“Le donne non ci vogliono più bene” fu una canzone molto amata dai giovani fascisti, scritta nel 1944 da Mario Castellacci, conosciuto e apprezzato giornalista, paroliere commediografo del dopoguerra, quando era soltanto un diciannovenne allievo ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana. Era composta di due parti con un primo coro a voce maschile e una seconda, con coro a voce femminile, in cui rispondevano le ragazze del Corpo Ausiliarie della RSI.
Ed è proprio a quei giovani, maschi e femmine, che voglio dedicare l’appuntamento di oggi.
La Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) fu una forza armata della RSI con compiti di polizia interna e militare che giunse a contare nel giro di poche settimane dalla sua istituzione decine di Legioni per un totale di circa 130.000 Camicie Nere.
L’ 8 settembre il tenente colonnello Merico Zuccari, al comando del LXIII Battaglione “Tagliamento”, fu tra coloro che decisero di non deporre le armi e continuare a combattere a fianco dei tedeschi, pochi giorni dopo, insieme ad altri battaglioni entrò a far parte della 1^ Legione “M”. Terminato l’addestramento alla contro guerriglia, fu autorizzata dalla GNR la ricostituzione della Legione “Tagliamento”, formato dal preesistente battaglione LXIII e dal Battaglione “Camilluccia”, proveniente da Roma e composto di soli volontari.
La scelta degli uomini fu accurata, i Legionari furono selezionati fra i giovani più prestanti, che avessero dato prova di coraggio, forza fisica e spirituale. Il loro distintivo era una M rossa sulla mostrina, fregio simbolico della sigla mussoliniana e sui gagliardetti campeggiava la scritta “seguitemi” a significare l’assoluta fedeltà e dedizione verso la Patria e il Duce.
Erano per lo più ragazzi, che scelsero per l’onore d’Italia di imbracciare il fucile e continuare a combattere contro il nemico, ma che a volte, anche controvoglia, furono costretti invece a usarlo contro italiani come loro che con imboscate e assalti a tradimento mettevano a repentaglio la sicurezza del territorio e l’incolumità della popolazione.
Iniziò l’invio di alcune compagnie nel nord Italia, da opporre agli attacchi degli sbandati, per cercare di debellarne le formazioni che si nascondevano in montagna e i primi scontri si ebbero già a dicembre del 1943: il 31 caddero due ufficiali e alcuni legionari. All’inizio dell’anno successivo il colonnello Zuccari andò in visita all’ospedale di Vercelli. che ricoverava alcuni feriti, e consegnò al legionario Ferretti, di diciassette anni distintosi nei combattimenti, i gradi di milite scelto per merito di guerra e la Croce di Guerra al V.M.
Furono compiute diverse operazioni, rastrellamenti, controlli del territorio, in cui persero la vita anche tre comandanti partigiani e che costrinsero le formazioni dei “banditi” a ripiegare alle pendici del Monte Rosa.
Nel pomeriggio del 6 aprile 1944 i ribelli comunisti attaccarono il presidio di Borgosesia nel vercellese: un autocarro con a bordo ventitré legionari venne fatto oggetto di un’imboscata. Teso un cavo d’acciaio i partigiani attesero che il mezzo transitando lo urtasse e finisse fuori strada. Nell’incidente morirono tutti i legionari poiché l’autocarro aveva preso fuoco. Coloro che con il contraccolpo erano stati proiettati fuori e sbalzati sulla scarpata si difesero come poterono con le armi in pugno, ma furono finiti dai partigiani. Si salvarono in tre soltanto, uno di loro, il vicebrigadiere Oscar Clavario, aveva visto trucidare il fratello e, ferito, dal letto d’ospedale scrisse al colonnello Zuccari:
“Con il cuore gonfio di dolore, ora più che mai sono deciso a donare tutto me stesso per la sublime causa che perseguiamo (…) è caduto mio fratello Claudio, ma i nostri Caduti, le cui elette anime hanno spiccato il volo verso il cielo purissimo degli Eroi, saranno sempre ed ovunque con noi…”
Nella zona operava la banda di “Gemisto”, ovvero Francesco Moranino, di cui parleremo ancora in altra occasione, che si macchiò di orribili delitti ma ciò non gli impedì, nel dopoguerra, di essere eletto deputato e di non scontare nessuna pena. I legionari non riuscirono mai a prenderlo anche se in un’occasione sfuggì per poco alla cattura dopo essere stato ferito.
