Secondo il Buddha, vi sono persone che piovono molto, altre che piovono poco e alcune che non piovono affatto. In altre parole, vi sono i generosi, che donano senza risparmiarsi, gli amministratori prudenti, che donano con una certa riluttanza, e gli avari, che nella loro desertica aridità non donano nulla, o la cui carità non può esser che pelosa.
Si potrebbe dire così: alcuni amano molto, altri poco o niente. Perché chi ama è incline a donare – o a donarsi – con liberalità. La metafora pluviometrica definisce dunque un livello decrescente di amore verso gli altri. E dove l’amore scarseggia, le relazioni umane son regolate dalle leggi di una siccitosa moralità. Perciò l’avaro è tendenzialmente un moralista, e viceversa.
Balzac scrive che «gli avari non credono nella vita futura, poiché per essi il presente è tutto». Ma père Grandet – la più titanica figura d’avaro uscita da una penna – smentisce il suo creatore. Infatti, se vivesse nel presente, ne godrebbe i frutti. Invece, pur possedendo un patrimonio immenso, costringe sé stesso e la famiglia a vivere nella miseria. E quando sta per morire, e la figlia gli bacia la mano piangendo, chiedendo la sua benedizione, non ha alcun moto di tenerezza paterna. Solo, la ammonisce d’aver cura del suo tesoro, perché nell’aldilà dovrà rendergliene conto.
Può darsi che Balzac pensi a quella religiosità moraleggiante e ipocrita che ben si presta ad assecondare i pregiudizi, le pretese e le tare dell’avarizia. Non una vera religione ma una chimerica religioneria, ibrido di credenza e ragioneria, registrazione di consuntivi e bilanci, calcolo di entrate e uscite. Il peccato non è frattura metafisica ma debito, disavanzo economico; la virtù non è premio a sé stessa ma oculato investimento. Dio stesso v’ha il ruolo di un Grande Ragioniere, occupato nella diligente contabilità dell’universo e delle anime.
Fautori della religioneria sono i moralisti, i farisei, tutti quelli che vorrebbero sottomettere la vita dell’anima a una meticolosa fiscalità, applicare il calcolo razionale e la causalità scientifica alla sfera dei beni spirituali. È qui, negli aspetti formali e legalisti della fede, che emerge un’ideale affinità tra avarizia e religione (ma nel cristianesimo non più che nell’ebraismo, nell’induismo etc.) .
Se l’avaro dà solo a usura, per convenienza, lo stesso fa il moralista, che vaglia atti e pensieri, cercando di divinare quali interessi la sua coscienza ne può trarre. Per questo il moralismo emana, come l’avarizia, una cupa desolazione, un rigore arcigno, fobico e prudente. Difetta di quei sentimenti generosi di libertà e di audace incoscienza che accompagnano l’amore. Per converso, l’avaro impone ai suoi affari un tipico e implacabile moralismo.
Non è raro sentir di certi plutocrati che menano vita ascetica e spartana. Se Grandet consacrasse la sua monomania alla salvezza dell’anima, ricorderebbe uno di quegli anacoreti che si ritiravano nel deserto della Tebaide, pensando di comprarsi il paradiso a prezzo di privazioni disumane. V’è in lui la stessa formidabile concentrazione d’energie in un sol punto, la medesima capacità di sacrificio e di rinuncia al piacere; lo sprezzo non solo per le comodità ma per le stesse elementari necessità della vita, considerate d’ostacolo alla perfezione morale.
‘Avaro’ viene dal latino ‘avere’ – desiderare ardentemente, con impazienza – da cui anche ‘avido’. A sua volta, avere ha radice nel sanscrito avati, che vuol dire amare e saziarsi. Questo conferma che l’avarizia, come tutti i peccati, è una perversione dell’amore. È un amare l’oggetto sbagliato, un attaccarsi alle cose con legami morbosi.
