Natura dell’io
L’abitudine ha, o implica, una natura doppiamente interessante. Questa, è tanto ignota, o misconosciuta, quanto rivoluzionaria. Mi riferisco alla concezione comune dell’abitudine che le persone adottano nel concepire e definirese stesse e la realtà; per avere a che fare con il previsto a discapito dell’orrifico ignoto: «Sul modello tecnico che ricalca l’esigenza del “tutto calcolabile”, le cose tendono sempre più a perdere la loro specifica valenza per consegnarsi alla mesta equivalenza della regola, che in modo univoco e prestabilito codifica il significato di tutto» (Enrico Grassani, L’altra faccia della tecnica. Lineamenti di una deriva sociale prodotta e subita dall’uomo). Quella comune concezione è un’adozione di tipo dogmatico: l’abitudine, il suo significato, non è mai in discussione, se non per aggiornarla o sostituirla con un’altra formalmente diversa ma, sostanzialmente identica in quanto a potere su di noi. È proprio questo aspetto – il potere esercitato su di noi di un’abitudine o di una consuetudine– che è segreto a molti. La cosa è culturalmente, e ancor più evolutivamente, interessante. Lo è in quanto entro le abitudini esistiamo ed esiste la realtà. Fatto salvo uno spettro limitato già previsto, l’abitudine stessa, noi e realtà ci appaiono definitive e irrevocabili. Che lo spettacolo della realtà ci sia offerto dal presunto fuori di noi o si proietti direttamente al nostro interno non sposta il peso della questione. «La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale» (Guy Debord, La società dello spettacolo). La psicopatologia è una forma di esaurimento del mondo entro la propria idea. In essa, le ossessioni, forme-pensiero o egregore sono vera realtà oggettiva, tangibile, vera a tutti gli effetti.
Ma dire cultura non basta più. È necessario impiegare il concetto di mente e del suo potere. Un’entità metafisico-reticolare che agisce sui suoi stessi generatori, senza però corrispondere alla loro somma. È l’intento che questi esprimono attraverso i sentimenti e i pensieri che genera la mente. Un ciclone dal quale non è possibile esonerarsi dal donare le proprie forze, se non a mezzo di un percorso evolutivo di emancipazione. Le aberrazioni compiute da individui su individui, perché sembrava normale, come è avvenuto e avviene, esprimono il potere della mente: «Era facile essere presi dal proprio ego, ma se si riusciva ad ottenere almeno qualche grado di libertà da esso, si cominciava ad ascoltare e il linguaggio cominciava a cambiare; e allora, ma solo allora, si potevano dire cose nuove» (Humberto Maturana e Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione). Prendere consapevolezza del potere coercitivo che le abitudini esercitano nei confronti della nostra evoluzione verso un’intelligenza non egoica riguarda il secondo aspetto interessante. Riguarda la sua potenzialità rivoluzionaria. Il cambiamento però, non si realizza nel momento della presa di coscienza di come l’abitudine escluda l’accesso all’infinito. Essa, infatti, implica un campo esistenziale limitato a se stessa. Piuttosto, il passaggio evolutivo si compie con un ulteriore movimento. Ovvero, attraverso l’evidenza che ciò che chiamiamo io – entità alla quale crediamo di corrispondere– non è che un’incastellatura di consuetudini e, nuovamente, di abitudini con le quali tessiamo una rete di valori, di morali e di significati, a loro volta indispensabili per guidare noi stessi nella vita: «Ma critica è anche, ha scritto Foucault …. conoscenza del limite e ricercadi un suo superamento, tentativo di cogliere “nella contingenza checi ha fatto essere ciò che siamo, la possibilità di non essere più, di non farepiù o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo” La critica della vittima non può essere fatta dall’esterno» (Daniele Giglioli, Critica della vittima). Armati di quell’intelaiatura che corrisponde all’io – per i più forti, razionalisticamente ben controventata – ci battiamo con senso del dovere nel campo della vita per discernere il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato. Fino a uccidere e a farci uccidere. Con la stessa modalità è autopoieuticamente che si genera da sé] organizzato il sistema. Sarà lui, con i suoi livelli superiori, a confortarci se perdiamo (terapia) e a esaltarci se vinciamo (premio). Tuttavia sul ristretto campo di gioco o di battaglia dell’ego restano sempre e solo cadaveri di due tipi: vittime e sopravvissuti. Nella schizofrenia egoica, il loro ruolo si alterna. A chi tocca di restare, tocca anche il peso del senso di colpa o la mortificazione di una vita. Compiere azioni all’esterno, svincolate dalle modalità sistemiche, non è concesso e comporta ammonimento e punizioni da parte della mente e frustrazione da parte nostra. Il super-io ci controlla anzi, controlla l’io.
