18 Luglio 2024
Controstoria Racconti Storia

RACCONTO SQUADRISTA di Giacinto Reale


Giacinto Reale

   
RACCONTO SQUADRISTA
  
Capitolo primo

30 aprile 1945, da qualche parte, tra Bologna e Ferrara 

Eccomi qui. Disteso sul bordo di questo rigagnolo d’acqua che porta all’Idice, a poca distanza da casa mia, nei luoghi stessi dove da bambino ho giocato tante volte. Ho detto “disteso”, ma ho sbagliato: buttato via, come una cosa vecchia ed inutile, mentre la terra umida mi riempie la bocca, e i vermi già cominciano a camminarmi su tutto il corpo, nonostante abbia ancora indosso un paio di vecchi calzoni senza cintura ed una logora camicia a quadri, ormai fradicia d’acqua. Questo mi dispiace, di non indossare la mia camicia nera, quella della XXIII Brigata Nera “Eugenio Facchini”, che, se pure non è quella della mia vecchia Squadra d’Azione del ‘21, la “Ardita”, ha per me lo stesso, identico valore affettivo.
Mi hanno convinto, dopo l’ultimo alzabandiera, in quella vecchia caserma milanese (un deposito mezzo vuoto, con stanzette per Ufficiali fuori sede ricavate alla bell’e meglio nei capannoni) dove ero provvisoriamente acquartierato, i camerati e il Colonnello di Sussistenza che, come un padre, lì comandava:
“Ragazzi, abbiamo fatto il nostro dovere fino in fondo, evitiamo un inutile sacrificio e pensiamo al futuro nostro e della nostra Italia. Al magazzino vestiario troverete un po’ di abiti civili, forse delle reclute che qui affluivano i primi tempi della Repubblica. Indossateli e uscite alla spicciolata. Tornate a casa, chissà che un giorno non ci si debba rivedere”.
Io, che proprio “ragazzo” non sono, ho raccolto l’invito: una giacca non esattamente della mia misura, pantaloni e camicia a quadri, e fuori, a piedi, solo e disarmato, in una città che non ho fatto in tempo a conoscere e che, quel 25 aprile, mi sembrava triste e silenziosa come nei mesi precedenti, con l’unica eccezione che qua e là ora apparivano e scomparivano gruppi di armati, con tricolori e bandiere rosse insieme.
Ho preso la strada di casa, per Bologna, pronto a farmela anche tutta a piedi, perché l’unica cosa che ho conservato sono i miei scarponcini, di tipo militare, ma “fuori ordinanza”, forse tedeschi, comodi, ancora nuovi, adatti a lunghe camminate.
È stato un viaggio lungo e faticoso, con soste e ripartenze: solo per un breve tratto, quando ero quasi alla fine, mi è riuscito di avere un passaggio da uno scalcinato camion che andava nella mia stessa direzione; poi, più o meno quando i cartelli bucherellati di pallottole hanno cominciato ad indicare “Bologna 30 Km”, sono saltato giù dal cassone, senza nemmeno ringraziare l’autista, e mi sono avviato a piedi.
C’ero quasi, quando da un viottolo laterale mi sono arrivati addosso due giovanottelli, armati di minacciosi mitra inglesi.
“Ehi, tu, dove vai? – mi hanno fatto – vieni qui e mostraci i documenti”.
L’avevo previsto, e preparato la risposta:
“Non li ho – ho detto con decisione – Sono stato rapinato nei pressi di Verona – poi, dopo una breve pausa, guardandoli negli occhi – Sono di qui vicino, e sto tornando a casa, perché finora sono stato ospite di un mio fratello a Bussolengo”.
Quelli mi hanno scrutato, dubbiosi; soprattutto la foggia militare dei miei scarponcini non li convinceva. Tenendomi sempre sotto tiro mi hanno portato al loro Comando, e lì… Ve lo racconterò dopo.
Per ora vi basti sapere che, in più, rispetto a sei ore fa, quando di buon passo me ne camminavo verso casa, ho in corpo due proiettili di mitra Sten e uno di pistola Colt 45 automatica.
“Giustizia partigiana”, così hanno detto.
Mi chiamo Achille… lasciamo stare il cognome, non importa. Sono nato qui, tra Bologna e Ferrara, in un paesone agricolo, mollemente adagiato nella grande pianura emiliana, 45 anni fa, quasi di questi giorni, mentre i campi cominciavano a riprendere vita, dopo il freddo dell’inverno.
E’ il periodo in cui mi piace di più passeggiare tra i campi: gli odori, i colori, i rumori in sottofondo di animaletti e uccellini mi fanno compagnia, anche quando sono solo. Amo la terra di pianura, nera, grassa, che alimenta e matura le messi: la nostra poi, è “speciale”, terra umida in cui è dolce affondare le mani e piantare profonde radici.
Questa passione credo sia un’eredità di mia madre, “donna” Luisa, come tutti la chiamavano, figlia di un piccolo proprietario terriero, abituata a vivere all’aria aperta, che aveva contribuito a farne una bella fanciulla prima e una bella donna poi, con il cielo negli occhi e il sole nei capelli.
Mio padre no, vero “paesano” (e peggio ancora il fratello Pietro, avvocato a Bologna): professore di lettere – e, quindi, solo “professor” Alberto, lui – nel nostro liceo, voluto, costruito e finanziariamente sostenuto, tutte lo volte che c’era bisogno, dal nobile locale, un Marchese rimasto “zione”, come si dice da noi, ingobbitosi sui libri, dedito esclusivamente ai suoi studi su Omero e sui poemi del ciclo epico.
Professore di lettere era anche il nonno, Achille come me, che non ho fatto però in tempo a conoscere. Credo, comunque, che qualcosa in questa tradizione di famiglia non abbia funzionato come si deve, se mio padre l’ho sempre sentito ripetere:
“Di questo ragazzo tutto farò, anche un facchino, ma mai un professore”.
A 15 anni, poco dopo che l’Italia era entrata in guerra, mi sono iscritto alla Sezione giovanile del Partito Repubblicano del paese; avevo conosciuto quei miei coetanei in occasione di una modesta manifestazione interventista improvvisata in piazza, e con loro mi ero sentito subito in sintonia.
Dalle mie parti la tradizione repubblicana era forte, e poi, quel nonno di cui poco si parlava in famiglia, ai suoi tempi era stato con Garibaldi, contro preti e teste incoronate, finché aveva preso moglie e si era dato una bella calmata.
Non ero nemmeno allora un esagitato, né uno spaccamonti, ma semplicemente convinto che alle parole dovessero seguire i fatti. Per questo, appena compiuti i 16 anni, ero scappato di casa, per “andare alla guerra” e, beata innocenza, mi ero presentato al Distretto di Bologna per arruolarmi volontario.
Non avevo fatto i conti con l’intuito paterno…
Il genitore se lo aspettava: i discorsi che facevo in casa, le compagnie con cui mi avevano visto in paese (e qualcuno pronto a riferire c’era sempre) lo avevano messo sul chi va là. Per prima cosa era andato a parlare con un suo vecchio amico, Colonnello al Distretto: gli aveva lasciato nome e cognome, una sommaria descrizione dei connotati (alle volte mi fosse riuscito di trovare dei documenti falsi) e si era raccomandato: “Ha solo 16 anni, se si fa vedere da queste parti, ti autorizzo a dargli due begli scapaccioni e rimandarmelo a casa”
E così era stato. A casa, poi, mi aspettavano le lacrime di mia madre e delle due zie venute apposta dalla campagna. Insomma, per farla breve, avevo dovuto accantonare l’idea, e limitarmi a seguire sulla cartina geografica l’andamento della guerra, fino alla fine, quando mi ero sfogato, improvvisando con gli altri della Sezione repubblicana un corteo della vittoria su e giù per il paese.
Per premio, poi, mio padre mi aveva accompagnato a Bologna in occasione di una grande cerimonia di ringraziamento che lì si sarebbe tenuta: sfilata di Reparti militari lungo via dell’Indipendenza, fanfara con i Bersaglieri, signore e signorine che lanciavano fiori, discorsi commossi e partecipi dal palco allestito alla Montagnola, sotto al monumento ai caduti del 1848, con la piazza gremita di bolognesi in festa.
Io lì, sempre in prima fila, nonostante qualcuno avesse messo in giro la voce che sarebbero venuti i “disfattisti” a darci una bella lezione: era la mia prima manifestazione “politica”. Altre e più movimentate sarebbero seguite.
Tornai al paese galvanizzato e con addosso una grande smania di “fare qualcosa”. La vittoria nel conflitto testé concluso doveva significare una nuova Italia, più felice e prospera all’interno, con nuova dignità nel contesto internazionale. Lo esigevano i nostri seicentomila morti.
Dopo qualche giorno, mi affacciai alla Sezione repubblicana, ma la trovai deserta: solo il vecchio usciere che ramazzava. Chiesi dove fossero gli altri, e la sua risposta mi riempì di stupore: “Giorni fa – disse – sono venuti quelli del Partito Socialista, con i rappresentanti della Lega Contadina e hanno minacciato i presenti, definendoli “carne venduta ai padroni”, e “nemici del proletariato”.
“Chi ha voluto la guerra, ed ora esulta per questa specie di vittoria deve stare ben attento – così aveva chiuso il suo discorsetto il caporione, che tutti conoscevano come “Ganasa” – i contadini sono stanchi ed affamati, e non avranno pietà per chi sceglie di stare contro di loro”.
E se ne era andato, non prima che i suoi avessero sfasciato qualche mobile e distribuito a caso qualche sberla, con la minaccia di un ritorno, se mai qualcuno non avesse capito come dovevano andare le cose da allora in poi.
Rientrai a casa deluso e nervoso: ma come, ora che in nome di una rinnovata concordia dovevamo tutti rimboccarci le maniche e lavorare per l’Italia, questi se ne uscivano con simili iniziative, rinfocolavano odi, profferivano minacce? Non ci potevo credere.