Iniziò un periodo duro di violenti attacchi e rappresaglie, in cui si persero vite da ambo le parti, e che segnò per sempre il destino di tanti giovani.
Per tutto il 1944 la Legione riuscì a stroncare qualsiasi iniziativa dei gruppi partigiani e a tenere sotto controllo il territorio. Erano stati fatti 750 prigionieri nemici, uccisi 431 banditi e 401 catturati, insieme a 136 fiancheggiatori, così recitava il consuntivo di fine anno inviato dalla Legione al Comando Generale della GNR. Il ciclo di operazioni effettuate, la loro presenza ordinata e compatta, la reazione verso ogni attacco provocò la fine di alcune “brigate partigiane” che avendo avuto le basi distrutte e le formazioni disperse, si videro costrette all’autoscioglimento, così l’inverno trascorse relativamente tranquillo, i pochi combattenti comunisti si erano ritirati in Svizzera o nascosti in luoghi sicuri in attesa della primavera.
Si ripresentarono allora più numerosi e agguerriti, avendo ricevuto dagli alleati diversi rifornimenti di armi, mitra, munizioni, vettovaglie e perfino vestiario, il numero dei partigiani aumentava via via che le sorti della guerra si vedevano oramai decise. Iniziarono aspri combattimenti sul Mortirolo che continuarono fino alla fine delle ostilità e che videro italiani uccidere italiani per un’assurda logica di guerra civile scatenata dagli invasori che ci vollero divisi per sconfiggerci.
Negli ultimi giorni del mese di aprile a guerra oramai finita, la legione ricevette ordine di ritirarsi e di dirigersi verso il fondovalle. Diversi presidi riuscirono a congiungersi ai tedeschi, alcuni legionari a piccoli gruppi cercarono di far rientro in famiglia, mischiandosi agli Internati di ritorno dalla Germania, molti di loro però furono soppressi proprio una volta arrivati a casa, come i Piva e i Pigoni di Lagosanto di Ferrara, (lo racconta Giorgio Pisanò nel libro “L’ultimo saluto”) altri restarono isolati, furono fatti prigionieri dagli angloamericani e inviati nei campi di concentramento di Coltano, Afragola e Taranto, ad altri ancora toccò sorte peggiore poiché finiti nelle mani dei partigiani, subirono percosse, sevizie e molti vennero trucidati senza pietà.
Nessuno può dimenticare la strage di Rovetta del 28 aprile 1945, dove 41 giovani legionari il vicebrigadiere Mancini e il sottotenente Panzanelli, persero la vita fucilati a gruppi di cinque, davanti al muro del cimitero, dopo che avevano firmato e accettato patti di resa con il CLN locale. I giovani andarono incontro alla morte con onore cantando inni alla Patria e alla Repubblica. Tra i caduti ricordiamo due coppie di fratelli i Fontana e i Randi di cui è inutile raccontare quanto i maggiori cercassero di ottenere clemenza per i più piccoli, al disumano rifiuto dei loro aguzzini si abbracciarono affrontando insieme, sorridendo, anche l’ultimo viaggio. I cadaveri gettati in una fossa comune rimasero sepolti per anni in quel piccolo cimitero e quando i parenti cercarono di riavere i poveri resti, non essendo possibile identificarli, furono tumulati tutti insieme in un’unica tomba al Verano di Roma.
Lo stesso accadde a Lovere dove il plotone Guastatori del II Battaglione agli ordini del vice brigadiere De Lupis si era arreso il 26 aprile 1945. Dopo aver deposto le armi, i militi furono rinchiusi in un caseggiato adiacente la parrocchia, dove subirono per diversi giorni maltrattamenti e torture.
