica sia in fondo una chimera, in quanto spesso dallo stesso materiale di partenza due ricercatori possono arrivare a conclusioni differenti, anche se ambedue vere, magari contenendo misure diverse di verità. Inoltre, va detto che nessuna legge ineluttabile impone che la spiegazione scientifica della natura vada fatta solo attraverso il paradigma “meccanicista”; il meccanicismo infatti non coincide con la scienza tutta, ma ne è solo una particolare modalità di interpretare i fenomeni. Ad esempio, mantenendo sempre un saldo rigore logico, partendo dagli stessi dati si possono fornire spiegazioni perfettamente coerenti di certi processi anche in una cornice che potremmo definire “olista”. A mio avviso, quindi, il dato scientifico non può assolutamente essere ignorato (saremmo fuori dal nostro tempo se lo facessimo), ma nemmeno assolutizzato, quindi piuttosto va letto alla luce di altri elementi – “lumeggiato” direbbe Evola… – quali ad esempio le testimonianze più o meno dirette di chi era “sul campo” a vedere come effettivamente sono andate le cose: i popoli con i loro Miti e la Tradizione della quale, chi più chi meno, sono comunque i portatori.
E credo sia significativo che questi Miti, pur anche confusamente, molto spesso rimandino a concetti legati, in termini storici, ad un’idea di ciclicità e di discontinuità temporale piuttosto che di lineare “progressività”, in termini geografici ad una lontana provenienza boreale piuttosto che africana, in termini antropogenetici a mitiche origini sovrumane piuttosto che subumane.
Sono punti sui quali cercherò, con il presente e con i prossimi articoli, di proporre qualche piccolo approfondimento, a cominciare da quest’ultimo.
Per quanto concerne il tema delle origini divine, non vorrei annoiare il lettore con inutili ripetizioni e mi permetto di indirizzarlo a quanto avevo già espresso negli scritti precedenti, mentre invece preferisco soffermarmi su quelli che, a mio avviso, sono gli aspetti più problematici della teoria evoluzionista; una teoria che, da un punto di vista “perennialista” non viene assolutamente accettata, sia da quanto dichiarato dai vari “interpreti” della Tradizione (Evola, Guenon, ecc…), sia dalle analisi proposte anche studiosi esterni di tale corrente, che rilevano come uno dei suoi principali tratti distintivi sia proprio il deciso rifiuto dell’evoluzionismo.
In via preliminare, però, è indispensabile intendersi bene su cosa si intenda per la parola “evoluzione”.
Il genetista Giuseppe Sermonti significativamente rileva come ne esistano tre significati: miglioramento progressivo, adattamento a condizioni esterne e semplicecambiamento.
Quest’ultima accezione è probabilmente quella che più si avvicina all’originaria etimologia che, come già avevo ricordato in precedenza, deriva dal latino “volvere”, cioè srotolare, svolgere, e che quindi dovrebbe esprimere il concetto del dispiegamento delle possibilità di esistenza di un certo ente, già tutte contenute “in nuce” a priori; in pratica è più o meno la narrazione della “storia” di un certo soggetto e, in questi termini, credo che l’evoluzione possa essere accettata come una realtà di fatto. Direi inoltre che un tale concetto in qualche modo presupponga anche l’idea di una, pur relativa, “plasticità” dell’ente considerato, senza la quale non potrebbe sussistere nessuna “storia” da percorrere qualora lo stesso fosse dotato di caratteristiche del tutto fisse ed inamovibili.
E’ un punto sul quale torneremo, come anche sull’interpretazione dell’evoluzione in chiave di “adattamento”.
E’ invece nella sua accezione ormai più comunemente intesa, ovvero quella di un processo generale “progressivo” ed ascendente che da un “meno” conduce ad un “più”, che in un’ottica tradizionalista l’evoluzione viene respinta come logicamente insostenibile.