Le scuole chiusero quell’anno un paio di settimane prima, e ne approfittai per andarmene in campagna dalle zie, per la loro e la mia gioia. Venne a prendermi, col calesse, come sempre, Settimio, che era stato l’uomo di fiducia dei nonni e poi era rimasto alla villa ad aiutare le due “ragazzine”, come diceva lui, anche se ormai andavano per i cinquanta.
Alto e dritto come un fuso, sempre vestito in velluto, estate e inverno, con un cappellaccio “alla Passatore” in testa, la mantella sulle spalle e gli scarponi ai piedi, anche d’estate (“scarpe grosse e cervello fino” soleva ripetere ogni volta che glieli guardavo, incuriosito). Non si era mai sposato, la sua missione nella vita era badare al “Casone dell’Albereto” come tutti chiamavano la vecchia villa, anche se proprio nulla aveva di una casa di campagna.
Non era mai di umore allegro, sempre silenzioso e serio, ma quel giorno esagerava: per tutto il viaggio non disse una parola, e sembrava assorto in chissà quali pensieri, con una faccia che faceva passare anche la voglia di tentare un qualsivoglia approccio.
Alla villa il clima era anche peggiore. Dopo molte insistenze, le zie accettarono di raccontarmi le novità: i contadini erano in sciopero da due settimane, per ottenere aumenti salariali, l’assunzione di manodopera solo se segnalata dagli Uffici di Collocamento delle Leghe, l’obbligo di assumere per ogni ara di terreno il numero di contadini che decideva la Lega, e il divieto di usare trebbiatrici meccaniche che toglievano lavoro.
Di fronte alla resistenza dei proprietari, lo sciopero si era esteso ai mungitori e ai lavoranti di stalla. Quella mattina stessa, un folto gruppo di rappresentanti sindacali si era presentato alla villa e, con modi sgarbati, aveva chiesto loro di assumere altri tre lavoranti. Quasi per far capire che non scherzavano, uno di loro, noto come “Tre dita”, infastidito dall’abbaiare nervoso del vecchio cane di casa, che aveva intuito forse la minaccia, gli aveva tirato un colpo di rivoltella, freddandolo all’istante.
L’incontro – se così vogliamo chiamarlo – si era chiuso bruscamente, con le zie in lacrime e Settimio (fino allora tenuto a bada da quattro “guardie rosse”) che raccoglieva i resti del povero animale per dargli sepoltura.
Sta di fatto che ormai da quasi 24 ore nessuno si era presentato a mungere gli animali; correva voce che la Lega avesse fatto timbrare il palmo delle mani dei mungitori, così da poter controllare, con una verifica al giorno dopo, se qualcuno avesse mai violato il divieto.
Dalle stalle cominciavano a giungere i penosi lamenti delle povere bestie gonfie di latte: zia Isabella, che più si occupava di loro (a zia Lidia era affidata la responsabilità della casa), credeva di riconoscere la “voce” di ogni mucca, e le chiamava per nome: “Questa è la Bianca, questa è la Rosina, questa è la Mora, e così via”, aggiungendo strazio a strazio.
Quando si fece sera, visto che nessuno riusciva a dormire, alla fine decidemmo: a mezzanotte circa, silenziosi e in fila indiana, ci avviammo alle stalle. Io in testa con un lume a petrolio, poi le zie, e in coda Settimio, che, ad ogni buon conto, si era portato la sua doppietta di cacciatore.
Restammo fino all’alba, ma le mungemmo tutte. Il latte rimase lì nei secchi o si sparse sulla paglia, ma non aveva importanza. Essenziale era non sentire più quegli atroci lamenti.
Distrutti dalla fatica, andammo a riposare, pensando che all’indomani ci sarebbe toccato affrontare i Capilega venuti a controllare. C’era da temere il peggio.
Invece, non successe niente: tornarono i nostri contadini, per dirci che nella notte l’Associazione Agraria aveva ceduto su quasi tutto, e lo sciopero era stato revocato. Mi parve di capire dai loro sguardi che essi per primi erano lieti, perché avevano vissuto con sofferenza quell’imposizione che li aveva obbligati a rompere un pluriannuale rapporto che non era quello tra padrone e dipendente che un estraneo alla realtà dei nostri campi poteva ipotizzare Da noi spesso i proprietari di terre e animali, insieme ai loro lavoranti, si rimboccavano le maniche e partecipavano alle fatiche nei campi e nelle stalle, così come alle feste sull’aia, ai battesimi e perfino ai funerali.
Tra tanti ricordi, il più vivo – per me e molti di quelli che ora ci stavano lì di fronte, un po’ contriti – era quello di una sera d’estate, quando, per la festa di fine raccolto, mentre zia Lidia, seduta severa manifestava con lo sguardo il suo dissenso, zia Isabella “frullava”, come una libellula, dalle braccia di un contadino all’altro, in veloci valzer e allegre mazurke suonate alla bell’e meglio con fisarmoniche e organetti.
Dopo quella notte, rimasi qualche altro giorno dalle zie; mi avventurai anche alla ricerca dei miei vecchi compagni di giochi adolescenziali, i figli dei contadini e dei lavoranti di stalla. Li trovai freddi, con sguardi quasi astiosi, che denunciavano come l’infame propaganda di odio che da tempo avvelenava le campagne avesse raggiunto il suo scopo: tutti parlavano di Lenin e dell’esempio che veniva dall’Est.
Tornai in paese ancora più triste: era, in poco tempo, la seconda delusione che avevo. Prima i giovani repubblicani minacciati ed intimiditi solo perché colpevoli di amare la Patria, ed ora la gente delle campagne aizzata contro i “padroni”; cominciavo veramente a temere che l’avvenire non ci avrebbe riservato niente di buono.
Un po’ di tempo dopo, un giorno eravamo a tavola, e mio padre cominciò a raccontare un fatto del quale era stato testimone tornando da scuola: “Stamattina, un garzone di maniscalco, quello che chiamano “Ciocapiat”, preso da improvvisa follia, ha accoltellato il suo padrone, e poi, sempre con in pugno un grosso coltellaccio insanguinato, ha cominciato a fare su e giù per le strade, gridando come un ossesso:
Fev avant c’a v’amaz tot quant! Viva la rivoluzione! Libertà per Malatesta!”
La gente, spaventata, si è data alla fuga, e lo stesso Maresciallo dei Carabinieri, accorso con due militi, non sapeva che fare, perché il giovanotto, nel frattempo, aveva preso per il collo una bambina e la stringeva, urlando, con gli occhi fuori dalle orbite:
A l’amaz, sti atenti c’a l’amaz!!!”
Si è allora fatto avanti un ragazzone, il Sante Nanni, figlio del farmacista, smobilitato da poco. Con calma, guardando quel pazzo negli occhi, gli si è avvicinato, parlando con voce bassa e tranquilla:
“Va bene, non agitarti, va tutto bene. Stanno telefonando al Procuratore del Re. Vedrai che tra un po’ Malatesta viene liberato e lo portano qui. Tu, però, non far del male alla cinna”. Quello lo guardava fisso, quasi incantato dal suo tono di voce e dalle parole: “D’accordo, aspettiamo – ha detto alla fine – Te, però sta lè”.
Ma era troppo tardi: Sante gli era già addosso, e gli torceva il polso in una stretta d’acciaio, finché il coltello non cadde giù per terra, mentre la bambina scappava via.
“E’ tutto vostro, Maresciallo – disse il vincitore della contesa – non fategli del male, però, lo vedete anche voi che non ci sta con la testa”.
Mio padre aveva raccontato tutto d’un fiato, evidentemente ancora sotto l’effetto dell’impressione che quell’episodio aveva fatto su di lui, mite professore di liceo. Poi aggiunse:
“Sapete, questo Sante Nanni io me lo ricordo, ha studiato da noi, anche se non nella mia Sezione. Poi è partito volontario in guerra e si è guadagnato un paio di medaglie. Ora è tornato e credo che andrà all’Università per seguire le orme del padre. Per intanto, si sta facendo conoscere qui in paese: due settimane fa, quando i socialisti hanno fatto quel grosso corteo, minacciando borghesi e reduci, si è piazzato solo soletto sotto i portici con un tricolore a mò di mantello, ed è stato lì ad aspettarli.
Quelli sono passati, lo hanno guardato storto, ma nessuno si è avvicinato… si era sparsa la voce che la sacchetta che aveva con sè fosse piena di bombe. Insomma, un brutto tipo”.
Ma, mentre lo diceva, avvertito un che di ammirazione nelle sue parole.
Io, per parte mia, avevo già deciso: dovevo conoscere quel Sante Nanni.
La mattina seguente, molto di buon ora, ero sul marciapiede di fronte alla Farmacia del dottor Luigi, che arrivò dopo una mezz’oretta, accompagnato dal figlio, il quale si diede subito da fare per togliere i pesanti pannelli in legno che di notte proteggevano l’ingresso e le vetrine.
Conosceva me, i miei genitori e le zie, come conosceva problemi e acciacchi di ogni paesano, per il semplice motivo che tutti, prima o poi, avevano avuto bisogno delle sue cure. Quando mi vide, chiese premuroso: “Che succede, Achille, come mai qui a quest’ora? Qualcosa non va?”.
Lo rassicurai, e gli dissi che desideravo solo parlare con Sante, senza entrare in particolari.
“Capisco, cose da giovanotti – fece il dottore, senza nemmeno immaginare cosa mi frullasse nel cervello – Andate, ho giusto da preparare alcune pozioni che mi hanno chiesto ieri sera”.
Sante, che fino allora non aveva detto una parola, finì il suo lavoro, poi gli si avvicinò, lo baciò con affetto sulla guancia dicendo: “Andiamo una mezz’oretta al bar in piazza, babbo, al ritorno, vi porto qualcosa?”
Al diniego del genitore ci avviammo. Era strano, quel simpatico giovanottone che camminava ora al mio fianco: non aveva nemmeno chiesto il motivo della mia presenza lì quella mattina. Toccava quindi a me farmi avanti e spiegare.
