Se immaginiamo una definizione dell’umanità futura nel mondo senza verità, non troviamo nulla di più pregnante di un verso famoso di Virgilio nell’Eneide, il poema della nascita di Roma: rari nantes in gurgite vasto. Si riferisce ai naufraghi di una delle navi di Enea distrutte dalla tempesta scatenata da Giunone, la dea nemica. Nuotatori sparsi nel vasto gorgo: ecco ciò che stiamo diventando, simili ai superstiti in lotta tra loro della Zattera della Medusa, il dipinto di Théodore Géricault. Rari nantes impegnati nella guerra di tutti contro tutti che chiamiamo concorrenza o individualismo, un’ umanità che nega la propria natura sociale descritta da Aristotele. Da animale politico (Zòon politikòn) a viandante senza direzione. Il poeta Fernando Pessoa individuò la condizione dell‘uomo moderno nella metafora della comunità provvisoria dei passeggeri di un transatlantico: abitatori transitori di una patria incerta che si sposta nell’immensità delle acque. Una comunità di estranei sciolta dall’approdo.
Rari nantes anche per la denatalità che l’occidente esporta ovunque arrivi la sua influenza, prefigurazione di un tempo di solitari che finiranno per credere di essere al mondo senza altro scopo che scambiare beni e procurarsi effimeri piaceri. La solitudine programmatica della modernità – l’ egoismo di chi non ama altri che se stesso – recide i legami, rende diffidenti, riconosce solo preferenze e relazioni revocabili, regolate da contratti, capitolati, clausole d’interesse. Distrutta la famiglia, crolla anche la parentela: la legge del sangue è sostituita dalla decisione soggettiva. Per nobilitare il tutto, la scrittrice Michela Murgia parlava di famiglia elettiva e di “ figli dell’anima”. In Germania la legge permette di revocare i legami di sangue e di stringere relazioni giuridiche con chiunque ci aggradi. Rari nuotatori nel mare gelido della partita doppia.
Se non è più felice, l’atomo solitario smette di nuotare. Arriva a preferire la morte, somministrata da boia soccorrevoli, sorridenti, autorizzati dallo Stato. Sgomenta il caso di Zoraya ter Beek, una giovane olandese che non vuole più vivere. E’ in buona salute, ma soffre di depressione e disturbi della personalità. La sua morte “assistita” ha una data precisa, maggio 2024, il momento, dice, della sua “liberazione”. Avverrà tutto in casa: il medico la farà sedere in poltrona, chiederà un’ultima volta la conferma del desiderio di morire, quindi la siringa fatale, preceduta dalla somministrazione di un sedativo. Un comitato governativo valuterà la procedura per attestare che il medico abbia soddisfatto i “criteri di dovuta diligenza”. Ultimi rantoli di civiltà: l’adesione ai protocolli legali per sopprimere un essere umano. Non ci saranno funerali: il compagno di Zoraya spargerà le sue ceneri in “un bel posto nella foresta”.
La ragazza fa parte del crescente numero di persone in Occidente che scelgono di porre fine alla propria vita piuttosto che vivere nel dolore. Un dolore che, in molti casi, può essere curato, lenito. Quando si pensa all’ eutanasia, si immaginano malati terminali. Non è più così; la morte viene scelta da depressi, ansiosi, soggetti in preda a paure o travolti da delusioni. Josep Borrell, commissario dell’Unione Europea, ha affermato che l’Occidente è un giardino: terribile menzogna, se molti suoi giovani vivono nel disagio e non pochi preferiscono la morte. Giardino artificiale, deserto reale. La nostra società non riesce a esprimere la verità più evidente, ossia che la vita è preferibile alla morte: l’inversione assoluta. Un altro elemento sconcertante è il rifiuto della sepoltura. Il nuotatore nel mare di una civiltà finita non lascia traccia alcuna del suo passaggio. Finisce il culto – e il rispetto – per i morti nella volontà di bruciare, disperdere, annientare il corpo, dopo aver smesso di credere all’anima.