Come ricorda anche Fabio Calabrese, lo stesso Darwin aveva messo in guardia contro la possibile confusione tra idea di evoluzione e quella di progresso, dal momento che per lui il principio centrale era piuttosto costituito dalla “selezione naturale”, di per sé non necessariamente implicante il concetto di un miglioramento continuo; una pressione selettiva che nel corso del tempo avrebbe agito su una serie di varianti organiche generate da eventi del tutto casuali e, per i primi viventi (dei quali al tempo non erano ancora ben noti i meccanismi di trasmissione ereditaria del genoma), selezionando via via quelli più adatti e portando ad estinzione quelli meno. E’ tuttavia noto, come Darwin stesso raccontò nella sua autobiografia, che l’idea della selezione e della lotta per l’esistenza gli fu ispirata dal reverendo ed economista Thomas Malthus (che suggestionò indipendentemente anche Wallace): flagelli come carestie e povertà venivano interpretati come un benefico “pungolo di Dio” per la purificazione dagli inetti e lo sviluppo dell’umanità, per cui, su queste premesse, poteva essere piuttosto facile strutturare un’idea in prospettiva ascendente. Cosa che in effetti avvenne, se non ad opera di Darwin, quanto meno dei primi evoluzionisti, i quali non tardarono a sovrapporre e confondere inesorabilmente i concetti di “evoluzione” e di “progresso”. Una prospettiva che divenne sempre più onnipresente e che, ad esempio, portò Haeckel a formulare il famoso concetto “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, ovvero che le fasi della crescita embrionale ripercorrono i momenti attraverso i quali sarebbe passato lo sviluppo della specie (ma in ciò trovando l’opposizione del grande embriologo tedesco von Baer il quale invece riteneva che gli organismi si sviluppassero “dal generale al particolare”, e che quindi fosse unicamente per tale motivo che i caratteri più basilari apparissero nell’embrione prima di quelli specifici); ma era “lo spirito del tempo” e tutto doveva partire “dal basso” per andare “verso l’alto”, anche a costo di qualche piccolo ritocchino che sembra Haeckel apportasse alle immagini degli embrioni per rafforzarne la somiglianza nelle prime fasi dello sviluppo….
Il concetto di un andamento ascendente divenne la lente deformante attraverso la quale interpretare anche l’inizio della stessa vita a partire dalla materia inorganica, sempre sulla base di nulla più che di eventi del tutto casuali: un passaggio che, immancabilmente, non potè – allora come oggi – non provocare le maggiori riserve logiche, e non solo da parte di chi non vuole rinunciare all’idea di una divinità o di una intelligenza “creatrice” o “organizzatrice”, più o meno trascendente o “personale” – argomenti molto impegnativi che esulano da queste note – ma anche sul versante di una importante settore dello stesso mondo scientifico. Tra i tanti, Adolf Portmann contesta infatti l’uso, e l’abuso, del concetto di “caso” ogni volta che ci si trova davanti ad un fatto incomprensibile, mentre l’accademico Sergio Carrà acutamente osserva come “non è necessario essere cattolici integralisti per chiedersi come un organismo così complesso quale un essere umano possa essere solamente il risultato di una successione di eventi casuali”. Per alcuni filosofi della scienza, l’evoluzione progressiva – non potendo essere replicata ed osservata sperimentalmente in laboratorio – non risponderebbe nemmeno a quei requisiti di scientificità che dovrebbero fondarne una giustificata autorevolezza. Su questa stessa linea, vari ricercatori si sono anche posti l’interrogativo se tale teorizzazione non sia incompatibile con una delle leggi fondamentali della fisica, ovvero il secondo principio della termodinamica (o principio di Carnot), noto anche come “legge dell’entropia”, secondo la quale tutti i sistemi abbandonati a sé stessi tendono irrimediabilmente a degradare verso il disordine fino alla distruzione e non certo a migliorarsi secondo un perfezionamento continuo.
Altri studiosi hanno anche voluto sottoporre l’ipotesi evoluzionista ad una verifica di carattere statistico, arrivando a risultati a dir poco eloquenti. Teniamo presente, per avere un primo riferimento, che il numero di anni che si suppone sia passato dai primordi del “brodo prim
ordiale” ad oggi è pari a 10 elevato alla 9^ potenza (un miliardo di anni). Ebbene, il fisico Bogdanov stimò una durata molto più alta, cioè un numero di anni pari ad almeno 10 alla 15^ potenza (un milione di miliardi di anni) per arrivare alla formazione, per puro caso, di una molecola di RNA da parte dei nucleotidi componenti. Il matematico Guye calcolò che, avendo teoricamente a disposizione un numero di anni ancora più elevato, e cioè di 10 alla 243^ potenza, la possibilità che una “semplice” proteina si fosse formata per puro caso corrisponderebbe a 1 contro 10 alla 161^ potenza (cioè 1 seguito da 161 zeri); dal canto suo, Lecomte du Nouy valutò in 1 seguito da ben 252 zeri il numero di anni necessari per permettere alla pura casualità di generare la formazione di una sola macromolecola asimmetrica (elemento base della materia organica). Da notare che nel 1953 Stanley Miller era riuscito a produrre in laboratorio solo un semplice amminoacido, assolutamente non una proteina, e men che meno nulla di vivente; senza considerare che le condizioni del suo esperimento erano tutte fuorchè “casuali” ma scientemente e “teleologicamente” orientate per arrivare ad un preciso scopo.
Un’inconsapevole azione demiurgica, quindi….
E, ciononostante, ricordiamo sempre che non stiamo ancora parlando di esseri viventi.
