Un amico mi invia un articolo di Francesco Lamendola su Krishnamurti, e chiede il mio parere.
Premetto che, parlando di K., trovo fuorviante metterlo insieme a Castaneda, Steiner, Gurdjeff, Osho, Blavatsky, a Buddha o al Vedanta etc. come fossero tutti un’unica banda – la cosiddetta ‘new age‘. Quindi quello che dico qui si riferisce solo a K.
Da giovane ho frequentato per alcuni anni un circolo di fedeli krishnamurtiani. Non ho mai amato K. e i miei interventi in quegli incontri erano quasi sempre polemici e forse inopportuni.
Spesso trovavo i discorsi del ‘Maestro’ noiosi, anche quando i suoi ammirati interlocutori erano grandi fisici, illustri psichiatri etc.
Sarebbe però troppo lungo spiegare perché l’eloquenza di K. mi apparisse un po’ vacua e perché il suo messaggio mi lasciasse perplesso.
In sintesi, quel rifiuto di ogni sistema di pensiero, dei vari ‘ismi’, cui opponeva l’esperienza pura, la comprensione silenziosa etc., mi sembrava creare negli ascoltatori un ‘ismo’ ancora più forte, finendo con l’allontanarli invece che avvicinarli al ‘ciò che è’.
Non voglio quindi fare l’avvocato difensore di K. ma solo indicare alcuni punti dell’articolo in questione che non mi convincono.
Ad esempio, dire che K. “negava recisamente che la verità si possa apprendere e tuttavia non faceva altro che predicare la sua idea di verità” mi sembra sia usare uno stile suggestivo e retorico, cioè fare quello che si contesta a K.
Se mi chiedi chi c’è in casa e io rispondo “nessuno”, non intendo, come Polifemo, che ‘Nessuno’ sia il nome di qualcuno. “Non c’è verità” è un’affermazione che pare antinomica, come ‘io mento’. Ma nel caso di K., la ‘verità’ cui si riferiva era quella che nasce dal pensiero e dalla speculazione intellettuale.
Lamendola si lamenta della vaghezza di K., secondo cui la realtà è indefinibile. “Peccato che la vera filosofia debba fare proprio questo: definire le cose, partendo dalla definizione delle parole”.
Personalmente non condivido questo modo tranchant di decidere cosa la “vera filosofia” deve essere e deve fare. Per altro, non mi pare giusto escludere dalla “vera filosofia” la tradizione apofatica e tutti coloro che hanno dato contributi di saggezza all’umanità senza preoccuparsi di definire le cose e le parole.
Trovo riduttivo confinare la filosofia nel “ragionamento logico” escludendone l’evocazione e l’allusione. È anche abbastanza ovvio dire che quella di K. “non è filosofia”. Quello che lui voleva evitare era infatti un sistema filosofico. Il suo insegnamento si propone semmai di indurre un ‘risveglio interiore’. È una sorta di ‘predicazione’ che può contenere elementi ‘sapienziali’ e ‘filosofici’ ma non è certo ‘filosofia’ in senso accademico.
L’autore vede “uno strano sodalizio fra Aldous Huxley, il precursore dei vari Klaus Schwab e dei nostri ministri della transizione ecologica e transumana, e Krishnamurti”. Ne deduce che il Nuovo Ordine Mondiale è un’emanazione del pensiero di K. Infatti titola il suo pezzo “Krishnamurti: un perfetto ‘maestro’ per il N.W.O.” Nelle parole di K. è dunque latente il Great Reset o il progetto di distruggere l’umano?
Francamente, ne dubito. Sulla base di simili deduzioni, dovremmo assegnare a Marx la paternità dei gulag, a Cristo quella dell’Inquisizione etc. Che K. e Huxley abbiano dei punti di contatto è certo, ma non direi che il pensiero di Schwab e soci abbia qualche affinità con gli insegnamenti di K. Anzi, mi paiono visioni della vita incompatibili.
A K. viene anche rimproverato di non distinguere tra realtà e verità, forse di non sapere che “la realtà è un dato oggettivo del quale siamo parte, la verità è il giudizio che noi diamo sulla realtà, quando è conforme ad essa”.
Anche qui, ciò che mi lascia perplesso è il carattere apodittico, un po’ ex cathedra, dell’affermazione. A me pare che realtà e verità possano essere distinte solo in base alla definizione che ne diamo.
Lamendola le distingue, ma in questo esprime un suo presupposto filosofico, condivisibile o meno, non un principio evidente di per sé. La relazione tra realtà e verità è un problema cui credo si possano dare altre soluzioni, o lasciare irrisolto.
Più avanti leggo: “il vuoto è vuoto e basta, dunque assoluta passività e assenza di movimento; ma la creazione è movimento per definizione: pertanto il concetto di vuoto creativo è un ossimoro, una contraddizione in termini”.