Dominati dall’importanza personale creiamo la legge dell’azione/reazione. Sentendosi personalmente toccati in ciò che crediamo di essere, non abbiamo altra via che reagire. Lo faremo in modo del tutto prevedibile da parte di un osservatore consapevole della matrice egoica del nostro comportamento. È su questo tipo di consapevolezza che si arriva a disporre della chiaroveggenza: «Un sistema vivente è autopoieutico in quanto si autoproduce: esso non può essere caratterizzato in termini di input e output, nessuna delle sue trasformazioni può essere spiegata come una funzione degli stimoli del suo ambiente; esso si modifica in base alla sua organizzazione, allo scopo di conservare costante la sua organizzazione stessa […]» (Humberto Maturana e Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione). Se da un lato non è opportuno biasimare chi, inconsapevolmente, vede coincidenza tra consuetudini/abitudini e giusto, dall’altro non si può non vedere dove ci condurrà l’esplorazione in noi stessi, una volta nella consapevolezza della struttura dell’io.Le parole per narrarla corrispondono a quanto accadeper un ritmo, una danza. Ad ogni istante conosciamo già con quale realtà avremo a che fare l’istante dopo. Una realtà o un ritmo dal gusto secondo la sola ricetta che abbiamo conosciuto. L’imprinting ci dà alcuni codici che crediamo i soli esistenti ma, come tutti i bimbi non sospettosi che prima di loro si andasse al pozzo a prendere l’acqua, così noi ci comportiamo partendo dai rubinetti dell’io: «Ora striduli ora soporiferi, i media penetrano a forza nella comune, nel villaggio, nell’azienda, nella scuola. I suoni prodotti dagli autori e dagli annunciatori di testi programmati stravolgono di giorno in giorno leparole della lingua viva facendone tanti blocchi di frasario per messaggi prefabbricati. Oggi solo chi è tagliato fuori dal mondo oppure l’anticonformista ricco e ben protetto può far giocare i propri bambini in un ambiente dov’essi sentano parlare persone anziché divi, annunciatori o istruttori. In ogni parte del mondo si vede dilagare questa disciplinata acquiescenza che caratterizza lo spettatore, il paziente e il cliente. Aumenta rapidamente la standardizzazione del comportamento umano» (Ivan Illich, Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto d’impiego). Una delle successive liberazioni si verifica nel riconoscere come quell’infrastruttura, che avevamo creduto essere noi stessi, abbia una vita sua propria. Si alimenta di tutto ciò in cui crediamo, dunque dell’energia che mettiamo in campo, necessaria per perpetuare la vita secondo le nostre convinzioni. È una specie di scimmia sulla schiena che ci incita a ripetere il noto, fino alla morte. Il passo liberatorio si compie quandoci accorgiamo di vedere, interpretare e sapere attraverso filtri infrastrutturali, della rete di abitudini e consuetudini, tutti necessari alla rete stessa, alla sua sopravvivenza, al suo dominio. Vediamo allora negli altri come l’io divenga vampiro. Lo vedremo poi anche in noi stessi attraverso una specie di salto di livello. Un punto dal quale sarà evidente che gli altri sono dei noi in altra forma, tempo e spazio: «La consapevolezza, o la coscienza, è infatti l’unico elemento che la maggior parte degli psicoterapeuti al giorno d’oggi riconosce come motore essenziale della trasformazione. Avere consapevolezza dei nostri processi significa portarli sotto il nostro controllo, renderli nostri» (Claudio Naranjo, Viaggio di guarigione. Il potenziale curativo della terapia psichedelica).
