Che cos’hanno in comune le storie di quattro discese negli inferi dell’allucinazione psicotica, quattro gustosi reportage di viaggio alla ricerca di se stessi e due toccanti racconti di guerra? Lo spazio di un libro. Un agile libro scritto a “sei mani” da tre autori che dal punto di vista fisico e caratteriale più lontani tra loro non potrebbero essere. Tre universi dello spirito uniti da una grande passione: l’amore per le lettere, per la narrazione scritta, il romanzo, l’affabulazione cronachistica e il giornalismo. L’opera s’intitola “Nei meandri” ed è edita per i tipi della Ritter al prezzo di 18 euro.
I tre sono Marialùcia Conistabile, Roberta Di Casimirro e Mario Merlino. Già nel titolo ˗ “meandri”, appunto ˗ è facile individuarvi una dimensione aliena, circonvoluta e ostile, strisciante e ctonia, fatta di realtà distorte e sconvolgenti. È inevitabile quindi, già dall’incedere delle prime righe delle novelle di Marialùcia Conistabile, giornalista vibonese della calabrese “Gazzetta del Sud”, trovarsi a fare i conti con esperienze al cardiopalmo, continuamente alle prese con inseguimenti a perdifiato tra cupe foreste abitate da perfide presenze e inquietanti fughe a precipizio su baratri spaventosi, l’angoscia che attanaglia il cuore e l’adrenalina che scorre a mille. È proprio un universo popolato da incubi, quello della Conistabile. Un mondo dove lo smarrimento, l’abisso, la disperazione, lo sconforto, la morte, l’oblio, non sono più qualcosa di possibile, ma certezze che incombono con ineluttabile fatalità su poveri esseri umani condannati già in partenza a scontare chissà quali indicibili colpe. Ordalie volute da divinità spietate e sanguinarie al termine delle quali non c’è, non ci può essere, redenzione alcuna. Emblematica è la testa di un uomo, che in un crescendo di drammatiche circostanze, sebbene recisa di netto dal tronco, si mette a narrare in prima persona la sua tragica, sofferta anabasi. O l’atroce agnizione dell’inconsapevole entità elfica, eterea ed ectoplasmatica, alle prese col cadavere di uno sconosciuto disteso su una spiaggia spazzata dal vento invernale. Tra le pagine della Conistabile è la Calabria tellurica che, nascosta tra le pieghe della paranoia emozionale, detta all’ordito narrativo le folli regole dello spartito. Uno spartito il cui ritmo è scandito dal delirio e dalla disgregazione dell’io. Una dimensione che richiama alla mente i “Papi urlanti” di Francis Bacon.
A fare da controcanto a questi maligni arabeschi gotici affacciati sull’inferno del paranormale, ecco l’esordio di Roberta Di Casimirro, regista Raiuno, che con la sua scrittura sincopata e rapsodica e dai tratti gradevolmente ironici ci catapulta nella frenetica New York post 11 Settembre. Un reportage nel Nuovo Mondo dai toni solari, a volte persino esilaranti, ma con ben delineato sullo sfondo, a mo’ di memento, il lento, sofferto consumarsi dell’agonia paterna. Altrettanto gradevole il blitz di Roberta nella Ville Lumiére per assistere a un concerto jazz, con tanto di ricordo struggente per il sacrificio di Alain Escoffier, tour celiniano al Passage Choiseul e omaggio alla tomba di Robert Brasillach, quasi nascosta nel piccolo, appartato cimitero di Charonne. Il cuore spezzato ma non troppo da uno “sfidanzamento” al limite della commedia dell’assurdo, prevenuta, quasi riluttante e preda di irragionevoli – o fin troppo ragionevoli – dubbi e inconfessabili paure, Roberta scopre infine che il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge. Nel leggere i brevi cammei della Di Casimirro, insomma, ci si rende conto che anche all’ombra dei grattacieli di Manhattan e tra i boulevard che si specchiano nella Senna, tra “equivoci gastronomici” e incomprensioni linguistiche, la vita può sempre riservare piacevoli e insperate sorprese. Come l’incontro assai istruttivo con un tassista arabo, ad esempio. Imprevisti che non mancano di dare la stura a insolite, impensabili considerazioni al limite dell’esistenzialismo. Un viaggio-pellegrinaggio nella struggente Fiume ormai irrimediabilmente slavizzata per deporre una copia del romanzo di Gabriele Marconi – “Le stelle danzanti” – nella chiesa di San Vito e un rapido sopralluogo all’Aquila, da poco devastata dal sisma del 2006 concludono la sezione del libro dedicata alla Di Casimirro.