Anche se retrodatiamo il punto di partenza al Big Bang e consideriamo che tutti i secondi trascorsi da quel momento fino ad oggi sono meno di 10 alla 18^ potenza, per il matematico Chandra Wickramasinghe la singola probabilità che la vita sia nata dalla materia inerte si rapporta ad un numero pari a 1 seguito da 40.000 zeri ! Secondo Salet non esiste una sola possibilità su cento miliardi di miliardi che serie casuali di mutazioni siano riuscite a formare, dai protozoi, un solo metazoo. In tutti gli esempi citati, quindi, il tempo dell’età stimata di tutto il nostro universo è incommensurabilmente più basso di quello teoricamente necessario; i matematici parlano di “inflazione statistica”, ovvero di numeri così infinitesimali che – uno su un miliardo uno su centinaia di migliaia di miliardi, poco importa – in pratica esprimono un possibilità praticamente pari allo zero. In effetti anche l’evoluzionista Jacques Monod non potè non ammettere – bontà sua ! – che la vita, secondo i canoni evoluzionisti, è il frutto di un vero e proprio “miracolo statistico”.
Una tale sequenza di elementi negativi portò nel 1950 a far dichiarare ad Albert Einstein: “Considero le dottrine evoluzionistiche di Darwin, Haeckel e Huxley tramontate senza speranza”.
La necessità dell’esistenza di un progetto a monte per arrivare ad un predeterminato risultato finale è stata espressa anche attraverso l’efficace concetto di “complessità irriducibile”, che pone in luce come non sia possibile che meccanismi biologici estremamente sofisticati e “compiuti” siano sorti per lento e progressivo accumulo di variazioni casuali: lungo la strada che li avrebbe condotti al risultato finale non avrebbero intanto potuto svolgere nemmeno parzialmente il loro compito e quindi, dimostrandosi inadatti alla funzione, sarebbero dovuti essere scartati dalla selezione naturale ben prima di giungere al traguardo.
Ma, in ogni caso, un altro aspetto che viene contestato alle teorie evoluzioniste-progressive, è che il presupposto di una maggior semplicità primitiva non trova alcun riscontro, né dal punto di vista biochimico, né da quello delle evidenze paleontologiche del materiale fossile.
Ad esempio, in termini genetici, la complessità di un microorganismo non è assolutamente inferiore a quella di una pianta o di un animale: dall’ameba all’uomo i geni sono, non solo nella funzionalità ma anche nel numero, fondamentalmente gli stessi e quindi ne consegue che la ragione della differenza morfologica tra le varie specie viventi non risiede nei costituenti chimici. Il solo fatto di procedere, dimensionalmente parlando, dal “piccolo” al “grande” non è di per sé un indicatore di andamento progressivo, anche perché allora non si spiegherebbe, ad esempio, il gigantismo dei dinosauri estintisi 65 milioni di anno fa e seguiti da specie molto più minute.
Si osserva invece una sostanziale successione di varie tipologie di organismi, di “tipi” in equilibrio; ma per costituire una prova dell’evoluzione progressiva sarebbe necessario che venga dimostrata una effettiva filiazione tra queste forme che si succedono. Ed è per questo motivo che gli evoluzionisti tracciano tra le varie specie “linee di discendenza” e postulano “antenati comuni” che però sono del tutto ipotetici e per nulla dimostrati. Se avessero ragione, dovremmo osservare una fase iniziale di forme molto simili tra loro, seguita man mano dalla progressiva differenziazione di queste, accanto ad un susseguirsi graduale ed ininterrotto di forme di transizione: organismi anche incompleti, “anelli di congiunzione” tra specie e specie ed ipotetiche forme che dovrebbero trovare posto alle teoriche biforcazioni dell’albero genealogico. Tutto ciò, invece, non si trova mai.
Si riscontrano invece molte specie ben separate, e tante anche estinte, alle quali sono rapidamente sopraggiunte altre, anche radicalmente diverse: ad esempio un caso eclatante è quello dell’ “esplosione” biologica del Cambriano che, anche per ammissione dell’evoluzionista Richard Dawkins, riguarda creature pienamente formate e (per loro) inspiegabilmente sorte all’improvviso, senza nessuna storia evolutiva alle spalle.
Darwin stesso ammise che l’assenza di qualsiasi catena graduata tra le varie forme vissute in passato, che denotavano un gran numero di specie le quali non sembravano avere né precursori né successori, costituiva “la più ovvia e seria obiezione che si possa fare alla teoria dell’evoluzione”. Ora, pur trovandoci ormai di fronte all’importante numero di circa 250.000 specie fossili, la documentazione a sostegno di una transazione progressiva dei viventi continua ad essere assolutamente carente.
Inoltre, nel corso del tempo, il numero totale delle specie non si è moltiplicato, come il “dogma” avrebbe richiesto: dall’Ordoviciano ad oggi (quindi su un arco di circa mezzo miliardo di anni) non appare nessun phylum organico nuovo, e così anche per le singole classi di ogni phylum.
