1) Una disputa
Il titolo sintetizza, parafrasando, la pesante accusa contenuta nel libro “Alātaśānti. L’Advaita Vedānta e i suoi più consueti travisamenti[1]”. L’autore è Carlo Rocchi, ma il testo comprende citazioni di vari autori, del gruppo “Veda Vyāsa Mandala” (e del blog di Ekatos edizioni; da qui in avanti abbreviati in “VVM”), che si era costituito con l’obbiettivo di divulgare al pubblico occidentale l’autentica dottrina indù del non-dualismo assoluto, così come insegnata dai fondatori della scuola e dagli attuali esponenti della successione regolare.
Così facendo VVM è entrato in conflitto con i tradizionalisti guenoniani della “Rivista di studi tradizionali” di Torino. Il libro testimonia di una polemica intellettuale vivace tra i due gruppi, a volte su questioni di dettaglio o viceversa generalissime (es. se l’esoterismo islamico sia o meno equivalente alla dottrina advaita) che qui non interessano. E invece molto interessante il punto centrale del confronto, un giudizio di VVM così espresso: “Crediamo che l’opera di Guénon sia un riferimento utilissimo per la formazione di tutti, seppur si constata un approccio per alcuni versi, qualora lo si osservasse da una prospettiva puramente advaita, limitato alla Aparabrahman vidyā[2]” (cioè alla conoscenza non-suprema).
Gli autori VVM dimostrano un’eccellente conoscenza sia dei testi sacri (upanishad) e dei commenti (Śankara in primis), sia della dottrina advaita per come è insegnata attualmente, nei monasteri sankariani e dai guru contemporanei (in particolare Satchidānandendra Saraswatī [3]); come dimostra la molteplicità delle citazioni e l’abbondante uso di terminologia “tecnica” in sanscrito. Dal punto di vista della “competenza” sull’argomento c’è ben poco da opporre, e anzi è utile avvalersi di questa preziosa testimonianza “dall’interno” della tradizione indù. Resta però da capire se gli autori abbiano ragione nel merito: cerchiamo di chiarire i termini della questione.
2) Advaita Vedānta
Il Vedānta è una delle sei scuole classiche, ortodosse, del brahmanesimo, di orientamento mistico-metafisico. Fine dei Veda, ossia insegnamento sulla parte conclusiva della letteratura vedica, costituita dalle upanishad. Il testo di riferimento è il Brahmasūtra.
All’interno del Vedanta, molte scuole e maestri hanno definito la propria posizione come “advaita”, ossia “non-dualismo”. La scuola advaita più illustre e importante è quella di Śankara (vissuto forse VI-VII secolo d.c.) denominata kevalādvaita, ossia “non-dualismo assoluto”.
Altre scuole hanno professato un non-dualismo qualificato o relativo: Rāmānuja, Vallabha, Nimbārka ecc. Vi è poi un orientamento esplicitamente dualista (Madva). La scuola sankariana si distingue per la peculiare teoria dell’illusorietà del mondo, rifiutata da tutti gli altri orientamenti. Il pensiero di Sankara ha generato interpretazioni leggermente divergenti su alcuni punti: si ritiene che la linea di insegnamento più fedele ed autentica sia quella Gaudapāda-Śankara-Sureśvara.
I principi fondamentali del kevalādvaita sono:
1) La non-dualità dell’Assoluto. L’Assoluto è Uno senza secondo. È indeterminato, privo di attributi (Brahman nirguna), così distinguendosi dal Dio creatore del teismo, caratterizzato da attributi positivi al massimo grado (Brahman saguna). È incondizionato, sciolto da ogni relazione empirica (tempo, spazio, causalità).
“Ciò che ha l’apparenza della generazione, ciò che ha l’apparenza del movimento e egualmente ciò che ha l’apparenza della sostanzialità, è senza nascita, immobile e insostanziale, pacificato e non duale”[4].