Il 30 di aprile successe un fatto che ha dell’incredibile, uno dei prigionieri, il legionario Giorgio Femminini, intenzionato a sposarsi con Laura Cordasco, sorella di un commilitone, ottenne il permesso di recarsi in chiesa, con il brigadiere De Lupis come testimone, ma la cerimonia fu interrotta dai partigiani, i militi furono prelevati dai gradini dell’altare e guidati fuori per essere uccisi. Durante il tragitto, mentre attraversava il paese, precedendo i suoi uomini, il comandante De Lupis, cantava camminando a testa alta, e quando vide il plotone di esecuzione coi fucili spianati, si tenne accanto il più giovane, un ragazzo di appena sedici anni. Alla prima raffica, colpito non mortalmente cadde, ma ebbe ancora la forza di guardare in faccia i suoi aguzzini e gridare “Stupidi non sapete nemmeno sparare!”
“Le donne non vi vogliono più bene
perché portate la camicia nera…
A voi fascisti, a voi, non si conviene,
chi rinnegò la patria e la bandiera… ”
Ora passiamo a raccontare dell’ “altra metà del cielo”, delle donne che fecero parte dei Servizi Ausiliari, di quello che, se anche non fu riconosciuto come un vero e proprio reparto militare resta senza dubbio il primo esempio per l’Italia di militarizzazione femminile, un fenomeno rimasto nella storia.
Visitando villa Carpena in provincia di Forlì, la casa che fu di Mussolini e che dagli attuali proprietari è stata adibita a museo, si può avere il piacere di incontrare Fiorenza Ferrini, una donna che oggi, e finché ce la farà, presta la sua opera in onore del Duce.
“Noi siamo ancora in servizio, nessuno ci ha mai congedate. Ancora oggi, ciascuna di noi ha un ruolo: io sono a Villa Mussolini, una collega è alla Piccola Caprera, un’altra scrive. Ci siamo inventate da sole il modo di continuare a svolgere il nostro compito, che oggi consiste, in forme e modi diversi, nella divulgazione di quello che è davvero successo in vent’anni di Fascismo e nella Repubblica Sociale”.
Queste le sue parole pronunciate durante un’intervista per il Giornale d’Italia qualche tempo fa.
Io l’ho incontrata e ci ho scambiato due chiacchiere il 25 aprile dello scorso anno, lucida, sempre pronta alla battuta, offre la sua collaborazione nella biglietteria all’ingresso del parco della villa. Prepara fotocopie, mette ordine fra le carte, non si ferma un attimo. Agile come una ragazzina, attribuisce la sua forma all’esercizio fisico che ha praticato fin da giovanissima, ma sa anche stare al passo coi tempi, ha un suo profilo Facebook e dopo che ci siamo conosciute mi ha onorato della sua “amicizia”. Le piace distribuire ai giovani, che fanno visita a villa Mussolini, un elenco dettagliato delle opere compiute durante il Fascismo, affinchè vengano a conoscenza di quanto è taciuto sui libri scolastici e possano riempire le lacune che volutamente sono state create nella storia d’Italia.
Partì volontaria, ancora minorenne e non ha mai rinnegato la sua scelta.
È sempre serena e sorridente, non ha rimorsi e non sa pronunciare parole di odio verso nessuno, unico rimpianto in questa sua frase
“il mondo in cui credevo è crollato. Non esiste più niente”.
Durante il ventennio, il Fascismo aveva operato una vera rivoluzione nel mondo femminile, fra l’altro la donna fu spinta a dedicarsi allo sport e, nel 1929, fu inaugurata l’Accademia di Educazione Fisica Femminile a Orvieto. Sia in quella sede che in altri Collegi, retti dal PNF, le ragazze più meritevoli, venivano fatte studiare gratuitamente, a spese non dello Stato, ma del Partito stesso.
Le donne di Mussolini, amavano il Duce come un padre, dotate di profondi ideali e capaci di grandi slanci, accorsero in massa dopo l’8 settembre per aderire alla Repubblica Sociale e gli furono fedeli fino in fondo. Si presentavano spontaneamente alle caserme e chiedevano di essere arruolate, tale entusiasmo spinse Alessandro Pavolini, Segretario del PFR, a favorire la realizzazione di un Servizio Ausiliario Femminile e affinchè venisse attuato nel più breve tempo possibile, dette incarico a una donna di grandi capacità, Piera Gatteschi Fodelli già Ispettrice Nazionale dei Fasci Femminili. Lei, unica donna con grado equiparato a generale di brigata, riuscì a dar vita in breve tempo a un corpo femminile che lo stesso Pavolini definì “una delle istituzioni più serie ed utili fra tutte quelle che abbiamo”.