Lo feci senza perdere tempo con frasi di convenienza. Gli dissi della vicenda delle minacce alla Sezione repubblicana, della mungitura delle mucche, dell’odio che avevo visto sui volti dei miei coetanei, vecchi compagni di giochi, e della mia opinione che non si poteva più sopportare questo stato di cose. Lui, che era stato Ardito e decorato in guerra sarebbe stato sicuramente d’accordo con me.
Sante che mi aveva ascoltato in silenzio, proruppe in una sonora risata:
“Ma quale Ardito! – disse – Anche tu vai dietro a quello che scrivono i giornali! Mica la guerra l’hanno fatta solo loro. Io sono stato ‘bombardiere’, e me ne vanto. Sai cosa sono i ‘bombardieri’?”
Al mio cenno di diniego, continuò: “Siamo noi i veri eroi del fronte. Armati di piccole bombarde, uscivamo dalle trincee e ci avvicinavamo a quelle avversarie, per bombardare il filo spinato e i vari sistemi di protezione che le circondavano, così da aprire dei varchi che poi facilitassero l’assalto dei nostri.
Detta così sembra facile, se non fosse che il nemico, oltre a bersagliarci con i cecchini, mandava fuori gruppi scelti di suoi assaltatori a darci la caccia, per cui i corpo a corpo, a colpi soprattutto di pugnale, lì, nella terra di nessuno tra i due campi contrapposti, si sprecavano. E ci voleva fegato, te l’assicuro.
È durata un bel po’, finche quei signori dello Stato Maggiore non sono riusciti a realizzare bombarde con tiro più lungo, che potessero essere usate da distanza di sicurezza. Prima, però, io ho fatto in tempo a guadagnarmi un paio di medaglie, alla faccia loro” E giù un’altra risata delle sue.
Si fermò un attimo a sorseggiare il suo caffè, e poi riprese:
“Per quel che dici, sono d’accordo con te, e, anzi, dirò di più, ti aspettavo. Sapevo della tua fuga da casa e del mancato arruolamento. Mi avevano detto pure che, ancora prima, con i giovani repubblicani ti eri messo in mostra in qualche manifestazione interventista. Non dubitavo del tuo amor di Patria e, in cuor mio, ero certo di poter contare su gente come te per quello che ho in mente”.
Notando la mia espressione incuriosita, andò avanti, quasi mangiandosi le parole per la fretta e l’entusiasmo nel raccontare:
“Vedi, Achille, qualche mese fa, a marzo, ero a Milano per conto di mio padre a trattare l’acquisto di alcuni nuovi medicinali, quando ho letto, sul giornale di noi ex combattenti, il Popolo d’Italia, che per il 23 a piazza San Sepolcro era organizzata una manifestazione per dare vita ad un nuovo movimento.
Ci sono andato, e ho ascoltato tutti, in particolare quel Mussolini lì che, conoscevo di nome, e che mi ha veramente colpito, per quello che ha detto e per come lo ha detto. Gli altri erano, in massima parte, ex interventisti provenienti dai Partiti di sinistra, ed ex combattenti, in prevalenza Arditi.
Anzi, ora ti racconto cosa mi è successo. Però, prima beviamoci un sorso di Albana, perché a parlare mi è venuta sete”.
“Già all’arrivo all’edificio che ospitava la riunione – riprese Sante, dopo una bella bevuta – avevo notato, sulle scale e intorno al palazzo, gruppi di Arditi che vigilavano, con indosso ancora la loro caratteristica giubba, ornata da fiamme di vario colore, a seconda del Reparto di provenienza.
All’interno, stessa musica. La Presidenza era stata assunta da un loro Capitano, Ferruccio Vecchi, mi pare si chiamasse, un “barbetta” sottile sottile, ma con parecchie decorazioni sul petto, e con una prosa travolgente, quasi da profeta. Insomma, un bel tipo.
Mentre parlava, tra le sedie passava uno – un Tenente, degli Arditi anche questo – con una matita ed un foglio di carta, per prendere il nome dei presenti. Quando è arrivato a me, ha fatto:
“E tu chi sei? E chi o cosa rappresenti?”
Non mi è piaciuto il suo modo di fare, e, lo confesso, un po’ a brutto muso, gli ho risposto: “Sono Sante Nanni, e rappresento solo me stesso”.
E quello, ricambiandomi di pari ostilità:
“E allora, se rappresenti solo te stesso, nell’elenco non ti ci metto!” e se n’è andato.
Poco male! All’uscita ho fatto l’abbonamento al giornale, che ora mi arriva – anche se, per colpa di qualche sabotatore negli uffici della Ferrovia, non regolarmente –, e mi tiene informato su ciò che sta avvenendo nel resto d’Italia. Fasci stanno sorgendo un po’ dovunque. Occorre che anche noi qui ci diamo da fare!”
Mi ero letteralmente beato delle sue parole. Mi aveva aperto gli occhi su un orizzonte che non immaginavo. Dunque in Italia c’erano altri, tanti altri, che la pensavano come me, e si stavano organizzando. Il mio posto non poteva che essere tra loro.
Nelle settimane successive io e Sante facemmo coppia fissa: lunghe passeggiate nei campi, interminabili chiacchierate di politica e non solo. Ci raccontammo tutto di noi, delle nostre famiglie, delle nostre esperienze scolastiche, dei nostri progetti. Parlammo di ragazze (al paese poche, ma Sante mi narrò di avventure formidabili nelle retrovie, e anche lì mi aprì orizzonti inesplorati), di poeti e di romanzi, scoprendo che ambedue nutrivamo una profonda simpatia per gli eroi salgariani, specie quelli del “Ciclo dei pirati”.
Eravamo stati tutt’e due innamorati di Lady Marianna, “la perla di Labuan”: poi, però, a me piaceva Kammamuri, a lui Yanez de Gomera.
A parte questa piccola divergenza, scoprimmo di andare d’accordo su tutto, e soprattutto su ciò che era alla base della nostra conoscenza e amicizia e intendevamo realizzare. Ripulimmo un locale di proprietà del dottor Luigi, ai margini del paese, trovammo qualche vecchia sedia mezza sfondata e un tavolo traballante ed io in persona mi diedi da fare a preparare un cartellone che affiggemmo sulla porta, con una scritta pretenziosa e minacciosa: “Fascio di combattimento”.
Incrociai per strada un paio dei vecchi amici della Sezione repubblicana e li invitai a venirci a trovare (cosa che fecero, anche se un po’ titubanti), finchè, una sera, si presentarono due giovanotti, con facce abbronzate da contadini, mani grosse come pale, ma un fare timido e scontroso insieme:
“Siamo due reduci – disse quello che fra due pareva il più intraprendente – Io mi chiamo Berto, e lui è Nullo. Abbiamo fatto il nostro dovere al fronte e abbiamo creduto alla parola d’ordine che circolava nelle trincee: “La terra a chi la lavora”. Ora, però, tornati a casa, niente è cambiato, e si respira solo una brutta aria fatta di odio e di desiderio di vendetta. I nostri compagni ce l’hanno con noi perché non abbiamo sparato alle spalle ai nostri Ufficiali che ci precedevano nell’attacco, non ci siamo fatti disertori, non siamo disposti a rinnegare il nostro passato di combattenti, e ci hanno isolati, anche se siamo contadini come loro. Allora abbiamo deciso di venire qui: nei mesi passati a Padova, tra la fine della guerra e la smobilitazione, abbiamo sentito parlare di questo Mussolini e delle sue idee, e ci piacciono. Ci hanno detto che voi siete i suoi rappresentanti qui, e siamo con voi”.
Sante li travolse con un abbraccio dei suoi, e lo stesso feci, più moderatamente, io. Da allora, quasi ogni sera passavano alla sede del fascio, e stavano con noi, a parlare e fare progetti. Di lì a qualche giorno si presentarono anche un paio dei giovani repubblicani che avevo contattato, e, infine, il maniscalco, il signor Antenore, quello che era stato accoltellato da Ciocapiat.
Fu così che al 20 di settembre potemmo distribuire in paese il nostro primo volantino, che ci avevano mandato da Milano: era di piena ed incondizionata solidarietà a D’Annunzio, appena entrato a Fiume

 

Capitolo secondo
Qualche giorno dopo, steso sul letto, rivivevo i momenti di quel pomeriggio: eravamo usciti dalla sede in gruppo serrato, davanti Sante e il maniscalco che già la stazza faceva poco rassicuranti, subito dietro io, con un tricolore legato su un nodoso bastone ricavato da un ramo di quercia, e poi i due giovani repubblicani, che avevano insistito per portare con sé una grosso quadro raffigurante Mazzini, sottratto alla loro vecchia Sezione.
In piazza, il dottor Luigi aveva fatto predisporre un tavolino con sopra un altro tricolore; fino al nostro arrivo, era rimasto a presidiarlo lui stesso, poi ci lasciò per tornare in Farmacia.
Ci fu, in verità, un po’ di agitazione: sotto i portici di fronte si radunarono una trentina di socialisti, tra i più attivi, ai quali, evidentemente, il tricolore faceva lo stesso effetto del panno rosso al toro, ma nessuno si avvicinò. Sante aveva a tracolla sempre il suo tascapane, e il timore che contenesse Sipe o Thevenot bastò a tenere a distanza i malintenzionati.
Fui interrotto in questo bel ricordare, da mio padre che chiamava dal suo studio. Ci andai, e trovai schierati, in bell’ordine, dietro la scrivania, lui, mia madre e le zie, che erano state a pranzo da noi: una vera riunione di famiglia!
“Achille – esordì il babbo – è arrivato il momento di prendere una decisione. Spesso nei mesi passati ne abbiamo parlato, e tu hai manifestato il desiderio di proseguire negli studi, indirizzandoti verso quelli di Legge. Zio Pietro ha già preso contatti con la Facoltà: se vuoi, perfeziona la tua iscrizione e tra una quindicina di giorni iniziano le lezioni. Tu potrai trasferirti da lui, che è solo ed ha una casa grande sullo stesso pianerottolo dello Studio, nei pressi di piazza Maggiore”.