Natura del sé
Differenza tra io e sé: Essere la struttura dell’io, identificarsi pienamentein essa o semplicemente impiegarla alla stregua di uno strumento, restarne indipendenti: «C’è una quantità di persone che non sono ancora nate. Sembra chesiano qui e che camminino ma, di fatto, non sono ancora nate perché si trovano al di là di un muro di vetro, sono ancora nell’utero. Sono nel mondo soltanto provvisoriamente e presto ritorneranno al pleroma da cui hanno avuto inizio. Non hanno ancora creato un collegamento con questo mondo; sono sospesi per aria, sono nevrotici che vivono una vita provvisoria.[…] Bene, nascere è importantissimo; si deve venire in questo mondo, altrimenti non si può realizzare il Sé, e fallisce lo scopo di questo mondo. Se questo succede, semplicemente si deve essere ributtati nel crogiuolo e nascere di nuovo. […]Vedete, è di un’importanza assoluta essere in questo mondo, realizzare davvero la propria entelechia, il germe di vita che si é, altrimenti non sipuò mai mettere in moto Kudalinī e non ci si può mai distaccare. […] Se invece si entra in contatto con la realtà in cui si vive, vi si rimane per diversi decenni e si lascia la propria impronta, allora può avviarsi il processo impersonale. Vedete, il germoglio deve sbocciare dalla terra, e se lascintilla personale non è mai entrata nella terra, da lì non uscirà nulla, non ci saranno né Linga né Kudalinī perché si è ancora nell’infinità che c’era prima» (Carl Gustav Jung, La psicologia del Kundalini-Yoga). Riconoscere, comprendere l’io, averci a che fare, mettercisi di fronte e arrivare a parlarci come fosse una gabbia di tortura medievale dalla quale ci siamo liberati non basta aver capito la descrizione che chiunque può farne. L’esperienza non è trasmissibile. Non solo. Adagiarsi sul capire è essere fermi, è fermare. Impedisce di essere nel divenire. Due espressioni, una di stasi e una di movimento che simbolicamente rappresentano l’io e il sé. Per disincarnarsi dall’io e incarnare il sé c’è di mezzo una morte simbolica e il tempo necessario, necessariamente personalizzato. È il tempo per sciogliere le cosiddette certezze, i cosiddetti traumi psicologici (una forma di certezza). Vere e proprie correnti energetiche deviate, annodate, spezzate dall’io. È, in termini cristiani, il tempo del perdono. Gli accadimenti della vita, che avevamo inconsapevolmente personalizzato, da fatti contro di noi, da traumi e ragioni di rancore e desiderio di vendetta, divengono fatti accaduti e basta. Il fatto che avessero colpito noi non solo non è più sostenibile, ma perfino falso. Da vittime che ci ritenevamo di essere, diventiamo aguzzini di noi stessi. L’assunzione di responsabilità è parte costituente dell’incarnazione del proprio sé. Uno stato che vale anche da scudo nei confronti dei successivi attacchi, usando un termine caro all’io. Ma l’incastellatura dell’ego dove appoggia? La sua struttura si erge intorno al sé, la vera sede di noi stessi, e la nasconde proprio a noi: «Poiché l’ego è solo il centro del campo della mia coscienza, non è identico alla totalità della mia psiche, ma è solo un complesso tra gli altri complessi. Pertanto distinguo tra l’ego e il Sé, in quanto l’ego è solo il soggetto della mia coscienza, mentre il sé è il soggetto della mia psiche totale, quindi anche dell’inconscio» (Carl Gustav Jung, Libro Rosso o Liber Novus).
Essere giunti al cospetto del sé, essere in relazione al sé, muoversi nella vita nel rispetto del sé invece che nelle inconsapevoliegoiche coercizioni delle abitudini e delle consuetudini tende a fare di noi uomini in equilibrio, creativi, forti, invulnerabili: «L’uomo, l’essere che era destinato ad essere magico, non lo è più. Si è ridotto ad un banale pezzo di carne. Non ci sono più i sogni degnidell’uomo, ma ci sono solo i sogni di un pezzo di carne: triti, convenzionali, stupidi» (Marco Baston, Disperdere il suggeritore. Come affrontare i voladores). Quell’uomo tende a permettere ulteriori stati evolutivi. La relazione con il proprio sé tende ad essere mantenuta in numero crescente di emozioni se l’emancipazione nei confronti dell’io si è compiuta. Viceversa, l’oscillazione tra il sé e l’io tende a grandi escursioni se l’ambiente in cui viviamo è poco favorevole. In un contesto di vita più opportuno, l’ampiezza del dentro e fuori si riduce fino all’equilibrio: «Il Sé potrebbe essere caratterizzato come una