Mi ritrovo, il tempo l’ha usurato (in ogni senso, probabile), Il tradimento dei chierici di Julien Benda, il famoso pamphlet pubblicato nel 1927. L’edizione in mio possesso risale al 1976 e, essendo a cura della Piccola Biblioteca dell’Einaudi, risente del clima di faziosità che, tramite accurata introduzione, si premunisce di evidenziare come il suo autore sia ‘un uomo di sinistra estremamente appassionato’, secondo il giudizio di Paul Nizan, che ebbe in odio ‘gli sciovinisti, i razzisti, i fascisti d’ogni gradazione, i servi d’ogni regime’. Stalin e lo stalinismo vanno ricercati all’interno dello scritto chè ometterli era impossibile ma minimizzare sì. Non è qui, però, il senso di questo mio richiamo, nato a caso (l’argomento vede sterminata saggistica), solo la necessità, si potrebbe dire, di avere uno spunto per dare inizio.
Inizio a cosa, io stesso – lo ammetto – sono confuso. Sugli intellettuali idee impegno o attenersi ad un ruolo estraneo alle beghe del mondo, forse. Altro ancora fine delle illusioni intorno al pensiero e al suo ruolo-guida… E, quando le idee non trovano il sostegno delle parole adeguate, cosa rimane di quel mondo che si diede guerra in cielo, mentre, in terra, gli uomini per esse si battevano?
In questa edizione – dubito nell’originale francese – si dà, sotto il titolo, una sorta di sintesi esplicativa: ‘Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea’. Tema che appartiene non al presente, va da sé, chè già il solito Platone si fece carico di andare dal tiranno di Siracusa per istruirlo sull’arte del ‘buon governo’, mentre si dilettava a definire le idee universali – fuori, dunque, da ogni tempo e dallo spazio, del vero del giusto del bello. E Benda, mi sembra, si diletti anch’egli – brutta copia di un Maestro di ben altro spessore – a rendere quei valori universali propri dei custodi deputati alla difesa della cultura, la ragione la verità la giustizia, nel mondo presente, magari schierandosi contro l’Italia di Mussolini durante la campagna d’Etiopia o dalla parte dei repubblicani nella guerra civile di Spagna. (E decisamente odioso, l’edizione in mio possesso è frutto di successive rielaborazioni, quando, ad esempio scrive: ‘Per di più, a meno di non chiamare pensiero tutto ciò che si stampa, non vedo che cosa il pensiero abbia perso con la scomparsa di un Maurras o di un Brasillach’).
Insomma: l’intellettuale pretende gli venga riconosciuto un ruolo svincolato da ogni sentire del contingente del provvisorio del particolare, a cui guarda con un misto di noia e dispetto, ma, al contempo, pretende essere arbitro insindacabile e giudice severo proprio di quell’esperire legato alle vicende umane. E si rammarica si turba si duole se gli si stampano sul culo i segni d’un paio di pedate ben aggiustate…
(Lezione prima da giovane militante, sprovveduto e intimorito, in un pomeriggio nei pressi di un bar a Piazzale Prenestino, recatomi a consegnare, non ricordo più quale messaggio, ad Angelino Rossi, noto attivista e pugile. Vengo coinvolto, al mio arrivo, al diverbio fra lui e un tizio che l’aveva insultato – io da spettatore – per motivi legati al parcheggio dell’auto troppo a ridosso al tavolino dove era seduto assieme ad altri camerati. Due cazzotti, andato lungo l’imprudente, serafico e saccente mi si rivolge e m’impartisce il consiglio, che non ho dimenticato: ‘Prima mena, poi discuti!’. Addio, in un solo momento, dei buoni propositi da studente liceale, l’educazione borghese, la priorità della parola scritta ed orale su ogni forma di lavoro manuale. Bastoni e barricate, la parola d’ordine, nonostante i libri affastellati alle pareti e quarant’anni circa di amata professione da insegnante…).
L’intellettuale di questa misura – arroganza e presunzione, cattedra e registro – si appella, anche qui, al solito Platone che, se non erro nel Libro I delle Leggi, elenca le virtù fondamentali dove, al primo posto, colloca la saggezza e la temperanza mentre il coraggio vi compare ultima – ed è il coraggio del ben morire più che forza d’animo. Il guerriero, definito e insolente e ingiusto e immorale, sa affrontare impavido nello scontro il nemico. Nulla di più. (Da aristocratico e cittadino di Atene riconosce negli Spartani la potenza delle armi, ma ne disconosce le virtù che la sottintendono, anzi ne rimprovera l’assenza. Invidia? Chissà se avrebbe applaudito il Duce apparire con in una mano il libro e nell’altra il moschetto…).