2) L’irrealtà del mondo. Conseguenza del primo principio: la manifestazione, il mondo, non esiste realmente, è un’illusione cosmica (maya), frutto di ignoranza (avidyā). Per la precisione è conseguenza di una sovrapposizione (adhyāsa) di un oggetto illusorio (il mondo) su un sostrato reale (il Brahman), come quando nella penombra si scambia erroneamente una corda per un serpente. “Come una corda che, non venendo accertata nell’oscurità, è variamente immaginata come oggetti quali un serpente, un rigagnolo d’acqua ecc., così l’Ātman viene variamente immaginato”[5]. La realtà autentica (la corda) viene velata, e su questa la mente umana proietta l’illusione del serpente.
Il concetto di “ignoranza” evidentemente va inteso in senso lato: non è un mero fraintendimento o non-sapere, è un’ingannevolezza dei sensi a cui si presta fede, come gli oggetti duplicati visti da chi soffre di displopia. Il mondo dei nomi e delle forme è una falsa parvenza, come il gioco di prestigio di un mago o come un sogno. Infatti non c’è sostanziale differenza tra lo stato di veglia e di sogno. “Come gli oggetti interni circoscritti nel sogno sono non reali, allo stesso modo sono non reali gli oggetti allo stato di veglia”[6].
3) L’identità tra Sé e Assoluto. Il proprio vero “io” non è il corpo, i sensi, la mente, il senso dell’ego ecc. (illusori come tutti i fenomeni), ma appunto il Sé (Ātman), che è l’Assoluto. Esso è identificato con la pura Coscienza (Cit), cioè coscienza priva di contenuti, senza rapporto soggetto/oggetto (come nel sonno profondo, considerato lo stato coscienziale più simile a quello indifferenziato); è il Testimone (sāksin) non coinvolto dai fenomeni. Ogni contenuto della percezione è irreale, così come il soggetto empirico che percepisce: è reale, perché permanente, la consapevolezza. Il Sé è autoevidente e intuitivo: lo si trova, per esclusione, al termine di una discriminazione che elimini tutte le false identificazioni.
Si tratta di fatto una forma di idealismo, seppur differente dall’idealismo della scuola buddista vijñanavāda (criticato da Śankara), così come dai vari idealismi occidentali. Infatti gli oggetti esterni, il mondo fisico, vengono ridotti a proiezioni mentali (false), a rappresentazioni soggettive dell’individuo, a cui non corrisponde alcun referente. Tutto esiste nella Coscienza universale, nulla esiste oggettivamente.
La salvezza si ottiene (non con l’azione, la devozione ecc. ma) tramite la conoscenza. È una via della gnosi. Una volta riconosciuto l’errore, venuta meno l’ignoranza, si riconosce che c’è solo la corda: il serpente scompare, o meglio il serpente non è mai esistito.
Tramite la conoscenza la liberazione può avvenire in questa vita (jīvanmukti) senza che l’unione (fittizia) con il corpo sia di ostacolo. Non si tratta di esercitare una disciplina spirituale per ottenere un risultato, ma di riconoscere che si è già da sempre liberi. “Questa è la suprema verità: non vi è né nascita né cessazione di essere, né aspirante alla liberazione, né liberato, né alcuno che sia in schiavitù”[7]. Il ciclo delle rinascite (samsāra) è superato in quanto illusorio.
3) Posizione di Guénon
L’esoterista Renè Guénon, come è noto, contrapponeva l’Oriente, rimasto fedele alla Tradizione, all’Occidente moderno che, distaccatosene per inseguire il progresso materiale e la visione scientifica, sembrava incamminato verso la crisi e la dissoluzione. Nell’ambito delle civiltà orientali, aveva studiato approfonditamente la tradizione indù, dedicandovi più libri. Aveva massima considerazione del Vedanta, che considerava “una dottrina puramente metafisica aperta a possibilità di concezione veramente illimitate”. D’altra parte riteneva impraticabile per un contemporaneo ricollegarsi a tale forma tradizionale, per cui poi, come sappiamo, si convertì all’Islam trasferendosi al Cairo.