specie di compensazione per il conflitto fra l’interno e l’esterno […]. Pertanto esso è anche la meta della vita, perché è la più perfetta espressione della combinazione fatale che si chiama individuo […]. Quando si riesce a sentire il Sé come un irrazionale, come un ente indefinibile, al quale l’Io non è né contrapposto né sottoposto ma pertinente, e intorno al quale esso ruota come la terra intorno al sole, allora la meta dell’individuazione è raggiunta» (Carl Gustav Jung, Libro Rosso o Liber Novus). È però da precisare che la prima e sola responsabilità di quell’oscillare è in noi. Come per le abitudini, diveniamo consapevoli che abbracciarle o liberarcene abbia il connotato di una semplice scelta, altrettanto per mantenere una condotta a nostra misura, a misura del sé, non imputiamo più responsabilità a fattori esterni. Questi, in contesto evolutivo, costituiscono sempre e solo informazioni sui nostri punti deboli, di vulnerabilità fisica e psichica.Seguitare a vederli come responsabili del nostro comportamento e stato spegne la luce che ci gettavano in aiuto. Un lume che si attiva ad ogni nostra depressione o esaltazione, malessere o euforia: «Lo so da molto tempo. Ma non riuscivo a comprendere la ragione percui sprofondavi sempre più nel fango dopo esserne faticosamente, e tormentosamente, emerso. E poi, a poco a poco, a tentoni e osservando prudentemente, scopersi ciò che ti rende schiavo: TU STESSO SEI IL TUOAGUZZINO! Nessuno, se non tu stesso — questa fu la risposta — è colpevole della tua schiavitù. Non altri, ti dico!» (Wilhelm Reich, Ascolta piccolo uomo); «Jung è arrivato a capire che il Sé rappresenta l’obiettivo dell’individuazione [del Sé. NdR] e che il processo di identificazione [col Sé. NdR]non consente un percorso lineare [Causa-effetto/logico. NdR], ma consiste in una sorta di circomambulazione del Sé. […] Il processo di individuazione è stato quindi concepito come un modello generale di sviluppo umano e la psicologia analitica, secondo Jung, mancando di un’adeguata guida nella società contemporanea, è stata chiamata a una funzione di orientamento vicario nella transizione della gioventù alla maturità» (Carl Gustav Jung, Libro Rosso o Liber Novus,d alla prefazione di Sonu Shamadasani)
Raggiunto il sé, liberi dal cricetico ciclo desiderio-soddisfazione-desiderio – e dai suoi alienanti/frustranti degradi –forti del riconoscere i diversi mondi che ci creiamo attribuendo o assumendo la responsabilità del mondo stesso, diventa esplicito come questo scaturisca da noi.
Siamo i creatori della realtà. È una consapevolezza che non avviene da sola e, da sola, non si compie completamente: richiede infatti anche quella della cosiddetta accettazione. Che nulla ha a che vedere con la passività. L’accettazione comporta la cessazione di due nodali azioniegoiche. Una, è quella di investire la realtà con il nostro giudizio, per poi credere che quella caratteristica sia della natura di ciò che abbiamo osservato. L’altra, di sentirsi personalmente coinvolti (emozione e sentimento negativi) da ciò che, nuovamente a nostro giudizio, è o va, contro noi stessi. Il processo dell’accettazione comporta che, dal dovercela fare, quale fonte di autostima, si possa passare al rispetto di sé, quindi di non alterazione dell’equilibrio a causa dell’insuccesso. Così fa il calciatore che, pur sbagliando la facile occasione di segnare, non lascia spazio alle emozioni che alimenterebbero la distrazione (perturbazione) per la sua migliore prestazione successiva. Così già facciamo noi in molte occasioni, senza magari cogliere che possiamo mutuare quell’intelligenza a tutte le circostanze della vita, anche e soprattutto le più penose. Allora, nel sé, condizione che implica l’accettazione, si apre per noi una creatività senza pari. Diviene possibile riconoscere le ragioni dell’altro, se ne scorgono la dignità che contengono e la parità con le nostre: «Ci sono livelli dell’esistenza in cui possiamo non soltanto comunicare con gli altri, possiamo diventare uno parte dell’altro» (Ervin Lazslo, Wolrdshift. Società, scienza e nuova realtà). Prendendo le distanze dalla occulta arroganza delle abitudini, fatti e circostanze della vita non sono più interpretati secondo l’importanza personale o l’orgoglio, ovvero secondo ciò (l’incastellatura) che crediamo di essere. Non divengono quindi perturbazioni, seppure anche positive, esaltanti. Ci lasciano