D’altro canto, un’evoluzione di tipo filetico è in palese contrasto con l’esistenza di tante specie rimaste praticamente immutate dal Mesozoico o addirittura dal Cambriano fino ad oggi, considerando anche che l’ambiente è fortemente mutato molte volte; sono specie che avrebbero dovuto essersi estinte da tempo (come ad esempio il celacanto, dal Cretaceo), per essere sopravanzate da altre “più adatte” all’ambiente, dimostrando invece di essere miracolosamente riuscite a restare indenni dalla onnipotente pressione della selezione naturale. Ma evidentemente il ruolo di questa pressione non è poi così essenziale perché se, nella visuale evoluzionista, avrebbe dovuto far emergere e mantenere solo le caratteristiche di una qualche essenziale utilità per il vivente, è anche vero che in natura esistono caratteristiche che non sembrano avere alcuna finalità (colori, profumi, forme….) che Darwin stesso non riuscì mai a motivare, ammettendo di non essere spiegabili da nulla di necessitante; secondo Kaufman “il mondo vivente è abbellito da una sovrabbondanza di ordine” che sembra proprio avere una ragione in sé e del tutto diversa da quella utilitaristica.
Da una prospettiva non darwiniana, la selezione naturale è tuttavia un processo la cui esistenza non è mai stata negata da nessun biologo (semmai la sua incidenza) e che però sembra avere un ruolo duplice; in ogni caso, mai “migliorativo”. O si tratta di una funzione conservativa e tende, eliminando gli individui anormali, a mantenere le cose come stanno (ad esempio, una situazione uniforme oppure anche un equilibrio polimorfo); o anche può tendere, come ipotizzato dal genetista Vavilov, a spingere verso un marcato “adattamento” dei sottotipi, ma ciò a costo di una forte specializzazione che quasi sempre comporta un impoverimento biologico rispetto alla forma generale. Vavilov ritiene infatti che tale evento si sviluppi in genere nelle zone di confine o “di nicchia” dell’areale originario della specie, conseguenza della progressiva disattivazione di alcuni geni con annessa emersione di caratteri recessivi e prevalenza dell’omozigosi (mentre al contrario, al centro di origine, dove la specie non viene sollecitata dalla pressione selettiva, si verifica invece la più grande ricchezza di forme ed il massimo di variabilità; questo potrà essere un interessante spunto quando, tra alcuni articoli, torneremo sul tema delle origini umane).
Ma, oltre alla selezione naturale, Giuseppe Sermonti ci ricorda che operano altri due importanti meccanismi dell’evoluzione organica, peraltro anch’essi incapaci di assicurare un andamento “progressivo” del vivente essendo fondamentalmente conservativi, o anche potenzialmente degenerativi: lo scambio sessuale (che favorisce il continuo rimescolamento dei corredi genetici al fine di evitare che questi possano differenziarsi troppo) e la casuale mutazione genetica (che, su scala generale, tende a creare omogeneità o, al limite, ma solo a livello locale, una certa diversificazione). Quest’ultima, secondo le teorizzazioni evoluzionistico-progressive, dovrebbe portare ad un aumento di informazioni del genotipo, quindi rappresentare un elemento vantaggioso e migliorativo, per venire poi “esaltata”, fissata e diffusa dalla pressione selettiva: salvo il trascurabile fatto che mutazioni di questo tipo non sono mai state osservate. Invece si è quasi sempre constatato che le mutazioni genetiche sono di tipo ben diverso: o degenerativo, e causa di un vero e proprio percorso regressivo come ad esempio all’origine del fenomeno del parassitismo (e forse anche di forme ancora più visibili di modificazione morfologica ed atrofizzazione funzionale con “dismissione” di organi fino alla totale scomparsa – da non interpretare quindi come elementi “rudimentali” in via di formazione – sul tipo delle zampe per i serpenti che sarebbero derivati da lucertole) o, al limite, di tipo assolutamente “neutrale” ai fini della sopravvivenza della specie e quindi completamente indifferenti alla selezione naturale (posizione, questa, assunta dalla scuola “neo-classica” che fa capo ai genetisti giapponesi M. Kimura e T. Ohta). Appare quindi chiaramente come lo stesso fenomeno della mutazione genetica sia stato investito di un’importanza che pare non gli possa competere, e ciò non solo in termini “funzionali-qualitativi”, per le ragioni espresse poc’anzi, ma anche in termini “numerico-quantitativi”: si è infatti constatato come una precisa “taratura” di quell’ “orologio molecolare” (un artificio – sul quale torneremo quando affronteremo il tema delle presunte origini africane dell’uomo – che vorrebbe stimare la datazione delle varie specie viventi sul presupposto che queste si siano appunto generate unicamente secondo il meccanismo “mutazione-selezione naturale”) sia alquanto problematica, dal momento che secondo le sue stime ipotetiche, molti phyla dovrebbero essere teoricamente apparsi centinaia di milioni di anni prima rispetto a quanto effettivamente riscontrato dalla paleontologia. Un analogo ridimensionamento dell’impatto del meccanismo della mutazione genetica, anche se nel più ridotto quadro delle origini umane, può comunque essere desunto anche dalle ricerche di Pierre Grassè sulle mutazioni osservate in molte generazioni di batteri, che, moltiplicandosi ad un ritmo 400.000 più veloce degli uomini corrispondono ad un periodo evolutivo che per noi sarebbe di milioni di anni; ciononostante il ricercatore non riscontrò nessun cambiamento quantitativamente rilevante. Inoltre, circa una sessantina di anni fa, il genetista J.B.S. Haldane rilevò che, soprattutto alcune categorie di organismi, non avrebbero materialmente potuto “evolversi” entro il periodo di tempo a loro disposizione in quanto il ritmo delle mutazioni ipotizzate avrebbe dovuto essere accompagnato da un tasso di riproduzione della specie, che, ad esempio per i mammiferi è assolutamente troppo elevato e quindi del tutto irreale. Un problema che non risulta sia mai stato risolto.