Pur senza distinguere tra il kevalādvaita e le altre scuole, Guénon ha descritto e approfondito le principali dottrine vedantiche.
Sul rapporto finito/Infinito, che è l’oggetto della disputa, così si esprime: “Mentre l’Essere è «uno», il principio supremo, nominato Brahma, può solo essere detto «senza dualità» perché, essendo al di là di ogni determinazione, anche dell’Essere, che è la prima di tutte, non può essere caratterizzato da alcun termine positivo: così esige la sia infinitezza, che è necessariamente la totalità assoluta, comprendente in sé tutte le possibilità. Non c’è dunque nulla che sia realmente fuori di Brahma, poiché questa supposizione equivarrebbe a limitarlo; come conseguenza immediata il mondo, intendendo con questa parola, nel suo significato più ampio, l’insieme della manifestazione universale, non è affatto distinto da Brahma, o almeno se ne distingue solo in modo illusorio. D’altra parte, tuttavia, Brahma è assolutamente distinto dal mondo, non convenendogli nessuno degli attributi determinativi che si possono applicare al mondo, dato che l’intera manifestazione universale è rigorosamente nulla rispetto alla sua infinitezza; si noterà che questa irreprocità di relazione implica la condanna formale del «panteismo», come pure di ogni «immanentismo»[8].
L’infinito non si contrappone e non annulla il finito, ma lo ricomprende. Sono gli stati molteplici dell’Essere: “la Realtà s’afferma per gradi ma senza smettere di essere una, i gradi inferiori di questa affermazione essendo assorbiti, per integrazione o sintesi metafisica, in quelli superiori”[9].
Similmente si sono espressi gli autori della “Rivista di studi tradizionali”, nel corso della disputa: “Tutte le tradizioni metafisiche sostengono che la molteplicità della manifestazione non ha in sé una realtà autonoma, ma al tempo stesso affermano che il mondo non è del tutto irreale”. E: “In nessun caso il Necessario può divenire contingente o l’Assoluto relativo, ci dicono ripetutamente i maestri del Sufismo, ma ciò non significa che il relativo non abbia una sua realtà, relativa appunto”. Il Vedanta “afferma parimenti che il mondo è illusorio (mythyā), vale a dire una situazione intermedia tra l’irreale (asat) e il reale (sat), perché è un puro nulla se confrontato con la Realtà assoluta del Sé supremo, ma non è neppure una mera impossibilità – come il figlio di una donna sterile o il corno di una lepre, direbbe Shankarāchārya – perché possiamo oggettivamente percepirlo”[10].
Questa è anche l’interpretazione prevalente del Vedanta in ambito divulgativo e accademico. “Il mondo non è, semplicemente appare, in un limbo ontologico tra l’assoluta realtà dl Brahman e l’assoluta irrealtà del nulla”[11].
Riassumendo, secondo l’interpretazione “relativista”, il mondo gode di una realtà relativa: non è autonomo, non è esterno o distinto, è nulla ma solo “rispetto alla Realtà suprema”.
Il concetto di illusione così concepito appare universale alle varie tradizioni spirituali. L’idea che solo la Realtà divina esiste veramente, mentre l’universo naturale ne è un semplice riflesso, si ritrova nel misticismo cristiano, nel sufismo islamico ecc. Già per Platone l’uomo comune vive nella caverna dell’ignoranza, dove percepisce solo ombre, in quanto le cose sono ombra delle Idee.
Il valore dell’opera di Guénon, a mio parere, sta proprio in questo: non tanto nell’aver fornito l’interpretazione esatta e indiscutibile di ogni singolo aspetto delle varie dottrine tradizionali, ma nell’aver trovato la radice comune a tutte nella Tradizione primordiale, che consente di individuare gli innegabili punti di contatto.
4) Critiche
Tale interpretazione, del mondo come “relativamente” reale/irreale, è fortemente contestata dagli autori VVM, che la denunciano come un fraintendimento dell’advaita Vedanta. Guénon e i guenoniani, secondo la critica, applicano lo schema metafisico Principio/manifestazione: il mondo è una determinazione, un riflesso del Principio, un effetto seppur inseparabile dalla causa. Uno schema che potremmo chiamare “emanazionista”, per indicare un parallelismo con la tradizione occidentale a cui più assomiglia, il neo-platonismo.