nell’equilibrio, quindi nel pieno possesso di noi stessi, della nostra creatività e bellezza. Invece di trascinarci nei gorghi neridelle emozioni – esaltanti o deprimenti non fa differenza –, ci sfilano via come acqua sulla prora, ci lasciano nel benessere. Le abitudini fermano la potenza dell’evoluzione. Ci relazionano infatti al finito e al conosciuto. Oltre le circoscrizioni delle abitudini abbiamo a che fare con l’infinito. È questo, o anche questo, essere il sé. Simbolicamente entità d’aria, elemento volubile, comprimibile e informale, capace di prendere le forme. Nel sé il cosmo appare chiaramente come un pensiero, un sentimento. Come è possibile? Direbbe un io, entità di terra, elemento stabile, incomprimibile, che trattiene la forma. Nel sé, diviene chiaro che la realtà, il mondo descritto corrisponde veramente al mondo a causa delle protosinaptiche connessioni che il discorso, e solo lui, rende vere.Considerando che la descrizione è un’espressione assoggettata al sentimento, il cosmo è davvero più simile a un pensiero che a materia ubicata nello spazio. È una sorta di interpretazione alchemico-quantica. Da galenica e inerte, la materia diviene volatile oro. Due dimensioni che nel sé convivono con la stessa tenacia con la quale nell’io sono incompatibili. Come la biochimica è l’aspetto materiale del pensiero, dell’emozione, del sentimento, della coscienza, della consapevolezza, così la materia è la creazione del pensiero. Nel corpo, fisica e metafisica interagiscono circolarmente, quanticamente, secondo intenti strettamente relazionati al nostro vissuto, alle nostre emozioni. Da qui si può dire che siamo Tutto, che entro noi albergano universi diversi. Purtroppo maldestramente relazionati quanto il timone delle relazioni è in mano a un capitano pieno di ego. Volendo se ne può trovare una sintesi concettuale. Il pensiero estetico ha una natura volumetrica, quantica. Esso è necessario alla comprensione delle relazioni umane, al superamento dell’io. Il pensiero etico ha invece una natura bidimensionale, organizzativa. È necessario alle all’amministrazione sociale e si esaurisce nell’io.
Politica
«Tutto il nostro vivere come esseri umani è in quanto tale politico, perchégenera mondi, e i mondi che generiamo con il nostro vivere e conviverenascono dalle emozioni che fondano le risposte […] . Al tempo stesso, tuttociò che facciamo nel nostro vivere e convivere come esseri umani sarà diper sé anche educazione, perché opererà sempre come formatore dei sentimentidei giovani […] » (Humberto Maturana e XimenaDavila, Emozioni e linguaggio in educazionee in politica). Se vogliamo cambiare, facciamolo. Guardiamoci come fossimo altro da noi e diciamoci di smettere certe dipendenze, certe abitudini. Decidiamo di metterci alla ricerca del nostro io, andiamo a vedere di che pasta è fatto. E se gli altri non faranno altrettanto, allora è tutto inutile, è un pensiero, una certezza, una formula magica che contiene le ragioni per mantenere l’inerzia, per restare al divano, per accontentarsi d’aver capito e magari considerarsi superiori a chi ancora non c’è arrivato. Ma, è anche vero che contiene il perché è opportuno mettersi in moto. A noi la scelta. E il lavoro per compierla. Nessuno può sostituirsi a noi, a nessuno possiamo delegare un mondo migliore: «Crisi, parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire “scelta”o “punto di svolta”, ora sta a significare: “Guidatore, dacci dentro!”[…]Ma “crisi” non ha necessariamente questo significato. […] Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa» (Ivan Illich, Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto d’impiego); «Noi esseri viventi siamo sistemi determinati dalla nostra struttura. Nessuno di esterno a noi può specificare quello che accade. Ogni volta chesi verifica un incontro, quello che ci capita dipende da noi. […] Anche in una conversazione come questa, ognuno ascolta a partire da se stesso; e costitutivamente, in ragione del proprio determinismo strutturale, non puòche ascoltare a partire da se stesso. Quello che sto dicendo è un’alterazione che scatena in ognuno di voi un cambiamento strutturale determinato in voi, E non in quello che dico e, pertanto, non da me che sono soltanto la contingenza storica nella quale voi vi trovate a pensare ciò che state pensando» (Humberto Maturana e Ximena Davila, Emozioni e linguaggio in educazione e in politica).