Oggi invece sembra esservi un largo consenso attorno all’idea che il principale meccanismo di fondazione delle specie sia piuttosto costituito dall’isolamento geografico o riproduttivo, fattori che possono portare a diversificazioni importanti soprattutto attraverso il meccanismo della “deriva genetica” – casuale anch’esso, ma non implicante un errore di trascrizione del DNA trasmesso, come appunto avviene nella “mutazione” – un meccanismo sul quale è importante rilevare come la selezione naturale giochi un ruolo modesto o forse nullo.
Ma comunque, allargando ancora di più lo sguardo, nemmeno il ventaglio dei vari meccanismi che, in vario modo, possono impattare sul DNA (mutazione, selezione, sessualità, deriva….) sembra fornire una ragione convincente della grande varietà morfologica di tutte le specie viventi: in fondo il DNA non è altro che la “fabbrica delle proteine”, analogamente all’industria dei mattoni che fornisce il materiale di costruzione, in fondo molto simile tra tutte le forme viventi, ma che ha ben poco peso nel determinare l’architettura finale di ciò che verrà costruito: ciò non spetta al livello meramente biochimico – dove in effetti non è stato riscontrato alcun fattore morfologicamente specifico – ma ad un piano che è diverso e che ancora ci sfugge. E’ proprio su questo piano che risiede la ragione ultima della differenza, ad esempio, tra uomo e scimpanzè, pur accomunati da un 98-99% di materiale genetico in comune, una percentuale che quindi non deve per nulla stupirci.
Se nello stes
so ambiente biologico-scientifico vengono elaborate riserve sempre più stringenti al binomio darwinistico “mutazione genetica-selezione naturale” come causa principale delle grandi differenze morfologiche e funzionali tra le specie – la cosiddetta “macroevoluzione” – ciò assolutamente non implica che, d’altro canto, vengano negate possibili variazioni di ordine molto inferiore: si tratta della “microevoluzione” (che spesso, oltretutto, presenta un carattere involutivo), fenomeno ad esempio paragonabile all’attività dagli allevatori per selezionare diverse razze canine.
Qui tuttavia il discorso, a mio avviso, si fa un po’ più sfumato e problematico, in quanto bisognerebbe capire bene quali sono i confini precisi oltre i quali la “microevoluzione” non possa spingersi (anche considerando che quella di un allevamento non è certo un’attività naturale e spontanea dell’ambiente) e quanto peso abbia effettivamente il concetto di “stabilità” della specie: secondo me bisogna fare attenzione a tenere un punto di equilibrio tra due istanze opposte. Se da un lato non è accettabile la totale “fluidità” di forme pensata da Darwin (che non vedeva mai tipi individuali, per lui solo entità convenzionali, ma la cui ipotesi non trova conferma da alcuna evidenza paleontologica), d’altro canto non sembra nemmeno sostenibile un rigido “fissismo” delle specie, di matrice creazionista, fondato su un letteralismo biblico che ben volentieri lasciamo al mondo anglosassone ed agli USA in particolare. Più convincente può invece essere il concetto di una relativa “plasticità” del vivente che si sarebbe declinata attraverso un limitato ventaglio di possibili “variazioni sul tema” attorno a dei “tipi” principali, elaborazioni ed abbozzi che devono aver preso spunto da alcune forme base ma comunque senza mai spingersi, come è stato opportunamente rilevato, oltre ai confini tassonomici della “famiglia” (che per noi corrisponde a quella degli “Ominidi”).