Per Śankara, invece, la polarità è piuttosto tra Conoscenza e ignoranza (avidyā), tra Sé e non-sé. L’Assoluto non è principio di nulla, non entra in rapporto col mondo, per il semplice motivo che quest’ultimo non esiste; così come non ci sono rapporti tra il serpente illusorio e la corda reale.
Il finito, il molteplice, il temporale, il relativo non sono semplicemente ridotti e ricondotti all’Infinito, all’Unità, all’Eterno, all’Assoluto: sono del tutto rimossi, aboliti, contraddetti; non si tratta di osservare il mondo in trasparenza, o di trovarne il Fondamento, ma di abolirlo. D’altra parte, se il mondo fosse in qualche misura reale, non potrebbe essere dissolto dalla conoscenza (che dissolve appunto gli errori, non i fatti).
Parlare di “realtà relativa” è contraddittorio, perché si immagina qualcosa che è e non-è insieme. Il mondo fenomenico può esser detto “relativo” in un unico senso, di relativo a chi lo percepisce, cioè a chi è affetto da ignoranza e lo crede reale. La dualità non c’è e nemmeno “appare” al risvegliato, ma sembra essere e apparire per chi commette l’errore della sovrapposizione (adhyasa).
Contro il modello emanazionista vengono sollevate in particolare due obbiezioni:
1) Contraddirebbe non-dualismo: il Brahman è Uno senza secondo, e non il primo di una serie.
2) Implica una trasformazione di natura, in quanto la Realtà suprema assumerebbe in tutto o in parte le qualità della manifestazione. “E’ per mezzo di maya (cioè illusoriamente) che questo Ātman non-nato può differenziarsi e in nessun altro modo, perché se la differenziazione fosse reale, allora l’immortale diverrebbe mortale”[12]. È la classica obbiezione che in Occidente il creazionismo portava contro il panteismo.
Non si può attribuire al Brahman una duplice natura, derivante dal possesso di due aspetti, uno manifesto e l’altro immanifesto. L’Assoluto è concepito come semplice, omogeneo, privo di parti o aspetti. Il punto di vista supremo ed empirico non si integrano, in una gerarchia, ma si escludono l’un l’altro.
5) Parmenide
Così descritto, l’advaita Vedānta rappresenta, per la radicalità dell’impostazione, un unicum sia all’interno della tradizione indiana, sia rispetto al pensiero occidentale. Con un’eccezione: Parmenide, il quale in stile poetico aveva sostenuto un’analoga prospettiva.
Il filosofo greco, come è noto, parte dal principio per cui l’essere è e non può non essere, mentre il non-essere non è e non può essere. L’uomo può dunque percorrere due vie: la via della verità, fondata sulla ragione, porta a conoscere l’essere, mentre l’opinione (doxa), basata sui sensi, che ammette il non-essere accanto all’essere, conduce all’apparenza.
L’Essere è uno, ingenerato, incorruttibile, immutabile, immobile, indivisibile. L’apparenza mostra invece il divenire e la pluralità delle cose. Egli non utilizza la parola “illusione”, ma il monismo assoluto implica logicamente un principio di illusione. “Perciò tutti nomi saranno quelli che hanno posto i mortali, credendo che fossero veri: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore”[13].
Il discepolo Zenone elaborerà gli argomenti contro il movimento e la molteplicità. Melisso aggiungerà che l’essere è infinito. Così si conclude la scuola eleatica: il non-dualismo in Occidente, a differenza che in India, ha rappresentato una dottrina minoritaria e priva di successori (tantoché delle opere ci restano solo frammenti).