Ma, di nuovo, questa perentorietà del giudizio ha senso solo se accettiamo determinate premesse filosofiche. Inoltre, mi pare che queste affermazioni si basino su un’idea piuttosto vaga della Vacuità, del Nirvana, e del loro significato nella filosofia orientale.
Naturalmente ognuno è libero di ignorare forme di pensiero diverse dalle sue, di attribuire loro scarsa dignità intellettuale etc. Di preferire la clarté, le dimostrazioni scolastiche, i sillogismi rigorosi, agli ossimori dei mistici e alle “nubi di non conoscenza”. Ma questo fa parte di una inclinazione personale – o di una professione di fede – che a mio parere non va scambiata per ‘verità oggettiva’.
Lamendola rifiuta di ammettere la soggettività della coscienza come criterio di valutazione del reale, perché “se così stanno le cose, la sola verità che noi possiamo conoscere è la nostra verità interiore, e nulla invece possiamo conoscere del mondo e degli altri enti”.
Una tale prospettiva è però estranea a K., il quale chiede semmai il contrario, cioè di vedere le cose senza ‘osservatore’. A parte ciò, concepire una verità ‘oggettiva’ differente da una ‘verità interiore’ ed escludere quest’ultima dalla conoscenza “del mondo e degli altri enti” mi pare poggiare ancora su una certa visione filosofica come l’unica legittima, senza spiegare su cosa poggi questa pretesa.
In realtà, l’autore ammette che le idee di K. possano apparire inconsistenti a “una mente allenata a pensare in maniera logica e consequenziale, come capita agli eredi della filosofia di Aristotele e san Tommaso”. E aggiunge: “può darsi che ad altre menti, cresciute e allenate sotto altri orizzonti filosofici, la cosa appaia invece chiarissima”.
Ma mi par di capire che gli “altri orizzonti” vadano lasciati a gente “dal palato grosso”,a chi è incapace di elevarsi alle vette dell’aristotelismo e dell’unica vera dottrina. La finezza di gusto apparterrebbe dunque solo ai palati filosofici che si nutrono abitualmente di argomenti peripatetici e di summe teologiche.
Lamendola rifiuta anche le idee di K. su tempo ed eternità. “Noi, esseri umani dotati di un’anima, ma anche di un corpo, siamo presi appunto nella rete del tempo: fa parte della nostra condizione terrena. E allora, come possiamo capire che l’Eterno è qui e ora? Se l’Eterno è fuori del tempo, come possiamo averne nozione? Noi non siamo, fino a prova contraria, fuori del tempo; siamo nel tempo: se fossimo fuori, saremmo Dio, perché solo Dio è fuori del tempo e creatore del mondo nella dimensione del tempo”.
Questa sembra però una lezione di catechismo più che un ragionamento. E se la “vera filosofia” deve definire le parole, non bisognerebbe supporre che il senso di queste parole – anima, corpo, tempo, eterno, Dio, creazione, mondo – non abbia bisogno di definizione e sia condiviso pacificamente da tutti.
Tuttavia, la critica di Lamendola mi sembra alludere implicitamente ad altro. Ossia al fatto che certe dottrine, incompatibili con l’insegnamento della Chiesa, hanno prodotto una grave crisi morale e intellettuale nella società contemporanea, con derive ereticali e una perdita dei suoi valori fondanti.
Che questa sia un’epoca di crisi, di rivolgimenti, è difficile negarlo. Tuttavia, non farei per questo un processo sommario a K. o ad altri personaggi della new age, i quali in fondo, più che la causa, sono uno dei tanti effetti di tale crisi. E mi sembra inutile, o futile, dar loro un brutto voto per scarsa aderenza alla “vera filosofia”.
Lamendola si rammarica del fatto che tanti intellettuali o scienziati “del discorso di san Tommaso d’Aquino sull’autonomia e la concordanza di ragione e fede non vogliono sentir parlare”, mentre sono ingolositi da teosofi e antroposofi, gnostici e cabalisti.
Bisognerebbe piuttosto capire perché tante persone colte e intelligenti voltino le spalle alla religione ufficiale e cerchino altrove. Non certo per i discorsi di K. ma perché, io credo, negli ultimi secoli la nostra società si è imbevuta di razionalismo, illuminismo, criticismo, scientismo, positivismo, relativismo, materialismo, agnosticismo etc.
Di questo credo si possa dare la colpa a tanti ‘veri filosofi’ e anche a una Chiesa che, fatte le debite eccezioni, da molto, molto tempo, sembra anteporre la politica, il potere e l’arida speculazione al Vangelo e alla viva ricerca di Dio. La responsabilità di K. in tutto ciò mi pare veramente poca cosa.
Credo che, tutto sommato, abbia fatto molto più danno l’aristotelismo. E a volte penso che se San Tommaso, poco prima di morire, non si fosse limitato a paragonare la sua opera a paglia, ma come paglia l’avesse bruciata, quel fuoco sarebbe stato più benefico di tanti roghi di eretici.
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