Un certo grado di “plasticità” che dobbiamo necessariamente ammettere se – e qui veniamo all’Uomo – postuliamo una provenienza delle attuali scimmie, ed anche degli ominidi estinti, a partire da una forma molto simile, se non quasi identica, alla nostra. Sull’argomento specifico ho già avuto modo di scrivere qualche breve nota nel precedente articolo “L’Uomo originario e l’inizio dell’età paradisiaca”, quindi non tedierò il lettore con delle inutili ripetizioni, cercando qui solo di aggiungere qualche altro riferimento che credo porti nella stessa direzione.
Avevamo detto che la forma umana è estremamente generica e poco specializzata, apparendo tale non solo nei confronti delle scimmie attuali, ma anche in rapporto a quelle che probabilmente sono state per “involuzione” le sue progenitrici, quali, a vario titolo e misura, Australopitecine, Erectus, Habilis, Neanderthal ecc…: tutte linee più o meno laterali rispetto a quella centrale, la nostra. Linea “Sapiens” che quindi, come ben messo in risalto dall’importante studio di Cremo e Thompson (e che forse sta timidamente emergendo anche dai recenti reperti israeliani di Qesem), è anche molto più antica di quanto sostenga l’attuale paleoantropologia; un assunto che peraltro non troverebbe alcun ostacolo dal punto di vista della quantità di DNA necessario, dato che l’uomo avrebbe potuto benissimo comparire anche nell’antico Cambriano di oltre mezzo miliardo di anni fa, non sussistendo al tempo, come abbiamo visto, nessuna “semplicità” primitiva dal punto di vista biochimico. Studi genetici condotti indipendentemente da più ricercatori (Morris Goodman e A.R. Templeton) hanno messo in luce una velocità evolutiva molto minore della linea umana rispetto a quella dello scimpanzé (appartenente alla nostra stessa famiglia di Ominidi), evidenziando quindi un antenato comune molto più simile all’uomo attuale che non alla scimmia. Per Sermonti comunque il passaggio da uomo primigenio a scimmia non deve essere avvenuto per cause genetiche, ma molto più rapidamente, come un crollo improvviso, e che si sia trattato di una metamorfosi simile, ad esempio, a quella della farfalla dal bruco, o della rana dal girino; solo successivamente, tra le due specie così separatesi, si sarebbero accumulate, ma con velocità ben diverse, le differenze mitocondriali rilevate (34 mutazioni nello scimpanzé contro solo 13 umane, rispetto al progenitore comune).
Venendo a tempi più recenti e senza nemmeno calcare troppo la mano su vere e proprie frodi “pro-evoluzione”, accertate (il fantomatico “Uomo di Piltdown”) o anche solo probabili (il Pithecanthropus erectus scoperto a Giava da Eugene Dubois, che potrebbe essere messo in discussione da ritrovamenti posteriori i quali rivelerebbero che il femore attribuito allo stesso individuo dalla calotta cranica molto arcaica, in realtà dovrebbe appartenere ad un altro, molto più moderno), arriviamo a quella particolare forma umana rappresentata dai “cugini” neandertaliani. E’ interessante sottolineare come, anche in questi, sembrino ravvisabili le tracce di tale inesorabile processo involutivo, se è vero che, come ci segnala Vittorio Marcozzi, i ritrovamenti di Saccopastore (circa 80-60.000 anni fa) sembrano presentare caratteri neandertaliani più attenuati (misti con quelli Sapiens) di altri più recenti, di circa 40.000 anni. Anche Piveteau rileva lo stesso fenomeno regressivo, generatosi a partire da un ceppo Sapiens, constatando caratteri decisamente più marcati tra i neandertaliani più recenti, di 33.000 anni fa, rispetto a quelli di 38-40.000 anni fa. Un processo che sembrerebbe aver rappresentato una “deriva” continua e perennemente in agguato, forse di recente confermato anche dall’analisi dei reperti rumeni di Pestera Cu Oase (datati circa 35.000 anni fa, ed il cui cranio stranamente presenterebbe sia tratti morfologici di Homo Sapiens che di Homo Neanderthalensis) per i quali la stessa equipe di ricerca avrebbe significativamente avanzato, tra le varie ipotesi, anche quella di un’involuzione biologica con la riemersione di caratteri ritenuti più arcaici; ovviamente, seguendo qui una prospettiva “non evoluzionistica”, il caso in questione, più che rimanifestare elementi di maggior antichità (quasi fossero dovuti ad una sorta di “cammino all’indietro” con la riproposizione di inesistenti tappe morfologico-evolutive precedenti), denoterebbe piuttosto lo sviluppo di incipienti caratteristiche “subumane” avviate in particolare verso la forma neanderthaliana ma che, ben prima dei reperti rumeni, avevano già da tempo completamente travolto molti altri gruppi dell’Eurasia occidentale, cristallizzandosi come razza a sé stante – Homo Neanderthalensis– in un arco di almeno 100-150.000 anni (quindi in gran parte provenendo, in forma già decaduta, addirittura da Manvantara precedenti al nostro). Peraltro, la stessa probabile presenza, nel nostro patrimonio genetico, di residuali segmenti neanderthaliani e denisoviani (l’Homo di Denisova è un ulteriore ominide scoperto recentemente nella zona dei Monti Altaj in Siberia) – elemento opportunamente segnalato da Fabio Calabrese – ne confermerebbe la posizione, non ancestrale, ma “laterale” rispetto alla nostra: forme a noi più o meno vicine ma necessariamente coeve per poter produrre il meticciamento ipotizzato, e quindi sicuramente non gruppi dai quali la popolazione Sapiens si sarebbe “evoluta” lasciandoseli alle spalle.