6) Severino
Un epigono moderno di Parmenide può essere considerato Emanuele Severino. Secondo il filosofo italiano, il principio parmenideo, che l’essere è e il non-essere non è, implica il rifiuto del “nichilismo”, che consiste nel pensare che l’ente è niente, che le cose provengono dal nulla e ritornano al nulla. In verità, questa la sua tesi, tutti gli enti sono eterni. Il divenire in senso nichilistico è una cattiva interpretazione dell’esperienza: in realtà l’esperienza attesta soltanto il comparire e lo scomparire degli enti (dall’orizzonte conoscitivo dell’uomo); lo sparire non deve essere inteso come un annientamento.
Severino era discepolo del meno noto Gustavo Bontadini, filosofo cattolico neotomista, da cui aveva ricevuto l’intuizione iniziale della propria riflessione. Bontadini aveva escogitato una sorta di “nuova prova” dell’esistenza di Dio, basata sull’idea che il divenire, se considerato come originario, sia contraddittorio, in quanto in esso il non-essere sembra limitare l’essere. Vi è quindi un’antinomia tra il responso della ragione (il “principio di Parmenide”), secondo cui l’essere è e non può non essere, e il responso dell’esperienza, che attesta il divenire del mondo. Il “teorema della Creazione”, sintesi di tesi e antitesi, risolve la contraddizione: l’Essere crea il divenire.
Secondo Severino si tratta di una falsa soluzione: il divenire (in quanto essere che esce da nulla e vi ritorna) resta assurdo, anche se creato. Tra i due nascerà una disputa intellettuale che durerà per anni [14], senza che le rispettive posizioni trovino una conciliazione. Bontadini obbietta alla tesi di Severino dell’eternità di tutti gli essenti: se la totalità è immutabile, come possono le cose “entrare e uscire” (due verbi di movimento) dal cerchio dell’esperienza? Vale a dire, il divenire, se anche non coinvolgesse il mondo, coinvolge perlomeno la nostra coscienza e i suoi contenuti.
Severino replica all’obbiezione in modo paradossale: anche “l’apparire” è un essente, quindi anch’esso è eterno, anch’esso è anche quando non appare. Perciò non solo il cibo che sto mangiando è eterno (esisteva anche prima di cucinarlo ed esisterà anche dopo averlo consumato) ma è eterna altresì la relativa sensazione gustativa, anche quando non la percepisco. Si noti la figura ossimorica dell’apparenza che non appare (che è un po’ come un pensiero non pensato…).
Severino coinvolge nell’accusa di nichilismo l’intera filosofia occidentale, e in parte persino lo stesso Parmenide, laddove questi separa le determinazioni dall’Essere, ossia concepisce l’essere non come l’insieme degli enti, ma come ciò che sta oltre; così riducendo gli enti ad apparenza, al nulla. Qui emerge la differenza fondamentale tra Śankara e Severino (si parva licet): nel kevaldāvaita il mondo è illusorio e irreale; per il filosofo italiano il mondo è reale, è illusorio il suo divenire.
A quanto pare il pensiero occidentale, quando tenta di superare la concezione dualista dell’Assoluto come solo trascendente, ricade in una qualche forma di panteismo (come già Spinoza).
7) Contraddizioni
Aiutati da questa digressione, torniamo alla questione principale, sulla correttezza o meno dell’interpretazione “relativista” ed “emanazionista” del Vedanta. Essa evidentemente sorge a causa di alcune aporie e oscurità presenti nella concezione sankariana.
Il problema principale, su cui hanno dibattuto lungamente i successori di Śankara, è come concepire avidyā (l’ignoranza metafisica). Come si spiega, da dove deriva, a chi appartiene, posto che solo l’Assoluto esiste? Avidyā non è una sostanza, è solo conoscenza erronea, un attributo (negativo), ma di chi ? Certo non appartiene al Brahman. Appartiene al jīva (l’individuo), deriva da una proiezione della mente in movimento. “Come un tizzone ardente posto in movimento sembra essere una linea dritta, curva ecc., così la mente in movimento appare essere il percipiente (soggetto) e il percepito (oggetto)”[15]. Tuttavia, l’individualità stessa è effetto di avidyā, e quindi irreale! La mente che proietta la dualità è essa stessa contenuta nella dualità. È un circolo causale impossibile: a proiettare una molteplicità illusoria è un soggetto esso stesso illusorio; il mondo è la fantasia di una fantasma[16]. L’obbiezione risale già a Rāmānuja.