Le volontarie erano divise in tre raggruppamenti: il Servizio Ausiliario Femminile per l’esercito, le Brigate Nere e la Decima Mas. Quest’ultima ebbe il SAF autonomo dagli altri due. Il comandante Valerio Borghese designò alla sua guida Fede Arnaud Pocek (veneziana, classe 1921) che, in precedenza al luglio 1943, si era distinta nel dirigere il settore sportivo del Gruppo Universitario Fascista.
Le donne accorsero da ogni parte dell’Italia, provenienti da ogni ceto sociale e erano in tante quelle non ancora maggiorenni, molte le spose, e parecchie anche le madri. L’adesione delle volontarie non fu un fenomeno isolato e di scarso rilievo, ma ebbe una vasta eco e importanza, il 28 Ottobre del 1944, in una relazione che il generale Piera Gatteschi inviò a Mussolini, sottolineava come: le ausiliarie del SAF in servizio nei vari settori fossero 1.237, provenienti da sei corsi nazionali(…), e 5.500 le volontarie in addestramento nei ventidue Corsi Provinciali.
Nei documenti dell’Archivio dello Stato risulta che, nei mesi successivi, si arrivarono a contare quasi 10.000 ausiliarie in servizio, tutte in un’età compresa tra i 16 e i 24 anni.
Le ausiliarie prestarono la loro attività negli ospedali, negli uffici, nelle caserme, nei posti di ristoro e come marconiste. Seguendo le truppe al fronte, alcune morirono, moltissime altre finita la guerra subirono sevizie materiali e morali da parte di soldati e partigiani. Lascia senza parole l’enorme prezzo che queste donne, pronte a tutto, pagarono a causa della loro coraggiosa scelta e per la fedeltà agli ideali e all’Italia che amavano.
Nei mesi trascorsi nelle caserme, durante l’addestramento, erano state trattate con severità: nessuna libertà, divieto assoluto di fumare in pubblico, di mettere il rossetto o indossare pantaloni e i capelli dovevano essere raccolti sotto il basco, avevano imparato la disciplina, la pazienza e la fermezza. Sempre strettamente controllate, era loro severamente proibito concedersi storie d’amore e anche scambiare semplici sguardi innocenti con giovani militi poteva costare l’allontanamento dal Corso. Le regole, che furono le stesse anche durante il servizio, erano state fortemente volute dalla loro comandante generale, per “salvarle da tutti e da tutto”, lo dichiarò lei stessa, nel 1984 quando a 82 anni, lasciò il suo memoriale a Luciano Garibaldi, che ne trasse il libro “Le soldatesse di Mussolini”
“A volere questa ferrea disciplina ero stata io. E lo sa perchè? Perchè avevamo troppi avversari. Dentro e fuori. Dentro quelli che dicevano che il posto delle donne era in cucina o al massimo a curare i feriti. E fuori quelli per i quali eravamo delle luride, sporche fasciste, le donne dei fascisti, le amanti dei fascisti, le puttane dei fascisti. Ecco perchè avevo voluto una rigida disciplina militare di stampo addirittura prussiano, le avrei salvate, pensavo. E invece non è servito a niente. Furono ugualmente insultate, vilipese, violentate, assassinate”.
Molte di loro affrontarono un destino crudele, ma lo fecero con coraggio, sopportando ogni abuso con fermezza e gli aguzzini con la loro enorme vigliaccheria e la loro gretta mentalità non riuscirono mai a capire, nemmeno lontanamente, di quale ardore fossero animate tanto da morire, se necessario con fierezza e dignità.