Immaginavo qualcosa di simile, ma inconsapevolmente, fra me e me, la rimandavo, quasi non dovesse avvenire mai… e invece, ora il momento era giunto.
Inutile cincischiare: un mio rifiuto sarebbe parso incomprensibile e avrebbe provocato solo chissà quale dramma familiare. Acconsentii, anche se dentro provavo una grande tristezza.
La sera stessa, al fascio, ne parlai con Sante, che si dimostrò più saggio di me:
“Mi sembra giusto – disse serio come raramente lo avevo visto –, volevi star qui a fare “il figurino” tutta la vita? Anch’io sto pensando di riprendere gli studi di Farmacia, e forse lo avrei già fatto, se non ci fosse stata ora questa storia di Fiume. Mi ha scritto un mio ex collega, Tenente dei “bombardieri” anche lui, che è già lì. C’è bisogno di uomini come noi. Qui in Italia ancora non è il momento. Mi sa che uno di questi giorni parto”.
Lo ascoltavo, come sempre, ammirato dalla sua capacità di prendere di petto le situazioni. In due parole aveva risolto la mia e la sua: io a Bologna a studiare, e lui a Fiume a guerreggiare. L’idea che potessi andare con lui non lo aveva nemmeno sfiorato. Ma forse aveva ragione…
E così, una settimana dopo, salutati i miei camerati con una bella cena in campagna dalle zie – che li trovarono tutti simpaticissimi, e Sante, naturalmente, più di tutti –, partii per Bologna. In calesse, con Settimio, ché i bagagli erano tanti e non mi andava di prendere la corriera.
Zio Pietro fu gentilissimo, e non mi nascose la sua contentezza di avere un po’ di compagnia subito, e in futuro, chissà, anche una mano in Studio. Mi mise a disposizione una bella stanza grande, con un finestrone che la illuminava, e qua e là, sparsi quasi a caso, sulla mensola del camino e sui ripiani della libreria, Codici e Pandette… per farmi appassionare.
Da parte mia, approfittai, nei giorni che ancora mancavano all’inizio delle lezioni, per conoscere un po’ la città. Me ne andavo a zonzo per il centro e in periferia: arrivai fino ai resti della cinta muraria che anticamente ne chiudeva l’accesso. Seguendo il cerchio delle mura cadenti scoprii che le porte erano dieci, e che ognuna segnava l’ingresso, per una viabilità a raggera che conduceva sempre alla piazza centrale. Me le feci tutte, una alla volta, e così tornavo sempre allo stesso punto.
Ma, d’altronde, non avevo una meta precisa, solo un segreto obiettivo: trovare la sede del fascio. Se ce l’avevamo noi al paese, ce ne doveva per forza essere una in una città come Bologna, perché non riuscivo a trovarlo?
Alla mattina, quando uscivo, facevo mio il motto di Rastignac: “Bologna, a noi due!”
Le mie ricerche dovettero subire un rallentamento, perché fui preso (mi lasciai prendere?) nel turbine degli impegni universitari. Passai settimane intensissime tra Facoltà, biblioteca e a casa, curvo sui libri.
Riuscii, così a dare ben tre esami nella prima sessione, superandoli tutti brillantemente. Dopo di che, contento e soddisfatto, mi premiai con una lunga vacanza al paese e al Casone dell’Albereto.
Per prima cosa passai al “mio” fascio, ma trovai tutto chiuso.
Andai così alla bottega del signor Antenore che mi aggiornò sulla situazione: Sante era partito per Fiume, e non se ne sapeva più niente; lui e Nullo e Berto continuavano a vedersi, ma si sentivano un po’ persi. Il giornale non arrivava più, non avevano notizie di ciò che succedeva nel resto d’Italia, e anche i due repubblicani erano latitanti da un bel po’.
Me ne tornai in città con il bagaglio di questo racconto poco confortante. Possibile che fosse tutto finito? Certo, Sante era determinante per il nostro piccolo fascio di paese, ma altrove? Mica potevano essere tutti partiti per Fiume.
Fu solo leggendo “Il Resto del Carlino” del 5 novembre che ebbi la certezza che le cose non stavano così: a Bologna un fascio c’era, ed era pure molto attivo. La sera prima c’era stato un assalto alla Camera del Lavoro, con sparatorie e intervento della forza pubblica, finché, alla fine, i fascisti erano penetrati all’interno, appiccandovi il fuoco.
All’Università non si parlava d’altro. Stavo spesso con alcuni altri studenti che, da casuali discorsi, avevo capito la pensavano come me, e già progettavo con loro di dare vita ad un nostro “fascio universitario”, quando, la sera del 19, tornando a casa, vidi un gruppetto di persone che si affaccendava per attaccare alle colonne di via dell’Indipendenza dei manifesti scritti a mano.
Mi avvicinai curioso: erano sei o sette: due spennellavano e incollavano, gli altri si guardavano intorno con occhi nerissimi, impugnando nodosi randelli, mentre uno ostentava alla cintola un voluminoso pistolone. Fu proprio lui ad apostrofarmi:
“Allora, giovanotto, che c’è? Il Questore ce li ha fatti sequestrare in tipografia, e noi rimediamo. Aspeta dmanga e starè da vadar”.
Cominciai a leggere: “Domenica, le donne e tutti coloro che amano la pace e la tranquillità, restino a casa, e se vogliono meritare dalla Patria, espongano dalle finestre il tricolore italiano. Per le strade di Bologna domenica devono trovarsi solo fascisti e bolscevichi. Sarà la prova. La grande prova in nome dell’Italia”.
Avevo due giorni davanti. Il 21 ci sarei stato anch’io in piazza. Avevo finalmente trovato i miei camerati. Fu così che alle 14 della domenica pomeriggio arrivai in piazza Maggiore, finendo in mezzo ad una massa di alcune migliaia di persone che si erano lì date convegno per festeggiare la vittoria socialista alle elezioni comunali. Di fascisti, però, nemmeno l’ombra.
La gente mormorava che erano stati presi accordi con le Autorità perché se ne restassero nella loro sede, a via Marsala, a 50 metri dalla piazza, senza dare origine ad incidenti, con l’unica concessione che bandiere rosse non sarebbero state esposte dal palazzo del Comune o altrove.
Grande fu quindi la mia meraviglia quando, poco prima delle 15, dalla Torre degli Asinelli vidi sventolare un grosso drappo rosso. Fu un attimo: mentre ai bordi della piazza apparivano squadre fasciste provenienti da più direzioni, che cominciarono ad azzuffarsi con le Forze dell’Ordine, uno, in camicia nera, lestissimo, si arrampicò sulla torre e tirò via la bandiera.
Quasi contemporaneamente, sul balcone centrale del Municipio si affacciarono dei tali (avrei poi saputo essere il Sindaco con alcuni assessori) che sventolavano a loro volta delle bandiere rosse, mentre venivano liberati in volo decine di colombi con bandierine rosse legate alle zampe.
Bastò questo perché un gruppetto di fascisti (a me parvero una ventina, non di più) rompesse i cordoni di polizia e penetrasse nella piazza. Ne nacque un’immediata sparatoria. Sparavano tutti: attivisti socialisti sistemati intorno alla fontana del Nettuno, fascisti che cercavano di farsi largo tra la folla, Carabinieri, Guardie Regie e Cavalleggeri un po’ qua, un po’ là, un po’ a casaccio.
La gente – c’erano anche parecchi bambini – terrorizzata cominciò a correre in ogni direzione; alcuni si infilarono, per cercare rifugio, nel portone del Municipio. Fu allora che le Guardie Rosse, affacciate ai balconi, da dove sparavano sui fascisti, scambiando quegli impauriti cittadini per i loro nemici che si apprestavano ad entrare, cominciarono a tirare dai balconi delle bombe a mano sulla piazza.
L’esito fu terribile: dopo qualche minuto, sul selciato diventato un tappeto di scarpe, cappelli e ombrelli abbandonati dalla gente in fuga disperata, c’erano almeno una decina di morti. I balconi del Municipio erano diventati improvvisamente deserti (all’interno – e anche questo lo seppi dopo – veniva frattanto assassinato dalle stesse Guardie Rosse il Consigliere dell’opposizione Giulio Giordani), i fascisti si erano ritirati in direzione della loro sede, mentre le forze di polizia stavano cedendo il posto ad ambulanze e Croce Rossa.
Mi trattenni ancora qualche minuto sulla piazza, ormai avvolta da un lugubre silenzio. Quello che avevo visto mi era bastato: la provocazione socialista a dispetto degli accordi presi, il coraggio dei fascisti, che in pochi si erano avventurati sotto il fuoco nemico, la vigliacca codardia delle Guardie Rosse che dall’alto avevano bersagliato con le bombe una folla innocente.
Non era più il momento di stare a guardare. La mattina dopo salivo le scale della sede del fascio in via Marsala, per prendere il mio posto di combattimento.
Come era prevedibile, regnava una grande confusione: gente che andava e veniva, chi cercava notizie, chi portava informazioni, tutti a commentare i fatti del giorno prima.
L’aria era gravida di tensione: da un momento all’altro si aspettava una grande retata che avrebbe portato in carcere almeno i dirigenti del movimento e gli attivisti più noti. Questo lasciavano presagire anche i due camion stipati di Carabinieri, fermi da ore giù all’ingresso.
Mi rivolsi, un pò titubante, ad uno che, seduto ad una piccola scrivania aggiungeva e depennava nomi da un elenco scritto a mano.
“Vorrei fare la tessera – dissi – ieri ero in piazza Maggiore e mi sono deciso” Aggiunsi, come mi sembrava corretto, nome e cognome.
Quello sollevò appena la testa dai fogli che stava compulsando:
“Bene, ragazzo, adesso, come vedi, siamo un po’ impegnati, la tessera la faremo al più presto. Per ora resta qui e dacci una mano”.