E’ un fatto nuovo, poiché ogni civiltà ha seppellito i suoi morti, tutte hanno sviluppato forme di culto per i defunti, tutte hanno stabilito relazioni con gli avi. “Non ci fu sicuramente alcuna stirpe, alcun popolo che non possedesse una qualche concezione dei propri morti.“, scrive Elias Canetti. Il nostro orgoglioso progresso ci fa essere i primi in una spaventosa regressione animale. Il potere, dinanzi a drammi o problemi, ha due soluzioni. Una è la banalizzazione della morte, dopo averla nascosta, esorcizzata, rimossa. L’altra è il risibile ottimismo: “andrà tutto bene”, come ci imposero di credere, e scrivere su improvvisati cartelli da esporre durante la pandemia. Una bugia rassicurante, tendente a evocare una soluzione per ogni male o malattia: il “soluzionismo” tecnico come menzogna di massa, comodo placebo per ogni problema, l’elisir di Dulcamara postmoderno.
Disprezziamo noi stessi – salvo il culto del corpo perfetto, della giovinezza offerta da ritrovati della medicina o dal bisturi del chirurgo – in compenso amiamo in maniera malsana gli animali. Non facciamo nulla per alleviare la solitudine o il disagio di un passante, di un vicino, di un parente, però applaudiamo il salvataggio di una pantegana. E’ capitato a Treviso, dove alcuni volontari hanno tentato invano di rianimare un topo uscito dalle fogne, a cui hanno attribuito un nome “umano”, Orazio (allusione al poeta latino del “carpe diem”, cogli l’attimo?). La menzogna antispecista è un’altra stazione della nostra Via Crucis. Uomini e animali, secondo questa ideologia, non sono diversi in termini di essenza. Nel 2023 un cittadino abruzzese ha sparato a un’orsa entrata nel suo pollaio. Da allora vive nell’incubo di una rappresaglia da parte degli animalisti. La magistratura ha aperto un fascicolo contro l’uomo, titolare di regolare porto d’armi, che ha abbattuto un grande predatore all’interno della sua proprietà. Rischia la condanna per il reato di cui all’ articolo 544bis del codice penale che prevede sino a due anni di reclusione per chi “procuri per crudeltà o senza necessità la morte di animali”. Periti esperti di balistica stabiliranno l’esatta traiettoria del colpo di fucile che ha causato la morte dell’orsa, come se si trattasse di un omicidio. Il comune in cui è avvenuto il fatto ha diramato un lirico comunicato rivolto al plantigrado (umanizzato) in cui dichiara: “la comunità ti aveva accolto e protetto, te ed i tuoi cuccioli, potendo con rispetto ammirare lo spettacolo della natura”.
L’ ente Parco della Maiella assicura che “l’’episodio è un fatto gravissimo, che arreca un danno enorme alla popolazione che conta una sessantina di esemplari, colpendo una delle femmine più prolifiche della storia del Parco. Ovviamente non esistono motivazioni di nessuna ragione per giustificare l’episodio visto che Amarena (l’orsa uccisa N.d.A.) pur arrecando danni ad attività agricole e zootecniche, sempre e comunque indennizzati (…) non aveva mai creato alcun tipo di problema all’uomo”. Il Parco ha “interesse” a preservare una numerosa popolazione di grandi predatori, ma non considera “problemi per l’uomo” i danni alle attività agricole e zootecniche. Il presidente della regione Abruzzo ha definito delinquente lo sparatore, dicendosi pronto a costituirsi parte civile “per tutelare l’immagine e l’onorabilità della nostra gente”. Mesi prima, un giovane trentino era stato ucciso da un altro orso nei boschi presso casa: dure polemiche per la decisione di abbattere l’animale! Quale vita conta di più, quella di una ragazza lasciata morire – soppressa a termini di legge – perché depressa, quella di un ragazzo ucciso da un plantigrado a due passi da casa, o quella degli animali? La risposta è nella coscienza di ciascuno: noi continuiamo a negare l’ equivalenza uomo animale.