Mario Merlino esordisce con due storie assai diverse nello svolgimento ma entrambe unite da uno stesso filo narrativo storico e poetico. Due novelle ispirate ad autentici lacerti di vita vissuta. La prima, “Tre fratelli”, rievoca l’epopea bellica di tre ragazzi d’origine siciliana – i fratelli Raniolo: Angelo, Paolo ed Emanuele – marocchini di residenza, francesi di passaporto ma italiani, italianissimi, nel cuore. Scoppiato il conflitto, e rischiando il plotone d’esecuzione per diserzione, i tre abbandonano di soppiatto la casa paterna a Marrakech per attraversare fortunosamente l’Algeria “filo-alleata” e andare a combattere da italiani nella Tunisia contro gli inglesi. Anche in questo romanzo il peso avverso del fato sembra incombere sui protagonisti ineluttabile e opprimente come una lastra di piombo. Partiti sognando eroici orizzonti e fiduciosi nella vittoria finale dell’Asse, i tre giovani sono costretti a fare i conti con la cocente sconfitta italiana in terra d’Africa per poi ritrovarsi sul territorio dell’amata Patria a fronteggiare una crudele guerra civile. Coraggiosi come pochi, ciò che tiene in vita i tre è la rabbia. Rabbia mista a risentimento contro l’amara sorte che li costringe a difendersi non solo dalle preponderanti forze angloamericane e slave, ma pure dai vili agguati tesi dai partigiani italici con la stella rossa sul berretto. È vero che “le donne non ci vogliono più bene”, ma a non voler bene, anzi a odiare di un odio bestiale quel pugno di valorosi patrioti sembra essere l’umanità intera, compresi i vecchi amici marocchini coi quali pure hanno trascorso l’infanzia. Il tumulto interiore dei fratelli Raniolo pertanto è talmente ribollente che in un empito di accettazione superomistica dell’infame destino che è toccato loro di vivere li porta a diventare i “doppelganger” di quelle bestie col turbante use a violentare le loro vittime prima di sgozzarle. Così Angelo e Paolo Raniolo, di rimando, hanno deciso di rendere pan per focaccia a quei maiali, impalandoli per contrappasso con l’affilatissima baionetta. E pensare che il vecchio imam della moschea di Kutubia aveva avvertito Emanuele: …< Fai attenzione, kefir, che la tua giovinezza non venga turbata, sia fonte di sangue…>. Poi, come se non bastasse, quell’oscuro vaticinio: <Nel mondo dei kefir, di voi che avete chiuso con la cera gli orecchi e gli occhi con due monete di basso conio, non ci sono i buoni, i giusti, i salvati, a tutti sarà il fuoco la ricompensa. Intanto dilaniate il vostro cuore, la vostra mente, la vostra carne, con questa guerra così come avete fatto durante la precedente. Mio figlio è morto nelle trincee di Francia (…) per rendere il vostro potere più debole, per fare dei vostri paesi una distesa di sangue, per dividere i vostri popoli…
Ancora in questa guerra, poi la spada dell’Islam si abbatterà su voi, le vostre donne, i vostri figli. Senza pietà…>. In questa novella di Merlino il tragico destino di sconfitta e di morte per i tre giovani protagonisti del racconto e della Patria tutta viene vaticinato dagli occhi lucidi e un po’ stralunati di un imam visionario il quale, abbandonandosi al volere di dio come solo gli arabi sanno fare – <La parola di Dio è l’architettura del mondo, è il mondo stesso…> – intravvede nel folle, reciproco annientamento delle potenze europee nella mattanza bellica una sconfitta collettiva nel presente e un presagio di sottomissione per il futuro. L’altro racconto di Merlino, “L’unico… in camicia nera”, è la storia del sottufficiale Nerio Neri, anch’egli un valoroso combattente devoto al fascismo e al suo Duce, cui un vecchio saggio chiamato “il Professore” lancia un inquietante ammonimento: <…manca poco, ma a voi verrà chiesto dalla storia di pagare un conto ben salato…>. Anche stavolta il destino cinico e baro mantiene la promessa-minaccia e s’incarica di presentare al giovane idealista Nerio il predetto salatissimo conto. Che nel suo caso assume le sembianze di un proiettile di mortaio che lo dilania spedendolo dritto sulla sedia a rotelle, il braccio amputato e la gamba storpiata. Piange, Nerio, piange e maledice quel bolide che non gli ha troncato di netto l’esistenza, condannandolo a una vita dimezzata in un mondo che, dopo il 25 aprile 1945, non comprenderà neppure più il significato di parole come “eroismo” o “sacrificio” o “Patria”. Ma tenendo fede al titolo del racconto – “L’Unico”, appunto – che rievoca reminiscenze stirneriane, sarà lo stesso destino che, facendosi beffe di ogni determinismo e di ogni logica razionale, spariglierà ancora una volta le carte in tavola.
Angelo Spaziano