Rimasi di sasso, e anche un po’ deluso. A parte quel “ragazzo” che non mi era granché piaciuto (lui aveva sì e no quattro o cinque anni più di me), mi aspettavo un’accoglienza migliore, per lo meno più calorosa. Comunque, pazienza, capivo bene che era pur sempre una giornata particolare. Mi avvicinai a qualche gruppetto di quelli che concionavano in giro per le stanze: ognuno dava la sua versione dei fatti di piazza Maggiore, e, naturalmente, ricavava per sé un ruolo sempre da protagonista. Io, che c’ero veramente, cominciai a sospettare che alcuni di quelli che raccontavano, in effetti non ci fossero, e lavorassero, diciamo così di fantasia.
Ad un tratto, si aprì una porta sul fondo del salone più grande, e apparve un uomo: era alto e robusto, l’espressione visibilmente stanca, ma aveva negli occhi una luce particolare che indicava energia e risolutezza.
“Va bene, ragazzi – disse – non perdiamoci in chiacchiere. Qualcuno vada in tipografia a ritirare volantini e manifesti che abbiamo dato da fare stamattina, e organizzate quante più squadre possibile per la distribuzione e l’affissione in città. Occhio, però, in giro ci sono ancora le Guardie Rosse di Castel San Pietro e di San Giovanni in Persiceto. Sono arrivate ieri, erano in Municipio e in Piazza, poi hanno dormito alla Camera del Lavoro, sono armate e cercano vendetta”.
Aveva appena finito di parlare, che quello al quale mi ero rivolto per la tessera si alzò dalla piccola scrivania e si avviò all’uscita:
“Tranquillo, Arpinati, ci penso io, vado e torno”.
Passando, chiamò un paio di giovanotti, e, quando mi fu vicino, mi mise una mano sulla spalla:
“Vieni anche tu. Volevi renderti utile. Questa è l’occasione buona. La tessera la faremo al ritorno. A proposito, io mi chiamo Luciano”.
La tipografia era vicina, e il viaggio di andata e ritorno andò bene. Il tipografo ci fornì anche di un carrettino sul quale stipammo una quantità inverosimile di materiale, e, al momento di salutarci, si raccomandò:
“Dite su al fascio che tra qualche giorno a pas a scodar. A n’ho piò post in tal libar naigar, avev capè?”.
Alla sede ci aspettavano gli altri, che si erano già organizzati in squadre. Mi aggregai ad un gruppetto il cui comando fu preso da Luciano, e ci avviammo, per Via Rizzoli. Eravamo meno di una decina, e quasi tutti, escluso me, impugnavano dei robusti bastoni che solo con molta fantasia si sarebbero potuti definire “da passeggio”.
C’erano tre in tuta da ferroviere (avrei poi saputo che erano seguaci di Arpinati da quando lui, anarchico, era un loro collega di lavoro), tre o quattro che parevano studenti, e, un po’ discosti, due in divisa da Arditi, con le giubbe sbottonate, sotto le quali facevano capolino, minacciosi, due revolver.
Procedemmo al nostro lavoro con alacrità, ma in allegria, scambiandoci battute scherzose il cui evidente scopo era quello di alleggerire la tensione e amalgamare il gruppo. Andò tutto per il meglio, fino all’esaurimento del materiale e al calare delle prime ombre notturne. A turno ci scambiavamo i ruoli, due incollavano e gli altri distribuivano, mentre i due Arditi, con certi sguardi da lupi in caccia, scrutavano tutto intorno. Di Guardie Rosse nemmeno l’ombra. Fu, invece, molta la gente che ci si avvicinò con aria cordiale:
“Bravi ragazzi! Non se ne poteva più delle loro prepotenze! Siamo con voi!”
Avevamo quasi finito la scorta di volantini e manifesti, quando Luciano mi venne di fianco:
“Tutto bene? Visto che poi non è difficile? hai passato la tua prima giornata da squadrista, torna domani e facciamo la benedetta “tessera” – poi fece un sospiro, e aggiunse: “Tanto, per quel che serve”.
Le settimane successive le passai quasi per intero alla sede del fascio, dove ero diventato una presenza fissa, a scapito delle lezioni universitarie.
Ben presto conobbi tutti e tutti mi conobbero, mentre la mia amicizia con Luciano faceva passi da gigante. Era, nel fisico, molto diverso da Sante, magrolino e con un paio di occhialetti – nervoso, li metteva e toglieva, quasi gli desse fastidio tenerli –; eppure, tra i due mi parve ci fossero molte cose in comune.
Volontario in guerra, ferito due volte, aveva in corso una proposta per una medaglia d’argento, ma si scherniva:
“Ho fatto solo il mio dovere, allora dovrebbero decorare tutto l’Esercito italiano!”
Anche suo padre, per curiosa coincidenza, era professore di liceo, e lui, prima di partire per il fronte, era iscritto a Lettere e Filosofia; poi aveva dovuto sospendere, ma ora contava di ricominciare con gli studi.
“Mi hanno detto che per i reduci ci sono delle agevolazioni – aggiungeva ridendo – chissà che non riesca a finire, così faccio contento il vecchio genitore che ormai è dal ’15 che è in ansia per me”.
Aveva, di Sante, la stessa capacità di affrontare e risolvere i problemi con calma, individuando sempre i percorsi migliori. Questo faceva sì che la sua parola fosse molto ascoltata, anche da quegli esagitati spaccamontagne che affollavano via Marsala. E poi, il suo coraggio lo aveva dimostrato nell’assalto alla Camera del Lavoro del 4 novembre, quando era stato sempre davanti, prima sotto il fuoco nemico e poi nell’opera di devastazione.
Un giorno, mentre passeggiavamo dalle parti di via Rizzoli, mi fece:
“Senti, Achille, stasera devo andare ad una festa in casa di un collega di mio padre. La figlia, che conosco da bambina, compie 21 anni ed ha organizzato una serata con i suoi amici, nostri coetanei. Ci sarà anche qualche genitore, ma non mio padre che è un notorio “orso” e ha incaricato me di portare il regalo a nome suo. Ci andiamo, stiamo un po’, magari conosciamo qualche ragazza carina, e poi filiamo via. Mi accompagneresti?”
Avrei preferito una “visitina” in qualche circolo sovversivo (pochi giorni prima ne avevamo fatta una, che si era risolta con una cazzottatura generale e due bandiere leniniste sequestrate), e glielo dissi ridendo, ma mi lasciai convincere subito: in fondo, avevo voglia anch’io di stare un po’ con gente diversa, che si credeva “normale”. E poi, quell’idea di fare qualche amicizia femminile mi solleticava parecchio.
E così, la sera andammo: ci eravamo messi in ghingheri, io con un bell’abito – ancora mai indossato – che le zie mi avevano fatto fare su misura prima che partissi, dal sarto del paese, e Luciano tutto elegante anche lui, con gli occhialetti, sembrava un vero intellettuale.
La casa era bella, grande, accogliente e calda (fuori cominciava a fare parecchio freddo), il papà della ragazza ci accolse con molta cordialità, chiese del suo vecchio amico e poi ci lasciò sull’uscio di un salone dal quale provenivano voci e una musica in sottofondo.
Dentro c’erano una ventina di ragazzi e ragazze, più o meno della nostra età, anche loro con aria da elegantoni negli abiti che, se nuovi non erano, facevano comunque la loro figura (soprattutto quelli delle fanciulle). La festeggiata – si chiamava Miriam – che spiccava fra tutti per la sua bellezza ed eleganza, ci venne incontro con un sorriso: baciò sulle guance Luciano e strinse la mano a me:
“Accomodatevi e fate da soli le presentazioni – disse – questi sono tutti i miei più cari amici”.
Alcuni ci salutarono con un gesto della mano, altri continuarono tranquillamente nelle loro conversazioni, io e Luciano ci avvicinammo al tavolo dove un premuroso cameriere riempiva i bicchieri che gli ospiti gli porgevano, attingendo da varie bottiglie messe ordinatamente in schiera.
Ad un tratto, Luciano mi si fece più vicino e mi strinse un braccio:
“Non ti voltare, ma lì c’è uno che ci conosce e ci ha riconosciuto. Ti ricordi un paio di settimane fa, quando siamo andati a cena con qualche camerata in quell’osteria vicino all’Università?”
Certo che mi ricordavo. Come dimenticarlo? ci eravamo appena seduti, quando la nostra attenzione era stata attratta da un gruppetto che si passava di mano in mano un giornaletto comunista di Torino, abbastanza noto, “L’Ordine nuovo”. Dopo pochi minuti, Fabio e Folco, i due indivisibili Arditi che erano stati tra le mie prime conoscenze al fascio, e che avevano notato il giornaletto che girava, cominciarono a cantare provocatoriamente i loro stornelli, pieni di “comunisti mettetevi a correre….se voi le avete prese, noi ve le abbiamo date”, e via così, seguiti a ruota da tutti noi.
Visto, però, che quelli non se ne davano per intesi, Fabio si avvicinò al loro tavolo, prese il giornale e lo strappò in mille pezzi. Ne nacque una zuffa violentissima, anche se brevissima: dopo due minuti i “compagni” avevano sgombrato il campo e noi, tranquilli, come se niente fosse, stavamo proseguendo la nostra cena, a base di salsiccia e crescentine fritte, con abbondanti bicchieri di Albana.
Invitammo a bere anche l’oste, dopo averlo rassicurato che gli avremmo ripagato i danni; ciò che contava veramente, però, era che tra noi, anche in quella circostanza apparentemente così futile, si stava cementando una cameratesca intesa, fatta di momenti condivisi e di intenti comuni.
“Ebbene – proseguì Luciano – due di quelli sono qui stasera. A n’ho brisa voja ed fer de casen a casa della mia amica. Facciamo così: stiamo ancora un po’, e poi con una scusa ce ne andiamo, prima che succeda qualcosa di antipatico”.