Tuttavia, l’innocenza, l’adesione alla natura degli animali li rende ai nostri occhi migliori degli umani del nostro tempo. I nuotatori nel mare procelloso annaspano e somigliano in maniera sorprendente agli ultimi uomini evocati da Zarathustra: “Ahimè, verrà il tempo dell’uomo più spregevole, che non potrà più disprezzare se stesso! Vedete, io vi mostro l’ultimo uomo! Che cos’è l’amore? Che cos’è la creazione? Che cos’è il desiderio? Che cos’è la stella? — così domanda l’ultimo uomo e ammicca. La terra sarà allora diventata piccola, e su essa saltellerà l’ultimo uomo, che farà tutto piccolo. La sua razza è inestirpabile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo è quello che ha la vita più lunga. Abbiamo inventato la felicità – dicono gli ultimi uomini e ammiccano.”
A oltre un secolo dalle potenti visioni del pazzo geniale di Sils-Maria, dietro gli ultimi uomini – nuotatori del caos – non vi sono che naufraghi. Sono all’opera potenti forze impersonali – officine del Nulla- a cui è stata impressa una forte accelerazione negli ultimi anni. Torna il linguaggio della guerra; non c’ erano più abituate, le anime belle; come la metteranno con la scelta soggettiva unica legge? Torna, sinistra, la disponibilità della vita in mano al potere: carne da cannone nei conflitti, pedine da sacrificare nel gioco della vita, meglio se non nati, meglio ancora se si sceglie di sparire senza lamentarsi, chiedendo- con procedure stabilite per legge- l’intervento pubblico per morire. Suicidio assistito, individuale, collettivo e di civiltà: i naufraghi sono inghiottiti dai flutti. Neppure si accorgono, i rari nantes, della liquidazione di ogni cultura, dal cristianesimo alla mentalità “laica” sino al marxismo, i cui cascami occidentali (francofortesi, strutturalisti e “decostruttori”) si sono disfatti della sua dimensione comunitaria, l’unica che avesse senso. La grande sostituzione non è solo etnica: incede una non-cultura nichilista, carica di anarchia morale e intellettuale. Politeismo dei disvalori, per parafrasare Wax Weber.
Non-cultura disfunzionale, giacché non fornisce all’uomo alcuna accettabile spiegazione o approssimazione della verità; resta il fallimento mascherato da autodivinizzazione narcisistica. Decido io, afferma l’Ultimo Uomo che cosa è bene e che cosa è male, vero o falso. Il filosofo francese Henri Hude parla di un “uomo di vetro”. Il giorno in cui l’uomo di vetro scopre di non essere un dio – una malattia, una sconfitta, un abbandono – diventa pazzo. Una pazzia distruttiva e autodistruttiva, poiché questo è il nichilismo. Lo Stato nasce per proteggere l’uomo, ma la legalizzazione dell’eutanasia e l’assunzione dell’aborto a diritto universale ribalta tutto. Eppure, ripetiamo, vivere è meglio di morire, e una vita dotata di senso è migliore della nuda esistenza. Se darsi la morte è un diritto per il naufrago che non riconosce la riva, la conseguenza è l’angoscia di “vivere per la morte “ (M. Heidegger), specialmente quando diventa norma, poiché l’essere umano pensa che ciò che è legale deve essere “buono”.
Jean Jacques Rousseau, il primo dei cattivi maestri, scrisse che si doveva considerare la pena di morte come atto estremo di libertà. Nel caso dell’accettazione pacifica dell’aborto – accantonata ogni possibilità trascendente – manteniamo la coscienza netta perché neghiamo che il nascituro sia una persona, dunque un soggetto di diritti. Uguale pensiero per l’eutanasia: sono o sarò malato, povero, indifeso: meglio andar via in silenzio, liberandomi del peso della vita. Il passaggio è compiuto: come potremo ribellarci al dispotismo che avanza, se abbiamo oltrepassato, negato, deriso, ogni limite, anche quello estremo tra vita e morte? Rari nantes, allora, diventano i ribelli che ancora credono nella vita, che non vogliono diventare i pedoni degli scacchi, le risorse umane delle imprese, i sacrificabili dal potere. Furono loro, i superstiti, con Enea che stringeva la manina del figlio Ascanio e portava sulle spalle il vecchio padre Anchise (passato, presente e futuro) a resistere al naufragio ordito dalla divinità avversa e a fondare Roma.