Ecco alcuni esempi, storie forse meno conosciute di altre, ma non meno importanti:
– Margherita Audisio, vent’anni. Il fratello Antonio si era arruolato nel battaglione Lupo della Decima Mas, ma ammalatosi gravemente durante l’addestramento fu rimandato a casa, allora era partita lei. Catturata, alla fine della guerra, fu condannata a morte e fucilata a Nichelino il 26 aprile del 1945. Innamorata dell’Italia, aveva scelto volontariamente di servire il Duce a Salò come altri membri della sua famiglia, ben cinque erano partiti volontari esattamente come lei, comprese la madre e la sorella. È a quest’ultima che scrisse una lettera poco prima di essere uccisa:
“Tra pochi minuti sarò fucilata. Devo darti una consolazione: fucilazione al petto e non alla schiena. Tu sai che sono sempre stata una pura nella mia fede: in essa ho sempre creduto, credo ancora e sono contenta di morire. Viva l’Italia!”
– Marilena Grill diciassette anni ancora da compiere, era di Torino. Da ausiliaria lavorava all’Ufficio ricerche dispersi e al posto di ristoro per i soldati a Porta Nuova. Era una bella ragazza, ma soprattutto aveva un grande cuore. La ricordava così la comandante delle ausiliarie di Torino Anna Maria Bardia, che un giorno la ricevette in udienza. Le chiedeva il permesso di sfamare anche i giovani non in divisa che si presentavano ai posti di ristoro, non avevano documenti, erano malmessi, dicevano di avere i parenti lontano, lei si inteneriva e non si sentiva di negare loro un po’ di aiuto, fu talmente accorata la sua richiesta che non le fu negato il permesso. Il 28 aprile i partigiani andarono a prenderla a casa della madre, in corso Oporto, 25, dove era tornata. Figlia unica, orfana di padre, educata ai buoni sentimenti era ancora una bambina piena di sogni e di illusioni, ma ferma nei suoi ideali e prima di uscire di casa chiese di indossare la divisa. La tennero prigioniera cinque giorni alla caserma “Valdocco”, e non ci è dato sapere cosa le fu riservato prima di un colpo alla nuca sparatole freddamente la notte fra il 2 e il 3 maggio.
– Luciana Minardi, un’altra giovanissima vittima, di Imola, era al fronte, sul Senio, con il battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco”, addetta al telefono da campo e al cifrario, aveva rischiato la vita tante volte durante i mesi del conflitto. Durante la ritirata, il comandante del battaglione le aveva affidato il gagliardetto perché lo portasse in salvo. Lei ne ebbe cura fino al momento in cui fu fatta prigioniera dagli Inglesi, vistasi perduta se ne era liberata gettandolo nel Po. Dopo un breve interrogatorio fu rilasciata e aveva raggiunto dei commilitoni a Cologna Veneta. Ce l’aveva fatta, era sollevata, sperava di riuscire a tornare presto dai suoi genitori. Ma fu prelevata durante la notte dai partigiani comunisti, insieme ad altre 5 persone, fra cui donne con figli minorenni, era già il 25 di maggio, la guerra era finita, ma li portarono sulle rive del torrente Guà e li uccisero tutti gettandoli poi nell’acqua.
Sono innumerevoli le vicende che dovrei elencare ma non basterebbe un libro, per rispolverare il ricordo delle ragazze morte, il dolore che i familiari seppellirono insieme alle giovani figlie, perchè anche parlarne, cercare di rendere loro giustizia è stato per molto tempo pericoloso e in seguito, dopo la demonizzazione che avevano subito, sarebbe servito solo a farle denigrare ancor di più. Storie pazzesche che potrebbero sembrare la trama di un film dell’orrore e invece sono solo storie vere e dimenticate, infangate, negate.
Concludo con le parole rilasciate in un’intervista da Stelvio Dal Piaz,(Unione per il Socialismo Nazionale ) che amò per tutta la vita Alda Paoletti, una delle ragazze di Salò
“…Quelle come Alda sono donne irripetibili, hanno avuto il privilegio di vivere in un periodo particolare. Noi tutti, in fondo, siamo il prodotto di un’epoca, di un clima, di un contesto, di un tipo di educazione, di scuola, allevati con il senso del dovere e dell’amore per la Patria. A questo non abbiamo mai rinunciato…”
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