Assentii: la sua idea mi pareva giusta. Mi dispiaceva, però, perché da qualche minuto stavo chiacchierando con una simpatica ragazza che avevo adocchiato fin dall’ingresso. Aveva detto di chiamarsi Ornella, di essere matricola a Medicina, e di venire anche lei da un paese poco distante, del quale mi stava parlando con evidente nostalgia. Amava la campagna come me, e le mancavano qui in città, il risveglio al canto degli uccelli, l’odore del fieno appena tagliato, le corse a perdifiato, l’orizzonte senza nessun ostacolo, a perdita d’occhio. Insomma avevamo parecchio da raccontarci.
Quando Luciano mi fece cenno, la salutai, promettendole che un giorno sarei passato a trovarla in Facoltà; poi ci accomiatammo da Miriam, fingendo un dispiacere che però, almeno per me, era sincero.
Avevo ancora negli occhi lo sguardo sincero di Ornella, i suoi capelli biondi come il grano maturo, il suo sorriso e la sua risata gorgogliante, quando scendemmo in strada silenziosi.
In giro non c’era quasi più nessuno, avevamo fame e cominciava a calare un po’ di nebbia, anche se tardi non era: le sagome delle due torri, a breve distanza, sembravano fantasmi che aleggiavano sulla città.
“Sai che si fa – proruppe Luciano – andiamo al fascio. Lì c’è di sicuro qualcuno che deve ancora cenare, sentiamo le novità (ogni giorno ne succedeva una) e poi vediamo”.
Ci avviammo, ma senza fretta, ognuno inseguendo i suoi pensieri. Avevamo fatto un centinaio di metri, in direzione di via Marsala, quando sentimmo, chiaramente, rumori di passi affrettati dietro di noi. Ci girammo e distinguemmo quattro ombre che, apparendo e sparendo dietro le colonne dei portici, si facevano sempre più vicine.
Facemmo qualche metro ancora, e, all’improvviso, Luciano sbottò:
Bòna lè, questa storia è durata anche troppo. Andiamo a vedere chi sono e cosa vogliono”.
In realtà più di un sospetto ce l’avevamo: non ci erano sfuggite le occhiate piene di astio di quei giovanotti su, a casa di Miriam; niente di più facile che volessero vendicarsi della serata in osteria. Non restava che accertarsene.
Luciano si era tolto gli occhialetti, e, con aria decisa, si era indirizzato verso il gruppo. Fu allora che uno di quelli che ci avevano riconosciuti pensò bene di rompere gli indugi:
“Voi siete i fascisti assassini di piazza Maggiore. Non vi è bastato far morire tanti soldati nella guerra sciagurata che avete voluto? Ora ve la prendete anche con i cittadini innocenti?”.
Non aveva finito di parlare che Luciano lo colpì con un cazzotto in pieno viso, che lo buttò steso per terra… io, mentre ci avvicinavamo, avevo dato un’occhiata al gruppo, con esiti confortanti: è vero che loro erano in quattro e noi due soli, ma mentre qualcosa mi sembrava rivelare la loro inesperienza in fatto di zuffe di strada, io ero sicuro di me stesso (e, ovviamente, di Luciano). In poco più di quindici giorni “squadristi” ero stato coinvolto in tre scontri con i “rossi”, sempre in inferiorità numerica (e molto di più di quella sera sotto i portici), ma uscendone sempre vincitore. Appena furono a tiro, partii con un calcio violento nelle “parti basse” di quello che mi era più vicino, e lo mandai a raggiungere sul selciato il suo compagno, mentre Luciano assestava un paio di sberloni(bastarono quelli) al terzo. Rimaneva l’ultimo, il più grande e grosso, un vero armadio, ma con la faccia da bambino. Girò le spalle da solo e si allontanò di corsa.
Ce ne andammo al fascio, con la tacita intesa che non avremmo fatto parola con nessuno. Non era successo niente, non era il caso. Giusto una discussione un po’ “animata”.
Qualche giorno dopo, approfittando delle vacanze natalizie, tornai al paese, ad affrontare, come prevedibile, la raffica di domande di genitori e zie. Volevano sapere tutto: come andavano i miei studi, come erano i colleghi, com’era la vita a Bologna che diceva lo zio Pietro. Fui letteralmente travolto, e a molte quesiti non volevo o non potevo rispondere.
Alla sessione di ottobre non avevo fatto nessun esame (e, a dir la verità, era da tempo che non toccavo un libro, da quel 21 novembre, in pratica), comunque me la cavai egregiamente, con qualche bugia e molta fantasia. Non vedevo l’ora di andare al fascio per vedere se Sante era tornato, salutare gli amici, ascoltare e dire le novità.
Quando arrivai – cominciava ad imbrunire – c’erano il signor Antenore, Nullo e Berto; di Sante ancora nessuna notizia e tutti, compreso il dottor Luigi, non sapevano che pensare.
La sua assenza aveva ringalluzzito i sovversivi locali, che, con la fine dell’estate, si erano fatti più aggressivi: una notte erano venuti a rubare la targa che avevo realizzato con tanta passione, e in un paio di occasioni avevano provato l’aggressione, in trenta o quaranta, ai miei tre camerati (i due giovanotti repubblicani si erano eclissati, definitivamente convinti che la loro esperienza politica era nata sotto una cattiva stella).
L’intervento del Maresciallo dei Carabinieri e la decisa reazione degli aggrediti avevano evitato guai peggiori, ma l’aria si era fatta cattiva.
Raccontai loro qualcosa di Bologna, parlai di Arpinati che era un capo coraggioso e carismatico, e, al momento degli auguri, cercai di rassicurarli, assicurando che, se fosse stato necessario, sarei tornato con qualche camerata del capoluogo per dare una mano.
Sante assente, non avevo più voglia di prolungare la mia permanenza in paese, e, dopo Santo Stefano e l’ennesimo pranzo (tortellini – rigorosamente “chiusi” ad uno ad uno dalle zie – in brodo di cappone, arrosto di coniglio con patate, zuppa inglese), adducendo la scusa di un appuntamento in Facoltà con un professore un po’ bislacco, me ne partii.
Zio Pietro fu contento di vedermi tornare, ma la sua contentezza durò poco, chè subito lo salutai e me ne andai al fascio. Qui c’erano tutti: non sembrava Natale, l’attività ferveva come sempre, anzi più di prima.
Il 20 dicembre, mentre io ero al paese, alcuni di noi – una cinquantina – si erano recati a Ferrara, in occasione della programmata commemorazione di Guglielmo Oberdan, per restituire la cortesia ai camerati di lì, che si erano presentati in piazza Maggiore, di rinforzo, il giorno del tragico eccidio.
Il loro pacifico corteo, però era stato bersagliato dalle fucilate di Guardie Rosse appostate tra i merli del castello, con la complicità degli Amministratori socialisti, quasi in una replica di quanto avvenuto da noi, che aveva fatto “solo” tre morti e una decina di feriti tra i fascisti. Un altro brutto segno, però: l’atmosfera cominciava a farsi veramente pesante.
Fu in questo clima che, a fine gennaio, Arpinati decise di farci partecipare, in buon numero, a Modena, alle esequie di un’altra vittima fascista, Mario Ruini.
“Si tratta di un funerale – ci tenne a precisare – noi dobbiamo esserci, ma mi sento di escludere che stavolta nascano incidenti, quindi, chi vuole, venga tranquillo. Io farò mettere a disposizione una corriera con autista, e ci vedremo lì. Nomino capo spedizione Luciano”.
Quest’ultima decisione vinse ogni mia titubanza: ci sarei andato lo stesso, ma con Luciano al comando, non potevo mancare.
Glielo dissi, e lui ne fu felice. Poi mi chiamò in disparte, con un fare un po’ misterioso, e, porgendomi un pacchetto, mi fece:
“Achille, qui l’aria si sta facendo irrespirabile. Temo non sia più tempo di cazzotti, e nemmeno di bastonate… qualche giorno fa uno dei nostri è andato a Milano, alla Direzione del Movimento, ed è tornato con due valigioni carichi di pistole e bombe. Ho preso due Glisenti con una buona scorta di proiettili, una per me e una per te. Ora ti insegno ad usarla, perché credo sarebbe meglio se a Modena – e forse sempre d’ora in poi – l’avessi con te”.
E così, dopo qualche velocissima lezione teorico-pratica in riva al Reno, la mattina del 24 mi presentai alla corriera, tenendo ben nascosta in tasca la mia nuova “compagna”.

 

Capitolo terzo
Quando, dopo poco meno di due ore, la corriera ci scaricò a Modena, in una stradina nei pressi di Piazza Grande, ad accoglierci trovammo Arpinati e qualche altro camerata che, evidentemente, ci avevano preceduto in auto.
Con loro c’erano anche alcune signore e ragazze, tra le quali, con mio grande stupore e felicità riconobbi Ornella. Mi avvicinai, per chiederle il motivo della sua presenza lì, e mi spiegò di essere amica di Rina, la fidanzata di Arpinati, che abitava nello stesso palazzo della nonna (dove lei era ospite durante la sua permanenza a Bologna), e l’aveva invitata a partecipare alla manifestazione, poiché, chiacchierando, avevano scoperto di avere idee comuni.
Appena il corteo funebre cominciò a muoversi, la salutai, assicurando, però, che sarei rimasto nei pressi, insieme ai camerati con i quali ero venuto; sicuramente ci saremmo rivisti prima della partenza.
Si era formato, intanto, un lunghissimo serpentone: c’erano rappresentanze di tutti i fasci e di tutte le associazioni combattentistiche emiliane: noi di Bologna eravamo al centro, mentre Arpinati e le signore che lo accompagnavano, con le altre autorità si erano sistemati in testa.
All’altezza del palazzo delle Poste si scatenò il finimondo: gruppi di Guardie Rosse appostate sotto i portici cominciarono a spararci addosso a bruciapelo, mentre dall’alto, da tetti e finestre, ci bersagliavano con fucilate.
Ai primi colpi, il mio pensiero andò ad Ornella: partii di scatto e raggiunsi la testa del corteo, facilitato dal vuoto che si era fatto in strada, dal momento che tutti erano corsi a rifugiarsi sotto i portici. Arpinati no, era là, al centro della strada, circondato dalle ragazze, quasi con aria di sfida, disarmato.