La diagnosi d’avarizia prevede due sintomi fondamentali: la bulimia e la ritenzione. L’avaro inspira avidamente senza mai espirare, bloccando quel flusso di energie che solo circolando possono generare vita e piacere. È un paradosso senza uscita. Il suo scopo è infatti accumulare mezzi. Ma qual è il fine? Accumulare mezzi. L’avaro è chiuso in un circolo vizioso, in un meccanismo che si auto-consuma. Non può mai saziarsi, a prescindere dalla quantità o dalla natura di ciò che accumula: denaro, sapere, relazioni sessuali etc.
La sua vita si sradica da quell’avati, amore saziante, che rende paghi e felici. Come avati si corrompa in avere, desiderio inestinguibile, per poi degenerare in habere, voluttà del possesso, è un mistero. È lo stesso oscuro processo che può corrompere una religione d’amore e degradarla a precettistica morale. All’empatia e alla compassione subentra un’estenuante ricerca di controllo su di sé e sul mondo. L’originario amore si perverte in brama di dominio e volontà di potenza.
È difficile dire quanto ognuno di noi sia responsabile di questa caduta. Ancora non abbiamo deciso se all’origine dei nostri comportamenti vi siano, come oggi spesso si dice, cause indipendenti dalla nostra volontà – tare genetiche, traumi, condizionamenti ambientali etc. – o invece una libertà radicale. Nel primo caso, l’avaro e il moralista sarebbero da compiangere. In loro potremmo forse riconoscere ‘fissazioni anali’, involontari automatismi nervosi, contrazioni spastiche della personalità. Non giudicarli quindi, ma semmai lamentare in loro la tragicità della vita o la malignità della natura.
Balzac non dice perché Grandet sia avaro. Non lo condanna né lo giustifica. Tuttavia, considera l’avarizia un pericolo sociale. È convinto che la mentalità moderna abbia come scopo di cancellare la fede in un’altra vita, trasferendo sulla terra ogni aspettativa di felicità. Questo ci impone la ricerca di una beatitudine che si ottiene per fas et nefas, non con l’esercizio di obsolete virtù cristiane, ma con l’essere egoisti, falsi, impietosi.
Occorre «pietrificare il cuore e macerarsi il corpo nell’ansia di beni passeggeri, come un tempo si soffriva il martirio per acquistare i beni eterni». Balzac vede questa idea penetrare nei libri, nelle leggi, nelle istituzioni, negli uomini. Teme che lo spirito borghese corrompa il popolo e provochi il dilagare incontrollato dell’avarizia. Allora, «che ne sarà del mondo?» si chiede. La chiusura di orizzonti religiosi, tipica della borghesia, «diffonde una luce orribile sul mondo odierno, ove più che mai il denaro domina leggi, politica e costumi».
Può sembrare ingenuamente romantico contrapporre l’avarizia borghese alla generosità popolare. In ogni classe sociale, in ogni accolita di rozzi contadini o di raffinati nobiluomini, di chierici, di artisti etc. – e dentro ognuna di queste in ogni uomo – possiamo trovare forme di rapacità e di taccagneria. Ma questo mostra appunto l’infiltrarsi di caratteri tipicamente borghesi nei vari comparti dell’umanità.
Per il nobile l’avarizia era non meno disonorevole della viltà. Semmai, il nobile scialava, teneva in certo spregio la ricchezza, o godeva nell’esibirla con atti munifici. Col declino della nobiltà e il prevalere della borghesia, da vizio infame l’avarizia diventa virtù, se non nella teoria nella prassi. La psicologia borghese, con la sua piccineria involuta, il suo culto del guadagno, esprime compiutamente l’archetipo dell’avaro. È quindi logico che in una società universalmente imborghesita si prosciughino le fonti dell’altruismo naturale e dell’istintiva solidarietà.
A guidarci non sono oggi i princìpi dell’oblatività, gli ideali del monaco, del poeta o del cavaliere, ma l’ideologia essenzialmente satanica dei mercanti e dei banchieri. Il mondo è preso, soffocato e stritolato nella morsa dei Grandi Avari, di Grandet all’ennesima potenza. Le grandi banche, le multinazionali, gli speculatori, sono oggi le ipostasi della nuova moralità, il cuore nero che pompa veleno nelle arterie, nelle vene e fin nei più minuti capillari della società. Sono le nuove Chiese e i nuovi teologi di una religioneria in cui libertà e gratuità rappresentano l’eresia. La scienza stessa si è fatta borghese, sempre meno interessata alla conoscenza in sé e sempre più rivolta all’utilità e ai profitti.