La via, il percorso, è tutto. Non c’è il successo conclamato in attesa. Sarebbe una pretesa egoica, contro la quale non dovremmo più battagliare. Esiste solo l’impegno per percorrerla, ognuno a propria misura, quella del sé.Ognuno ormai con l’apertura alla gratitudine per ciò che è: «Qualsiasi via è solo una via, e non c’è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nell’abbandonarla, se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare…Esamina ogni via con accuratezza e ponderazione. Provala tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una domanda… Questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente» (Carlos Castaneda in Fritjof Capra, Il Tao della fisica); «”Questa, si questa è ormai la mia via: e la vostra dov’è?“ così rispondevo a quelli che mi “chiedevano la via”. Poiché la via, la via non esiste!» (Friedrich Nietzsche, Così Parlò Zarathustra); «La via è in noi, ma non in dei, né in dottrine, né in leggi. In noi è la via, la verità e la vita. Guai a coloro che vivono secondo modelli! La vita non è con loro. Se voi vivete seguendo un modello, allora vivrete la vita del modello, ma chi dovrebbe vivere la vostra vita, se non voi stessi? Dunque vivete voi stessi […]. Imporre leggi, migliorare o rendere facili le cose è diventato un errore e un male. Ciascuno cerchi la propria via. La via ci porta all’amore vicendevole nella comunione. Gli uomini vedranno e sentiranno la somiglianza e la comunanza delle loro vie. […] Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. […] Credevo che la mia anima potesse essere l’oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. […] Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. […] Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L’altra metà è la conoscenza che si costituisce nella relazione con l’immagine» (Carl Gustav Jung, Libro Rosso o Liber Novus). È questo il qui ed ora. La formula è breve ma profonda. Implica infatti la libertà dal ruminante turbinio di pensieri. Una presenza che per sua natura impedisce il qui ed ora e complica le cose all’accettazione: «Il linguaggio delle emozioni comporta un fluire ininterrotto di segnali e controsegnali, mentre il linguaggio della cognizione autocosciente tracciadi continuo differenze, contorni, soglie di discontinuità» (Sergio Manghi, La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson). Nel sé, siamo Uno. Nell’io, il molteplice, sinonimo di avere e di perdizione, subiamo. L’io ha da difendere, e da attaccare. Il sé no. L’io è settoriale, il sé è sistemico. Anche il grande ego dell’Occidente, la sua cuspide d’intelligenza, la Scienza, così originariamente autoreferenziale, affermativa del vero definitivo, analitico-scompositiva dell’intero, dopo aver ridotto l’infinito a sola materia misurabile e cognizione, attraverso il suo cuore esploratore, con la meccanica quantistica, ha superato la realtà data per riconoscere quella creata.«[…] è nella teoria dei quanta che hanno avuto luogo i cambiamenti più radicali riguardo al concetto di realtà. […]Ma il mutamento del concetto di realtà che si manifesta nella teoria dei quanta non è una semplice continuazione del passato; esso appare comeuna vera rottura nella struttura della scienza moderna» (Werner Heisenberg, Fisica e filosofia). In ogni caso, sulla via del sé siamo soli, dare colpe agli altri della nostra solitudine o pretendere aiuto per la nostra difficoltà, sono fughe che riguardano il piccolo campo dell’ego, quello che all’inizio sembrava il solo esistente.
Bibliografia impiegata:
Marco Baston, Disperdere il suggeritore. Come affrontare i voladores – Edizioni Intento, 2016, s.l.
Paolo Calabrò,Le cose si toccano. RaimonPanikkar e le scienze moderne, Diabasis, 2011, Reggio Emilia
GuyDebord, La società dello spettacolo, Baldini CastoldiDalai 2004, Milano
Daniele Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo, 2015, Roma
Enrico Grassani, L’altra faccia della tecnica. Lineamenti di una deriva sociale prodotta e subita dall’uomo, Mimesis, 2002, Cinisello Balsamo (Mi)
Werner Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, 1961, Milano
Ivan Illich, Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto d’impiego, Red, 2013, Cornaredo (Mi)
Carl Gustav Jung, La psicologia del Kundalini-Yoga, Bollati Boringhieri, 2004, Torino
Carl Gustav Jung, Libro Rosso o Liber Novus, Bollati Boringhieri, 2015, Torino
Ervin Lazslo, Wolrdshift. Società, scienza e nuova realtà, Franco Angeli, 2008, Milano
Sergio Manghi, La conoscenza ecologica. Attualità di Gregory Bateson, Cortina, 2004, Milano
Humberto Maturana e Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, 2012, Venezia
Humberto Maturana e Ximena Davila, Emozioni e linguaggio in educazionee in politica, Eleuthera, 2006, Milano
Carlos Castaneda in Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, 1982, Milano
Claudio Naranjo, Viaggio di guarigione. Il potenziale curativo della terapia psichedelica, Spazio Interiore, 2016, Roma.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, 1976, Milano.
Wilhelm Reich, Ascolta piccolo uomo, Sugarco, 1973, Milano
Lorenzo Merlo