Gli fui addosso d’un balzo e cademmo insieme sul selciato. Appena in tempo, che due pallottole ci sfiorarono, e una lo colpì di striscio al polpaccio.
Era ora di togliersi da lì: raggiunsi Ornella, la sollevai da terra dove si era sdraiata nel tentativo di proteggersi dalle fucilate, e, tenendole un braccio sulla spalla, di corsa, la portai al sicuro, prima sul marciapiede e poi in un caffè il cui proprietario, premurosamente, ci aprì la porta.
Dopo qualche minuto ci raggiunsero Arpinati, ferito, che camminava “a zoppa galletto”, con la fidanzata e due signorine. Con loro, altri dei nostri che, armati, cominciarono a rispondere al fuoco. E io con loro…
Il peggio ormai era passato; gli sparatori scomparsi, mentre a terra, morti, giacevano due fascisti. Improvvisammo un corteo rabbioso: di corsa alla Camera del Lavoro, deserta, che fu occupata e data alle fiamme, senza che nessuno intervenisse.
Al termine, tornai al caffè dove avevo lasciato Ornella. Lei era sempre lì, con le altre ragazze, sotto la protezione di un gruppo di squadristi modenesi; Arpinati, però, non c’era: era andato in ospedale a farsi medicare, ci dissero.
Luciano si recò subito sul posto, a prendere ordini, e, al ritorno comandò, secco:
“Qui è finita per ora. Torniamo alla corriera e rientriamo a Bologna”.
L’ordine riguardava anche me. Salutai Ornella, che mi diede un bacio sulla guancia, facendomi arrossire; improvvisai un maldestro inchino rivolto alle altre signorine, e mi allontanai, quasi correndo.
Ero ancora sull’ingresso del bar, quando mi feci coraggio e tornai sui miei passi; fingendo noncuranza mi avvicinai di nuovo ad Ornella e le chiesi il suo indirizzo, con la scusa di passare poi a chiedere come stava e se si era ripresa.
Me lo scrisse su un bigliettino, e con il prezioso documento in tasca, protetto dalla Glisenti, salii sulla corriera.
Il rientro fu mesto: ancora due morti e tanti feriti nelle nostre file, senza che gli avversari avessero a lamentarne nessuno. La tecnica dell’agguato si stava rivelando vincente per loro e tragicamente onerosa per noi. Occorreva passare all’offensiva, ed andarli a stanare nelle loro sedi, prima che potessero organizzarsi e spararci addosso.
Qualche giorno dopo, Arpinati mi mandò a chiamare.
“Grazie, credo di doverti la vita – esordì così – non lo dimenticherò. Per ora ho bisogno di te: ci stiamo organizzando per squadre, per una migliore efficienza e prontezza operativa. Una, che abbiamo già battezzato “L’Ardita”, sarà comandata da Luciano, che tu ben conosci. Ti ha proposto come Vice Comandante e a me sta bene. Sarete in 25: Luciano sta scegliendo i suoi uomini. Ci sarà molto da fare nei prossimi mesi”.
Fu buon profeta: fino a luglio fu un susseguirsi di battaglie di strada, a Bologna e fuori Bologna. Avemmo i nostri morti e ne facemmo tra le file avversarie. Al termine, però, la potente organizzazione sovversiva che dalla fine della guerra aveva imposto il suo dominio, era completamente scompaginata.
Con la mia squadra fui sempre in prima fila; una volta un colpo di fucile esploso da una finestra per poco non mi faceva secco, ma quasi sempre trovammo paesi deserti, nemici in fuga, Sezioni di Partito, Camere del Lavoro e Sedi Sindacali abbandonate.
Conobbi e mi accompagnai a gente di tutti i tipi: raffinati viveur e scalcinati birrocciai, coltissimi professori di Liceo e fruttivendoli analfabeti, autentici “uomini d’arme” rodati dalla trincea e timidi sedicenni che non avevano mai visto un revolver.
E poi i capi: Arpinati, che era il mio preferito, perché era stato il primo fascista di Bologna, era sempre in prima fila, sapeva assumersi le responsabilità di un capo, ed era severo e comprensivo allo stesso tempo. Poi Baroncini, Bonacorsi, Grandi, e tanti altri.
Naturalmente, i miei studi languivano: un paio di volte si presentò a casa di zio Pietro, Settimio, inviato dai miei ansiosi di notizie, e non mi trovò.
Lo zio Pietro fu bravo, inventò delle scuse, disse che ero fuori città a studiare nella villa di un amico e geniale nell’inventarsi che, a causa della turbolenta situazione, la sessione estiva degli esami sarebbe saltata.
Con Ornella le cose procedevano bene: passavamo ore indimenticabili insieme. Spesso uscivamo per lunghe passeggiate; la nostra meta preferita era San Luca, dove arrivavamo percorrendo il lungo porticato, tenendoci doverosamente a distanza, anche se in me cresceva forte il desiderio di stringerla al mio petto e sfiorare le sue labbra con un bacio.
A luglio, dopo che mi era giunta una lettera allarmata e perentoria di mio padre (“Insomma, fatti vivo, tua madre ha bisogno di vederti!”) mi decisi a tornare al paese, per una decina di giorni. Ornella fu d’accordo, anzi “spinse” perché andassi, Luciano mi assicurò che potevano benissimo fare senza di me ormai, e partii.
Al paese. abbracci, baci, le zie piantate a casa nostra, conversazioni interminabili, e ancora domande, domande, domande.
Comunque, la seconda sera mi liberai e corsi alla vecchia sede. A differenza dell’altra volta, era tutta illuminata, e c’era gente seduta a dei tavolini messi lì fuori, all’ingresso, per cercare di vincere il caldo veramente afoso. Dentro, seduto dietro una bella scrivania, su una poltrona di velluto rosso, Sante.
Ci abbracciamo, a lungo, ché tanta era la felicità di ritrovarsi e la voglia di raccontarci ciò che ci era successo in quell’anno e mezzo di separazione.
Prima, però, Sante, guardando la mia faccia perplessa di fronte al lusso della sua sistemazione, mi spiegò con un sorriso che gli illuminava tutta la faccia:
“E’ tutta roba “sequestrata” alla Camera del Lavoro, prima dell’incendio. Mi dispiaceva ridurre in cenere questo ben di Dio, e l’ho fatta portare qui, così la gente, quando viene ad iscriversi – e sapessi quanti ne vengono, anche di vecchi “rossi” – la riconosce e capisce che il vento è cambiato.
Qui ora comandiamo noi, le prepotenze sono finite, e ho personalmente “convinto” i proprietari ad un contratto che ha di molto migliorato le condizioni economiche e di vita dei contadini, ferma restando la tutela della loro proprietà… sempre che ne facciano buon uso” concluse sornione.
Per qualche giorno mi divisi tra casa e il fascio: ritrovai il signor Antenore, Nullo e Berto (che era diventato “organizzatore dei sindacati fascisti”) e mi sembrava di essere tornato ai vecchi tempi.
Finchè, una sera, Sante mi chiamò in disparte.
“Senti, Achille – questo il suo discorsetto –, come ti ho detto, qui la situazione è ormai tranquilla. Ce n’è ancora un paio che non si convincono, ma non ci danno pensiero, anche se ogni tanto succede ancora qualche episodio spiacevole.
Due giorni fa, per esempio, in una frazione qua vicino, su, in collina, un vecchio capolega, Dante Montanari, quello che chiamano “Tacabriga”, ha incontrato in piazza uno dei nostri e lo ha conciato male, a roncolate.
Capisci bene che non possiamo lasciar correre. Tra un paio d’ore andiamo su, io, Nullo e Berto e gli diamo una lezione. Se ti va, puoi venire con noi, è roba di un paio d’ore.
Non me lo feci dire due volte: mi piaceva l’idea di “agire” anche al mio paese. Ero stato in tanti posti, ma lì mai, questa era la volta buona.
Alle 22 precise ero davanti alla sede. Nullo e Berto già aspettavano, Sante arrivò dopo qualche minuto, pilotando la macchina del padre.
“Allora, ragazzi, si va? Occhio che questo è un brutto pesce, e sicuramente ha delle armi con sé. Io ci voglio prima parlare, se si convince ed ammette la stupidata fatta, possiamo anche lasciar perdere, tutt’al più gli faremo bere un bicchiere del “nostro” e tutto sarà finito”.
E, così dicendo, indicò una bottiglia di olio di ricino – evidentemente “prelevata” al negozio del padre – sul sedile posteriore.
Una ventina di minuti ed arrivammo. Era una grossa cascina isolata in campagna; le luci erano spente, e in lontananza dei cani abbaiavano.
“Dante, Dante Montanari – cominciò Sante – vin in zà, che a vlan scarrar un poc con tè”. Non aveva finito di dirlo, che una finestra al primo piano si aprì appena appena, spuntò la canna di una doppietta e partirono due colpi di fucile.
Ci buttammo dietro un vecchio carretto che stava lì sull’aia e sparacchiammo a nostra volta in direzione della finestra; eravamo tutt’e quattro armati di pistola, ma i colpi rimbalzavano sui muri o sui pesanti scuri.
Quello, da dentro, non rispondeva, si sentiva al sicuro, ed era inutile sciupare pallottole. Fu allora che Sante ebbe un’idea:
“Tu, Berto, che sei più piccolo e agile, vai sul retro della casa, arrampicati utilizzando tutti gli appigli possibili, e vedi di trovare una finestra che si può aprire. Noi ogni tanto tiriamo qualche colpo da qui, in modo da tenerlo impegnato. Appena sei dentro, scivola di basso e aprici”.
E così fu: dopo una decina di minuti Berto riapparve.
“Tutto più facile del previsto – disse – che quaionaveva lasciato lo scure di una finestra a piano terra accostato. Possiamo entrare”.