In secondo luogo, occorre indagare il significato da attribuire ai termini “esistere” o “reale”, che non è univoco. Dal punto di vista metafisico, come direbbe Tommaso d’Aquino, solo Dio è, in senso pieno, mentre gli enti contingenti ricevono l’essere per partecipazione.
Nondimeno il mondo empirico, anche se illusorio, non può essere ridotto al nulla. Un miraggio, un sogno, un gioco di prestigio, una percezione erronea… non sono un nulla, sono pur qualcosa. Il nulla non è sperimentale, né pensabile, né dicibile. Il treno in arrivo alla stazione La Ciotat[17] dei fratelli Lumieres non esiste (più) in senso fisco, ma come immagine proiettata su uno schermo esiste eccome (la pellicola cinematografica è l’equivalente moderno del tizzone in movimento). L’unicorno non ha il medesimo livello di realtà di un cavallo, ma in qualche modo esiste.
Non è quindi assurdo definire quell’esistenza dimidiata, che viviamo quotidianamente, come una realtà “relativa”. Il kevaldāvaita stesso, consapevole dello status ontologico ambiguo e problematico della manifestazione, l’aveva designata come “indescrivibile” (anirvacanīya).
8) Questioni linguistiche
Sorge è il sospetto che la disputa, tra inesistenza assoluta o relativa del mondo fenomenico, sia più linguistica che sostanziale.
Elémire Zolla, nel difendere contro l’opinione generale le ragioni del sincretismo, scrive: “Per il sincretismo le verità parziali delle filosofie e delle religioni finiscono col coincidere, come le linee dei quadri tutte confluiscono prospetticamente nel punto di fuga, chiave di volta dello spazio… Come per il pittore di prospettive l’occhio non è la visione, così per il sincretista la parola non è la cosa; è un ingenuo errore credere che linguaggio e verità possano coincidere, che esista mai un rapporto univoco e necessario tra le parole e ciò che essere designano, che significanti e significati siano mai sovrapponibili … Mai un’idea o una fede è circoscritta dai significanti: uguali professioni di fede in un unico dogma celano esperienze interiori opposte; un’identica esperienza interiore si può trovare espressa in dogmi opposti”[18].
Le parole sono segni, simboli (di tipo grafico o fonetico), che come tutti i simboli rimandano ad altro: veicolano tra due interlocutori un contenuto immateriale, il significato/l’dea, in modo necessariamente parziale e impreciso. Ciò vale per qualsiasi realtà, e a maggior ragione per la Realtà suprema, intrinsecamente inconcepibile e ineffabile.
Penso che occorra liberarsi dall’idolatria del linguaggio, assumendo nei suoi confronti un atteggiamento disincantato (il che spiega, nel presente testo, la scarsa preoccupazione per la perfetta trasposizione dei termini sanscriti). Se si dice che, rispetto all’Assoluto, il mondo “esiste” o “non esiste” tout court, si cade in contraddizioni in entrambi i casi: ci si scontra con i limiti del linguaggio e del pensiero discorsivo. Ma ciò non deve intimorire né indurre a negare una parte della verità.
9) Varietà delle formulazioni
Georges Vallin, filosofo francese influenzato da Guénon, distingue tra la metafisica integrale (la Tradizione) e la metafisica sistematica, quell’ “onto-teologia” praticata in Occidente da Aristotele in poi. Tale “cattiva metafisica” è limitata, astratta, dogmatica e sistematica.