L’angoscia più profonda dell’avaro è di subire, morendo, un’espropriazione radicale. Perciò, per rimuovere il sensus finis, si rifugia in una proliferazione di diversivi e di illusioni con cui ingannare la coscienza. Oppure riversa sulla vita un furore annichilente e distruttivo, come il Mazzarò di Verga, che non può tollerare l’idea di lasciare la sua ‘roba’ ad altri, e quando vede prossima la fine ammazza a bastonate tacchini e anatre gridando: «Roba mia, vientene con me!».
Ma questi, si dirà, son casi estremi, patologie mentali da cui siamo immuni. In genere ammettiamo in noi l’ira, la lussuria, la gola etc. Ma l’avarizia, come l’invidia, è un peccato abietto e meschino, inconfessabile. Perciò la lasciamo ai Grandet, ai Mazzarò, agli Arpagone, e la nascondiamo in noi con opportuni eufemismi. Nemmeno Grandet pensa d’essere avaro. Anzi, quando deve allungare qualche misero soldo alla moglie per le spese indispensabili, è sicuro d’esser prodigo e troppo generoso.
Così, noi diciamo d’essere “troppo buoni”, o giustamente parsimoniosi, o d’aver le mani bucate. Non ci sfiora mai il sospetto d’essere avari. Ma in una società non più bagnata da piogge feconde, riarsa da continui sillogismi morali e razionali, come potrebbero nascere fiori e frutti di generosità? È naturale che i cuori gradualmente si inaridiscano e che nella gente prevalga la tendenza all’ingordigia, al possesso geloso. Gli atti disinteressati, incuranti d’ogni profitto, sono miracoli che stupiscono. Anche la religione e l’etica si riducono a utilitarismo, a calcoli di convenienza.
Milarepa, santo buddhista venerato in Tibet, diceva: «fate ciò che sembra peccato ma è di profitto alle creature». Il moralista, al contrario, fa ciò che sembra virtù ma serve al suo egoismo. Crede di potersi emancipare dalla Provvidenza con la sua logica previdenza. Anche la continenza, la castità, diventano in lui una forma d’avarizia. E se, come Grandet, provoca l’infelicità altrui, pensa d’esservi costretto da un principio superiore. È uomo d’affari, concreto e realista, convinto che il mondo non si potrà mai reggere sull’amore ma solo sui contratti, le clausole e le regole di mercato.
A onor del vero, anche nel Vangelo leggiamo: «fatevi tesori in cielo». Come se il paradiso fosse una sorta di liquidazione e di pensione in aeternum, sulla base dei contributi versati. Il che ne farebbe una vantaggiosa transazione economica. Così lo potrebbero intendere i teorici della religioneria. Senza capire che il cielo è figura di uno spazio infinito, nel quale ogni ricchezza finita si perde in una radicale insignificanza. Ponendo i nostri possessi sullo sfondo dell’immensità, diventano un nulla.
L’avaro e il moralista temono questa vacuità, vogliono riempirsi. Avvertono in tutto ciò che li svuota, che li spoglia, una minaccia alla loro integrità ontologica. Un inconscio horror vacui li costringe ad accumulare senza limite per coprire l’abisso della loro nudità. Hanno fede solo nella ‘roba’, nei capitali morali o materiali che possiedono. Non credono né in Dio né nella Grazia (“al diavolo il buon Dio!” borbotta Grandet). Non credono nella libertà, nella poesia, nel misticismo, nell’amore.
Per questo li accomuna anche una perenne frustrazione. Il denaro, si sa, non rende felici. Ma neppure l’etica ha questo potere. La conoscenza del bene e del male non è infatti un dono di Dio. È un prestito a usura che il Serpente ci ha concesso, e di cui non finiamo mai di pagare gli interessi. Sappiamo con quali fallimentari, rovinosi indebitamenti. La moralità non è la via per entrare in paradiso, ma per uscirne. Per tornarvi, dovremo spogliarci, lasciare all’ingresso anche la nostra foglia di fico.
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