In silenzio, ci avviammo, scavalcammo il davanzale e fummo dentro. Buio assoluto; a giudicare dai colpi che ci erano arrivati addosso, Montanari doveva essere su al primo piano, nella stanza sull’angolo destro. Non restava che andarlo a prendere.
In fila indiana, salimmo. La porta era accostata, e toccò a Sante con un calcione spalancarla.
All’interno, una candela faceva una fiochissima luce, e il nostro uomo era di spalle, rivolto verso la finestra, con lo schioppo in mano. Si voltò di scatto, e fece fuoco di nuovo, due volte. Poi buttò per terra l’arma, ormai scarica, e impugnò un revolver che aveva infilato nei pantaloni. Berto era stato probabilmente ferito (avevamo sentito il suo grido di dolore, subito dopo il secondo colpo), non ci restava che fare fuoco a nostra volta.
Si sentirono parecchie detonazioni, la luce della candela si spense, e, improvviso ed imprevisto, il pianto di un bambino, accompagnato dal grido di Montanari:
“Smettetela, ci sono una donna e un bambino qui”.
Subito dopo la candela si riaccese, e ci apparve il Tacabriga, disarmato e con un bambino di qualche mese in braccio; a terra giaceva una donna vestita di nero.
“Fai luce – ordinò Sante – cerchiamo di capire cosa diavolo è successo qui”.
Dopo qualche minuto un lume rischiarò la stanza, e ci fu tutto chiaro: Montanari, da incosciente, si era asserragliato in quella camera con la moglie e il bambino; quando era scoppiato il conflitto a fuoco, una delle pallottole doveva aver colpito la donna. Restava solo da capire chi era stato.
Nella stanza era calato un cupo silenzio. Anche Berto aveva smesso di lamentarsi. Per puro scrupolo, Sante si chinò sulla donna, che aveva una vasta ferita sul petto, per vedere se respirava ancora, ma, quando si rialzò le sue uniche parole furono:
“E’ morta, povera donna”.
Ora bisognava risolvere la faccenda. Non potevamo certo andarcene via: Tacabriga conosceva i tre camerati del paese, ed io ero forse l’unico sconosciuto per lui; poi c’era Berto che continuava a perdere sangue da un braccio, e aveva bisogno di un medico.
“Achille, tu che sai guidare prendi Berto e portalo in paese dal dottore, poi passa dal Maresciallo e fallo venire qui. Io e Nullo restiamo ad aspettarvi.
Montanari, frattanto, si era seduto per terra, e cullava il bambino tra le braccia, senza piangere, guardandoci con occhi pieni di odio.
Scesi in paese e feci come mi era stato detto. In un’oretta eravamo di ritorno, e gli uomini del Maresciallo cominciarono a darsi da fare. Quando fu tutto finito, ci fu detto di passare in Caserma per le deposizioni; lì dovemmo mostrare le nostre armi (avevamo tutti il porto d’armi), mentre quelle di Tacabriga furono consegnate ad un piantone.
Raccontammo con sincerità i fatti, consapevoli che, nella confusione, non eravamo in grado di dire chi avesse colpito la povera donna, se uno di noi o il marito stesso. Toccava al maresciallo scoprirlo. Restava il fatto che il Montanari ci aveva accolto a fucilate, aveva sempre sparato per primo, ed aveva anche ferito il povero Berto.
Tornai a casa di cattivo umore: l’imprevisto epilogo di quella nottata mi aveva sconvolto, ero sicuro di non essere stato io a colpire la donna, perché avevo tirato verso la finestra, dove avevo visto il Montanari finché la candela era rimasta accesa, ma ciò nonostante non mi sentivo tranquillo.
La mattina seguente la notizia si sparse in paese, e lo vennero a sapere anche i miei. Prima che i dettagli – e quindi il mio nome – arrivassero anche lì, dissi che dovevo partire improvvisamente, perché era venuto un mio collega da Bologna a chiamarmi per prendere parte ad una urgente raccolta di sangue organizzata per uno studente vittima di una rovinosa caduta da cavallo, e, come un ladro, presi la prima corriera.
Nei giorni successivi divorai freneticamente le pagine di cronaca del Carlino, alla ricerca di notizie. Finalmente, dopo una decina di giorni, un trafiletto mi informò che il caso era stato risolto: l’autopsia aveva accertato che la povera donna era stata involontariamente colpita da un colpo di fucile esploso dallo stesso marito, il quale così all’accusa di tentato omicidio ai danni di Berto, si vedeva aggiungere quella di omicidio preterintenzionale nei confronti della moglie.
La notizia mi tolse un peso dallo stomaco, e allora, dopo essere stato qualche giorno assente, tornai a via Marsala, accolto festosamente dai camerati che avevano letto ed erano stati in pensiero per me.
Quello che avvenne nei mesi successivi è inutile stia ora a raccontarlo: è storia. Praticamente vinto il nemico esterno, il fascismo fu vittima di una serie di polemiche interne che interessarono anche Bologna, dove le sue due anime si riconobbero in Arpinati e Grandi.
Io fui sempre col primo. Nell’avvocato di Imola c’era qualcosa che non mi convinceva, e ne ebbi conferma quando, al Congresso di Roma di fine anno, da critico di Mussolini e difensore delle ragioni del fascismo provinciale, si trasformò in supermoderato “revisionista del fascismo”, come poi si sarebbe detto.
A maggio del ’22 vivemmo grandi giornate con l’occupazione di Bologna, quando decine di migliaia di armati si riversarono in città per protestare contro il Prefetto Mori, e tennero in scacco le autorità per parecchi giorni.
In quell’occasione rividi Sante e i miei camerati del paese, dove, dopo l’incidente, non ero più stato. Si erano, infatti deteriorati, e molto, i rapporti con i miei, soprattutto con mio padre che non aveva approvato il mio totalizzante impegno politico (zio Pietro, messo alle strette, aveva parlato) e la mia partecipazione all’episodio del Montanari.
Mi giungeva, puntuale un piccolo sussidio mensile dalle zie, aiutavo nello Studio con qualche pratica burocratica in Tribunale, e collaboravo con L’Assalto, l’organo della federazione fascista, dove, grazie all’intervento di Arpinati, che era a conoscenza della mia difficile situazione, ogni articolo mi veniva, se pur modestamente, pagato.
Con Sante e gli altri, che erano venuti in città per partecipare all’occupazione, non affrontammo mai il discorso di quella notte, e anzi, a dir la verità, approfittai del ruolo di “Ufficiale di collegamento” che Balbo in persona mi aveva assegnato, per stare poco con loro, pur senza sembrare scortese.
Quando, qualche mese dopo, ci fu la Marcia su Roma, fui tra quelli incaricati di dirigere le operazioni in città, con l’obiettivo principale di occupare gli edifici pubblici, procurare armi, e liberare i camerati in carcere, evitando, per quanto possibile, ogni conflitto con Esercito, Guardie Regie e Carabinieri.
Mi mostrai all’altezza del compito, e, esclusa una sparatoria conclusasi tragicamente con alcuni uomini dell’Arma che, nella loro caserma di San Ruffillo non volevano cedere le armi, filò tutto liscio.
Un paio di settimane dopo, organizzammo un banchetto di ringraziamento ad Arpinati, che restava il nostro capo, anche se le mene di Grandi rischiavano di scavargli il terreno sotto i piedi.
Eravamo circa 150, Comandanti, ViceComandanti e componenti più attivi delle squadre. Alla fine, però, Arpinati volle parlare a tu per tu, come a lui piaceva fare, con una decina soltanto, e tra questi io.
“Achille – mi disse, dopo un lungo, affettuoso abbraccio – abbiamo vinto, ma credo che la parte più difficile venga ora. Già è cominciato l’arrembaggio al carro del vincitore da parte di chi fino a ieri non c’era, e la corsa a incarichi e prebende di chi c’era e vuole essere ricompensato. Non fa per me, e non so quanto resisterò, ma lo devo a Mussolini, che mi vuole bene e io considero quasi un padre. Per te è diverso. Hai fatto il tuo dovere in quella che è stata una vera guerra, ora ti tocca farlo in pace, per ben meritare da questa Patria che amiamo tanto.
Torna ai tuoi studi, e cerca il tuo posto nel mondo. Non dimenticheremo mai questi che sono stati gli anni migliori della nostra vita, e io non dimenticherò mai te, anche per ciò che facesti quel giorno a Modena”.
Non sono mai stato un sentimentale, però quelle parole mi commossero profondamente. Con le lacrime agli occhi mi accommiatai dal mio vecchio Segretario, e sull’uscio lo salutai come mi era piaciuto fare ma solo con le persone che stimavo: un bel saluto romano, sull’attenti, da vecchi camerati.
Quella sera stessa, anche se era tardi, passai da Ornella, che ormai avevo deciso essere la donna della mia vita, la svegliai e le raccontai tutto. Lei mi fissò con uno sguardo indagatore; sapeva quanto cuore avevo messo nei miei impegni al fascio, ma aveva sempre sperato che un giorno tornassi agli studi. Ci guardammo negli occhi, e quella sera ci scambiammo il nostro primo bacio.
Insieme decidemmo che già dall’indomani mi sarei affacciato in Facoltà; l’anno accademico era appena iniziato, e con un po’ di fortuna già a febbraio marzo avrei potuto dare i primi esami.
Rientrato a casa di zio Pietro, aprii il cassetto del comò che era in camera mia e ne tirai fuori la camicia nera che avevo sempre indossato in azione in quegli anni. La piegai con cura, così com’era, sbiadita e con qualche strappo, e la riposi tra due fogli di carta velina che poi impacchettai con ogni riguardo.
L’indomani ne avrei comprata una nuova, magari più elegante. Quella no, però, sarebbe rimasta lì, era troppo carica di ricordi. Rappresentava, col suo pannaccio scadente, la mia personale “primavera di bellezza”.
Non avrei mai immaginato di doverla indossare di nuovo, 21 anni dopo, per una nuova battaglia, che mi avrebbe condotto qui, disteso sul bordo di questo rigagnolo d’acqua che porta all’Idice, cibo per vermi.

 

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