Forma Sapiens che si segnala anche per un’altra peculiarità, ovvero il possesso di un linguaggio pienamente articolato; una facoltà che forse le altre forme del genere Homo devono aver smarrito per strada (ad esempio, le impronte endocraniche negli esemplari Homo habilis delle aree di Broca e Wernicke, deputate al linguaggio, sembrano tutt’altro che sicure) e che studiosi quali Tattersall pongono in relazione unicamente alla nostra specie ed alle forme preistoricamente riconducibili al Paleolitico Superiore. E’ oltretutto significativo come anche la facoltà linguistica rappresenti una vera e proprio sfida per la biologia evoluzionistica. Noam Chomsky, considerando tutti gli esperimenti finora fatti sugli animali, dalle scimmie ai pappagalli, per insegnare loro a parlare, ne conclude che quella evoluzionista-progressiva, rigidamente legata ai meccanismi della selezione naturale, sia un’ipotesi del tutto insufficiente a spiegare l’origine del linguaggio umano e le proprietà di strutture complesse quali quelle cerebrali, perché non tiene conto della infinita diversità – per certi versi qualitativa, non meramente quantitativa – nel modo di comunicare tra gli animali e quello tipicamente umano; da qui la sua ipotesi di un “modulo del linguaggio”, quale “pacchetto” innato, completo a priori e specifico della nostra specie, per il quale non è ipotizzabile sia stato costruito poco alla volta, con lente aggiunte “progressive”. Peraltro, anche secondo Wallace il meccanismo della selezione naturale non sarebbe stato sufficiente a spiegare l’emergere delle facoltà superiori dell’intelletto e della coscienza.
Concluderei con un’ultima, breve, riflessione.
Una prospettiva che, come Fabio giustamente rileva, nessuno di noi vuole assumere secondo i canoni della “progressività”, non deve quindi valutare le forme secondo l’ordine cronologico di manifestazione, stimando “evoluzionisticamente” come “inferiori” quelle più antiche, e come “superiori” quelle più recenti; personalmente ritengo che questo criterio dovrebbe essere tenuto presente anche in merito alle razze umane. Un tanto anche perché, paradossalmente, in termini cronologici sembrano apparire quasi in contemporanea proprio la razza nordica e quella negride sub sahariana, entrambe fenotipi piuttosto recenti e, a parere di vari antropologi, altamente “specializzati”. Quindi, sulla base di quanto più sopra esposto, sarebbero entrambe particolarmente esposte a pericoli involutivi? E secondo le stesse modalità?
Credo che dare ora una risposta sia molto difficile perché è evidente che le due entità sono estremamente diverse e di certo non si sono “adattate” allo stesso modo; forse ha un certo peso anche la loro posizione nell’ambito del nostro ciclo umano ed il loro significato attuale (ad esempio: sono dei “soggetti primari” o piuttosto delle “derivazioni secondarie” di una radice originaria più antica? E quanto dista da loro questa eventuale radice?).
Un’ipotesi di lavoro tutta da costruire che forse si potrà tentare, più in là, di delineare in modo un po’ meno nebuloso.