Guerra dell’intelletto ai nemici dell’intelletto, ma anche lotta mortale alla pretesa di essere l’intelletto la ‘Dea Ragione’ d’ogni agire. L’irrompere di Nietzsche, disperato e folle, martello e dinamite gli strumenti del filosofare, questa deriva dell’irrazionale ove il filo spinato la mitragliatrice i gas venefici diventano ‘opere d’arte’ e le trincee a Verdun o tra le aspre rocce del Carso i camminamenti fango pidocchi orbite vuote ossa spezzate carne lacerata tappe di un immenso museo dell’orrore – ‘Per qualche centinaio di statue rotte, – Per poche migliaia di libri a brandelli’ –. Così l’uomo si fa nemico dell’umano si rende con una lamentazione non con uno schianto. Tradire il proprio ruolo, vergine pudica e altera e sdegnosa, scendere in strada – ‘battete in piazza il calpestio delle rivolte’, urla il futurismo russo, ad esempio –, ecco l’impegno nuovo dell’intellettuale.
Non contano più le idee in sé ma le opinioni – ben intendendo le proprie ‘universali’ e arricchite da presupposti e finalità morali, quali la Patria o la Classe o la Razza e, la più facile da spendere, la Libertà (quella a stelle e strisce con la Bibbia in mano e il cuore a forma di dollaro, poi, s’è dimostrata vincente). L’importante che per esse si sappia ben spargere il sangue (altrui). D’altronde dove risiedono le idee? Non più in un luogo altro ed alto, ma quale febbre della mente sogni incubi pulsioni rancori e quanto più proviene dagli occhi dall’eco di voci – armonie, più spesso, note stonate e suonate su una nota sola – dagli oscuri meandri del corpo. La tigre che è in noi e che si fa pronta a sbranare sbranarci…
Così, a vario titolo, gli emuli di Nietzsche e dintorni. Penso a Marinetti e D’Annunzio in Italia; a Sorel e Péguy in Francia, ad esempio. Intanto gli algidi sostenitori del pensiero fattosi degno solo di se medesimo – come il Benda, appunto – percorrono da funamboli in scarso equilibrio l’autonomia della razionalità in sé con l’aderire alle cose del mondo, giustificandosi che essi mantengono fissa la barra sull’eterno vero e il giusto e il bello. E, come Benedetto Croce, determinano le leggi che guidano, esse sole, lo svolgimento delle cose, il senso del divenire. In più occasioni, con paradosso solo apparente, gli schieramenti in lotta fra loro pretendono di applicare l’idea di Lenin come la conquista del territorio avvenga tramite la conquista delle coscienze… In fondo l’intellettuale organico prima (Gramsci) e l’engagement poi (ad esempio di J.P. Sartre) sono figli della stessa pretesa e del medesimo abbaglio.
Una fucina di caleidoscopi variopinti, sovente lavacro purificato dal sangue versato, di visioni bandiere barricate illusioni inganni, chi nelle trincee nelle dune del deserto fra la neve lungo sentieri di montagna angoli di strade in cielo sul mare, chi a vivere chiuso nella propria stanza trasformatasi in universo senza confini, tutti, però, eroi o vili, ‘faccia al sole e in culo al mondo!’, forse un po’ beceri e forse patetici, ‘immenso e rosso’, sbarre e chiavistelli, molotov e lacrimogeni, P38 e spranghe. La giovinezza dei nostri nonni, la terra che fu dei padri, un angolino di cielo riservatosi per alcuni di noi, involontari sopravvissuti, relitti di naufragio…
(Uso il termine ‘periglioso’ – ultimo anno da insegnante –. Alessandra mi chiede cosa voglia dire. Ha almeno la curiosità del domandare. Cerco di spiegare che è una sorta di sinonimo di ‘pericoloso’, forse ormai desueto. Dall’ultimo banco, polemico, Paolo ribatte che dovrei parlare come mangio. Lo mando a ‘fanculo’ senza metafora… Però mi scorrono immagini di vascelli in lotta fra loro e contro gli elementi – il vento e le onde che vorrebbero scassare e trascinare a fondo i fragili legni – e penso a queste scene ‘perigliose’ che nessuno potrà più descrivere!).
Rettori di venti e più università e professori d’ogni ordine e grado e da ogni cattedra e studiosi del linguaggio, anche di recente, hanno sollevato timori reprimende grida di dolore ammonimenti strazi e lagne per il degrado della ‘nostra’ lingua, per il suo impoverimento – ormai utilizziamo intorno a duecento parole e ne comprendiamo forse meno –. Congiuntivi e condizionali spazzati via; parole troncate uso sms; basta comunicare ‘a viva voce’ (affascinanti immagini di coppie, il giorno di San Valentino, che neppure si guardano negli occhi, mentre ognuno digita sul proprio cellulare)… E, allora? I nostri libri con la carta che s’ingiallisce e il profumo inconfondibile? In quale cimitero, oscuro e polveroso archivio, scantinato della memoria finiranno la storia di uomini che furono confusi dalle parole vi giocarono nella mente l’affidarono a mani cuori gambe ardite come squilli di tromba in imminente attacco?
Ho trovato alfine l’espressione giusta: relitti di naufragio. Noi stessi. Eppure ‘Amore e Coraggio non sono soggetti a processo’…