Viceversa “la prospettiva metafisica non è un sistema, ma una visione dell’Essere e del Mondo che non potrebbe, in virtù della sua illimitatezza interna o della sua universalità, essere imprigionata nei limiti di una formulazione qualsiasi. Le dottrine, che noi crediamo dover ricollegare a questa prospettiva, non sono che dei veicoli occasionali e dei trampolini verso una verità che manda in frantumi il quadro dei sistemi e delle esposizioni sistematiche”[19]. La formula come supporto per l’inesprimibile. Questo spiega e giustifica la diversità delle espressioni dottrinali nelle varie tradizioni spirituali.
“L’illimitatezza stessa della prospettiva metafisica… esclude certamente da una lato il rigore sistematico dell’espressione dottrinale, e dall’altro l’identità formale di questa espressione nei suoi diversi rappresentanti”[20]. Le formulazioni “non sono tanto delle espressioni definitive e rigorosamente adeguate all’oggetto che esse considerano – questo rigore si manifesta qui rigorosamente impossibile – quanto dei simboli destinati a veicolare l’intuizione intellettuale”[21]. Intuizione intellettuale “che potremmo definire in modo generale l’appercezione della coincidenza degli opposti”. Viceversa “il dogmatismo… si caratterizza essenzialmente per l’impotenza ad oltrepassare certe opposizioni, ma anche a risolverle, se non in maniera esclusiva, massiccia e unilaterale”[22].
La scelta di una formulazione piuttosto che un’altra non intacca la profondità della dottrina, e dipende da vari fattori, storici culturali e anche psicologici. Alcune forme sono più adatte a certi popoli, a certe epoche, o a certi tipi umani, e hanno differenti effetti nella pratica. La formulazione “assolutista” del rapporto finito/Infinito conduce in un’unica direzione, quella ascetico-contemplativa (se il mondo non esiste in toto ogni azione appare priva di senso). La formulazione “relativista” consente maggiori possibilità pratiche e viene incontro a plurime vocazioni: rende ragione dell’esistenza degli altri (piuttosto problematica all’interno di un’impostazione idealista) e lascia spazio all’etica, alla politica e alla storia.
La Verità, unica ma inesauribile, non può essere enunciata una volta per tutte e in un unico modo (da una singola scuola, sia pure il kevaldāvaita, o da un singolo pensatore, sia pure Guénon): occorre mantenere uno spirito di apertura per riconoscerla nelle sue infinite espressioni.
NOTE
[1] Carlo Rocchi, Alātaśānti, L’Advaita Vedānta e i suoi più consueti travisamenti, Ekatos 2022
[2] Alātaśānti cit., p. 9
[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Satchidanandendra_Saraswati
[4] Gaudapāda, Māndūkyakārikā Upanisad (Commento in versi alla Māndūkya upanishad), Bompiani 2016, 4.45
[5] Gaudapāda, cit, 2.17
[6] Gaudapāda, cit, 2.4
[7] Gaudapāda, cit, 2.32
[8] R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi 1989, p. 201. In modo identico si esprime in L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Adelphi 1992, p. 73
[9] F. Schuon, Unità trascendente delle religioni, Ed. Mediterranee, 1997 (Schuon, come noto, era allievo di Guénon)
[10] https://m.facebook.com/groups/gruppo.scienza.interiore/permalink/1231777167159665/
[11] Alberto Pelissero, Filosofie classiche dell’India, Morcelliana 2014, p. 312
[12] Gaudapāda, cit, 3.19
[13] Frammento 8
[14] G. Bontadini, E. Severino. L’essere e l’apparire. Una disputa. Morcelliana 2017
[15] Gaudāpada, cit., 4.47
[16] Come nel racconto di Borges “Le rovine circolari”, in cui un mago dà vita sognando a una creatura onirica, per scoprire infine di essere egli stesso il sogno di qualcun’altro
[17] https://www.youtube.com/watch?v=9B1a7-JR0BU
[18] E. Zolla, Verità segrete esposte in evidenza, p. 9-10, Marsilio 1990
[19] G. Vallin, La prospettiva metafisica, Victrix 2007, p. 117
[20] G. Vallin, cit., p. 138
[21] G. Vallin, cit., p. 143
[22] G. Vallin, cit., p. 166
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