Bibliografia consultata per il presente articolo:
- Francesco Agnoli / Alessandro Pertosa – Contro Darwin e i suoi seguaci – Fede e Cultura – 2006
- Basilio M. Arthadeva – Scienza e verità – Edizioni Logos – 1987
- Renato Biasutti – Razze e Popoli della terra – UTET – 1959 <
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- John Blanchard – Evoluzione, mito o realtà ? – Passaggio – 2004
- Maurizio Blondet – L’Uccellosauro ed altri animali (la catastrofe del darwinismo) – Effedieffe – 2002
- Franz Boas – L’uomo primitivo – Laterza – 1995
- Antonio Bonifacio – La caverna cosmica. La potenza dello shamanismo nell’arte rupestre paleolitica – Simmetria edizioni – 2005
- Carla Castellacci – Un maledetto puzzle – in: Sapere, giugno 2005
- Luigi Luca Cavalli Sforza – Il caso e la necessità. Ragioni e limiti della diversità genetica – Di Renzo Editore – 2007
- Michael Cremo / Richard Thompson – Archeologia proibita: la storia segreta della razza umana – Gruppo Futura – 1996
- Gianfranco De Turris – Introduzione a “Il nome segreto di Roma” di Giandomenico Casalino – Edizioni Mediterranee – 2003
- Julius Evola – L’ipotesi iperborea – in: Arthos, n. 27-28, “La Tradizione artica”, 1983-1984
- Antoine Faivre – Esoterismo e Tradizione – ELLEDICI – 1999
- Jean Flori / Henri Rasolofomasoandro – Creazione o evoluzione ? – Edizioni ADV – 2005
- Roberto Fondi – Organicismo ed evoluzionismo. Intervista sulla nuova rivoluzione scientifica – Il Corallo / Il Settimo Sigillo – 1984
- Roberto Fondi – La critica della scienza e il ripudio dell’evoluzionismo – in: “Testimonianze su Evola”, a cura di Gianfranco De Turris – Edizioni Mediterranee – 1985
- Enrico Goni – Nietzsche e l’evoluzionismo – Edizioni all’insegna del Veltro – 1989
- Renè Guenon – Il Demiurgo e altri saggi – Adelphi – 2007
- Renè Guenon – Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi – Adelphi – 1995
- Marvin Harris – La nostra specie – Rizzoli – 1990
- Silvano Lorenzoni – Chronos. Saggio sulla metafisica del tempo – Carpe Librum – 2001
- Rocco Manzi – Evoluzione o creazione ? – Laurenziana – 2004
- Vittorio Marcozzi – Controversie evoluzionistiche attuali – in: La Civiltà Cattolica, vol. 1, anno 1989
- Vittorio Marcozzi – I problemi dell’origine dell’uomo e la paleontologia – In: Gregorianum, vol. 59, anno 1978
- Bernard Michollet – L’evoluzione e l’immagine dell’essere umano. Saggio d’interpretazione della imago Dei – in: Concilium, A. 36, fasc. 1, anno 2000
- Giovanni Monastra – Le origini della vita – Il Cerchio – 2000
- Giovanni Monastra – Natura archetipica: vincoli morfologici e gerarchici in biologia – in: Avallon, n. 56 “Seppellire Darwin ?”, anno 2007
- Giovanni Monastra – Politica, bio-business e scienza: il caso di Giuseppe Sermonti fra studiosi darwiniani e non darwiniani – in: rivista online EstOvest, indirizzo web: http://www.estovest.net/prospettive/sermonti.html
- Tiziana Moriconi – Scoperte da prendere con le pinze – in: Sapere, aprile 2011
- Seyyed Hossein Nasr – L’uomo e la natura – Rusconi – 1977
- Daniel Raffard de Brienne – Per finirla con l’evoluzionismo. Delucidazioni su un mito inconsistente – Il Minotauro – 2003
- Luca Sciortino – Le date dell’evoluzione – in: Le Scienze, novembre 2004
- Michele Sarà – L’evoluzione costruttiva: una nuova idea d’evoluzione – in: Avallon, n. 56 “
Seppellire Darwin ?”, anno 2007
- Stefano Serafini (a cura) – Atrium, numero speciale sull’evoluzionismo – anno IX (2007), numero 1
- Giuseppe Sermonti – La Luna nel bosco. Saggio sull’origine della scimmia – Rusconi – 1985
- Giuseppe Sermonti – Le forme della vita. Introduzione alla biologia – Armando editore – 1981
- Giuseppe Sermonti / Roberto Fondi – Dopo Darwin. Critica all’evoluzionismo – Rusconi – 1980
- Rutilio Sermonti – Evoluzionismo: scienza o frode ? – Scripta manent diffusione libraria – 2005
- Rutilio Sermonti – Rapporto sull’evoluzionismo – Il Cinabro – 1985
- Sito Anthropos – “Uomo moderno…o quasi” – 17/1/2007 – indirizzo web: http://www.antrocom.it/textnews-view_article-id-956.html
- Sito Le Scienze – “Un unico antenato per tutte le persone con gli occhi azzurri” – 31/1/2008 http://www.lescienze.it/news/2008/01/31/news/un_unico_antenato_per_tutte_le_persone_con_gli_occhi_azzurri-580506/
- Angelo Tartabini / Francesca Giusti – Origine ed evoluzione del linguaggio. Scimpanzè, ominidi e uomini moderni – Liguori Editore – 2006
- Nicholas Wade – All’alba dell’Uomo. Viaggio nelle origini della nostra specie – Cairo Editore – 2006
- Spencer Wells – Il lungo viaggio dell’uomo. L’odissea della nostra specie – Longanesi – 2006
- Harun Yahya – L’inganno dell’evoluzione – Edizioni Al Hikma – 1999
- Ubaldo Zalino – Cosmologia e evoluzionismo – in: Rivista di Studi Tradizionali, n. 35, luglio-dicembre 1971
Seppellire Darwin ?”, anno 2007
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