C’è quel camion bianco e verde con il rosso e giallo del logo della ditta,carico di generi alimentari che sta lì fermo sotto la pioggia battente a dieci metri dal vuoto con il motore acceso perché il conducente è scappato senza togliere la chiavetta. E’ quasi mezzogiorno del 14 agosto 2018 ed è appena avvenuto il disastro peggiore e di maggiore impatto degli ultimi decenni in Italia, disastro provocato dall’uomo e non dalla Natura e non può che restare nell’Immaginario collettivo anche dopo un mese e la notizia man mano scompare dalle prime pagine dei quotidiani e dalle informazioni “alte” dei telegiornali. E non può non essere considerato anche un simbolo della condizione nostra e della nazione. Non sempre, ma spesso, certi eventi non restano fini a se stessi, nel senso che limitano il loro significato all’evento materiale in sé, ma vanno oltre, hanno un valore ed un significato ulteriore, altro, rimandano a un senso di cui oggi, nell’Occidente da secoli desacralizzato quasi nessuno si accorge e se glielo spieghi ti ridono in faccia, ti prendono per un mezzo matto esaltato. Eppure bisogna “leggerli” anche così.
La questione è che il collasso del Viadotto Morandi non ha provocato soltanto 43 vittime fra automobilisti su di esso ed operai sotto di esso, non ha provocato soltanto l’interruzione di una importante autostrada e della circolazione a Genova, ma qualcosa di assai più profondo che nessuno nelle dozzine di commenti sul disastro ha rilevato.
I simboli sono due: il cavalcavia crollato e l’autocarro in bilico. I ponti non collegano semplicemente due rive opposte. Nell’antichità e almeno sino al Medioevo il ponte aveva una sua sacralità e alla sua costruzione partecipavano non solo corporazioni specifiche ma sovrintendevano anche i sacerdoti che li consacravano. Il sacerdote era un pontifex, cioè un “facitore di ponti” fra l’alto e il basso, fra il divino e l’umano. Il ponte collegava quindi non solo due sponde fisiche ma anche metafisiche, e il crollo di un ponte era un vero dramma che preannunciava sventure e si doveva sanare il più rapidamente possibile, anche riconsacrandolo. Il Viadotto Morandi è collassato non per un terremoto o per un ciclone che non si possono impedire, ma a causa dell’incuria dell’uomo, di un modo di costruzione impreciso e non adatto che, pur se rilevato durante i decenni, non è stato risolto in modo definitivo. Affermare che il cemento armato o il calcestruzzo si degrada dopo cinquant’anni è una stupidaggine: dipende da come era fatto, altrimenti tutta l’Italia sarebbe una maceria!
In realtà, diversi testimoni hanno detto che durante il temporale un fulmine l’avrebbe colpito: se è così si tratta di un altro segno premonitore che rientra in quelle che i tecnici adesso definiscono le “concause” del crollo: i tiranti, o stralli, che hanno ceduto, un pilone che si è torto su se stesso, i duecento metri di viadotto che sono sprofondi all’improvviso. A me pare un simbolo evidente: si è interrotto il collegamento fra passato e presente e futuro, quello fra l’Italia del “boom economico” degli anni Sessanta (il ponte venne inaugurato nel 1967 alla presenza del presidente Saragat) e l’Italia odierna che non riesce ad uscire dalla crisi che dal 2008 – dieci anni! – attanaglia l’Europa, mentre molti altri Paesi ce l’hanno fatta noi ancora stentiamo a farlo, arranchiamo siamo in stallo. E’ un taglio netto fra un popolo che mezzo secolo fa era ottimista e propositivo, con una moneta solida, guardava sicuro all’avvenire, ed un popolo arrabbiato, sfiduciato, rancoroso, deluso e pessimista che non crede a nuove prospettive, al quale la famosa Tangentopoli di venticinque anni fa non ha insegnato proprio nulla come rivelano le cronache quotidiane. Un anno dopo quella inaugurazione esplose il “Sessantotto”: è là che comincia la vera cesura fra due cultura, fra due modi di pensare. “Tagliarsi i ponti alle spalle” significa non avere più vie di ripiego per mettersi al sicuro anche sul piano delle idee, valori, memorie. Andare avanti senza più punti di riferimento certi per tutti, aver separato due culture. Mentre i due tronconi sospesi nel vuoto sembrano i trampolini di una piscina in attesa di qualcuno che voglia fare un salto acrobatico nel Nulla.
L’autocarro bianco e verde e rosso (ma anche giallo-verde…) è proprio l’Italia con il suo governo attuale: carico di beni sta lì col motore accesso sotto la pioggia scrosciante, ma senza autista e a pochi metri dall’Abisso. Imballato, bloccato, magari vorrebbe proseguire, ma non solo non può farlo perché cadrebbe nel vuoto, ma anche perché non c’è nessuno al posto di guida, il conducente essendo fuggito per paura, per salvarsi la pelle. Precisamente la condizione del nostro Paese in completo stallo nonostante le sue potenzialità, senza un percorso, senza direttive sull’orlo del disastro definitivo. Una immagine disperante, alla quale non pare ci sia rimedio. O meglio, il rimedio potrebbe esserci ma difficile e radicale: ricostruire materialmente e simbolicamente quel ponte che unisce le due sponde della vita della nazione, ma soprattutto che vada al posto di guida del camion bianco e verde e rosso un conducente con idee coraggiose e chiare, che lasci da parte la demagogia spicciola e la faziosità, che riunisca il Paese e non lo divida invece fra buoni e cattivi per censo e idee, che lo rimetta in moto sul piano pratico , morale e spirituale, che lasci da parte l’ideologia pauperista e complottista, che indichi mete precise senza prendersela solo e sempre con il passato di cento anni fa, che sia per qualcosa e non sempre contro qualcosa, che faccia rispettare le regole a tutti e chi sbaglia deve pagare senza essere assolto perché la pensa in una certa maniera e condannato perché la pensa in un’altra. Che infine dia una scrollata ad una massa di italiani storditi non tanto dalla “ludopatia” ma dai nuovi mass media che ne condizionano la vita quotidiana, specie tra i ragazzi che ormai sono quasi incapaci di distinguere tra Realtà e Finzione e che da minorenni commettono reati atroci “per noia” senza rendersi conto della loro efferatezza.
Insomma, si tratta di un’operazione culturale. Vale a dire ricostruire una cultura che ricolleghi passato e presente di una nazione che preferisce rimuovere e condannare invece di accettare e capire. Una cultura senza iati, senza interruzioni, che ricostruisca l’identità di un popolo che l’ha persa dimenticando se stesso in nome di un demagogico “buonismo”, di una generica “democrazia”, di slogan come “torniamo umani”. Verrebbe voglia di dire invece: “torniamo alieni”. Cioè diversi dalla mucillagine indistinta che ci assedia, ritorniamo “barbari”, come è anche il senso di alienus, ritroviamo una nostra identità culturale, noi che siamo la nazione che nel mondo ha un retaggio che nessun’altra possiede, come solo all’estero ci ricordano. Monumenti e opere d’arte non sono soltanto “cose” che attraggono i turisti, ma anche significano altro. Dobbiamo svegliarci da questo interminabile incubo di una piovosa giornata di mezza estate… “L’Italia è mora. Viva l’Italia!” dice il titolo di un nuovo programma tv. Speriamo solo che non ne esca uno zombi, un morto vivente, e che l’Italia sia veramente viva…
Gianfranco de Turris
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