Parole che nascono dal desiderio di raccontare una storia ambientata nella Firenze di metà Ottocento. Tutto parte da una casa in via dei Federighi 10 dove allora vivevano i fratelli Reghini: Arturo, Maria, Ugo, Gino (mio nonno). In quel luogo nasce la storia di un antico amore tra Maria, una delle prime donne laureate in Storia dell’Arte e un giovane artista sconosciuto, Armando Spadini.
I racconti delle vite sono tutti esemplari, restano chiusi nei cuori, incisi nel ricordo o dissimulati in una nostalgia nebbiosa. Questa storia fiorentina mi coinvolge, ora che tutti hanno dimenticato, nessuno sembra interessarsi al racconto di una narrazione minore. Solo io ricordo, i miei occhi hanno rincorso quelle scale buie e polverose, ascoltato lo scorrere delle parole che narravano i fatti, le vie di una Firenze trascorsa. Avrò avuto cinque anni. Restano ancora in me gli odori, i racconti; solo io ricordo, conservo e riesco a ricucire quei frammenti dispersi di vite.
E’ la Firenze tra il 1890 e il 1900, sono gli anni de ‘Il Leonardo’ nella sede di Palazzo Davanzati, di Giovanni Papini, di ritrovi come il Caffè delle Giubbe Rosse. Affacciava su Lungarno Acciaioli la casa avita dei Reghini, mi ricordo, le finestre aprivano su Ponte Vecchio; per fare la spesa bastava calare un cestino in vimini. L’odore acre d’urina di gatto trapassava le mura di stanza in stanza. I trentatré gatti di Ugo erano i padroni assoluti della casa salendo e scendendo dall’altana fino al piano inferiore della casa.
Alla fine dell’Ottocento, a pochi passi dalla casa di via dei Federighi, in via delle Terme abitava il giovane pittore Armando Spadini abituale frequentatore di casa Reghini in virtù del forte legame d’amicizia con Arturo e con la sorella Maria a cui era legato da un amore platonico ed inesaudito. Resta oggi un carteggio inedito databile 1890-1909 fatto di lettere, disegni tuttora inediti in stile Jugend, realizzati su materiali poveri come sacchetti del pane, con inchiostri naturali ottenuti da erbe e fiori che il giovane Spadini reperiva nella campagne attorno a Firenze.
Gente strana, fuori dalle righe quei Reghini, ognuno rapito dalle proprie ossessioni, come Arturo, fratello di mio nonno. Non feci a tempo a conoscerlo ma negli anni ho raccolto dalla voce di chi gli fu vicino, racconti e testimonianze. Nel tempo ho ricucito una trama di avvenimenti, frequentazioni che hanno confermato la tenuta di quel che poteva apparire la leggenda un po’ tronfia d’un’intima esegesi familiare fatalmente affidata all’inattendibilità di un racconto orale. Ambienti e situazioni fiorentine dove la casa di via dei Federighi abitata da Arturo diveniva tutt’uno con gli ambienti e i personaggi che ruotavano attorno al ‘Leonardo’, “rivista d’idee” nella sua storica sede di Palazzo Davanzati o del Caffè delle Giubbe Rosse: l’amico Papini ricorda l’”appassionato giocatore di scacchi sui tavolini delle Giubbe Rosse, il più grande mago che Firenze abbia mai conosciuto”. Le parole di Papini confermano il racconto familiare di come Arturo, all’interno del Caffè delle Giubbe Rosse, si divertisse con la forza del pensiero a far saltare i cappelli degli astanti. Anche uno studioso come Augusto Hermet che lo frequentò attorno al 1903 nella Biblioteca Teosofica, ricorda “la presenza di un giovane matematico, mistico e mago. Era Arturo Reghini”.
Arturo e il suo dono dell’ubiquità. Sicuramente non mentiva il fratello di mio padre, generale, uomo d’armi notoriamente tutto d’un pezzo, che ricordava quando, da bambino, vide Arturo sia in giardino che nello studio; e chiedendo il perché Arturo gli rispose che ancora quelle cose non poteva capirle, ma che un giorno le avrebbe comprese. Poi i racconti di mia nonna paterna, cognata di Arturo, che l’aveva frequentato a lungo: ne parlava come di un essere dalle sembianze anomale, costretto a farsi abiti e scarpe su misura per via della sua eccessiva altezza che sfiorava quasi i due metri; raccontava di come dovesse chinarsi ogni volta per oltrepassare una porta. Arturo totalmente glabro, come conferma anche Augusto Hermet: ”il candido gigante (…) sopravanzava di molto in statura ogni altro, con la sua breve testa dalla fronte ben costruita (…) bianche erano le sue guance, ancora assai dopo l’adolescenza non conoscevano rasoio”.
Arturo, grande matematico, suoi soni i calcoli fatti a mente sulla geometria post-euclidea. Oggi dei giovani matematici hanno controllato al computer i calcoli fatti da Arturo scoprendo che i risultati sono esatti. Arturo solitario profeta poliglotta vicino negli ultimi anni ad una signorina inglese, forse un’adepta della Golden Dawn. Arturo eremita segregato dal regime a Budrio, dove insegnava in una scuola media. Arturo che prima di morire, allungando una mano su un mobiletto vicino al letto lasciò, al momento del trapasso, marchiata sul legno l’impronta combusta della sua mano. Esistono racconti sulla sua morte come quelli dell’amico Giulio Parise: “Il segno era apparso. Arturo Reghini si volse al Sole declinante per l’ultimo saluto, per l’ultimo rito; poi si appoggiò con la mano destra al vicino scaffale, piegò la Gigantesca statura verso la Grande Madre, eretto il busto e fu libero”.
Di quest’antica famiglia fiorentina, è rimasto ben poco: ho conservati lo scaffaletto di cui parla Parise, la poltrona dove riposava Arturo e anche un libro che ho rapito alle casse, ai vecchi archivi destinati ai robivecchi. L’ho rubato certa dell’approvazione di quei Reghini che non erano più su questa Terra. D’altra parte chi si sarebbe ricordato di quel vecchio libro? Chi avrebbe saputo dargli il giusto valore? Soltanto mio padre sapeva e riconosceva l’importanza simbolica di quel libro, Il Crepuscolo dei Filosofi regalato dal suo autore, Giovanni Papini all’amico Arturo al suo ingresso nella Loggia fiorentina ‘Lucifero’ nel 1907. Mi piace pensare provenga da quello “scaffaletto di libri” ricordato dal Parise. Nel frontespizio una dedica ad inchiostro, scolorito dal tempo, “Al nuovo fratello Arturo Reghini il suo G Papini”.
Lidia Reghini di Pontremoli