1 Gennaio 2025
Cultura

Renzo Giorgetti ‘Com’è difficile cavalcare la tigre’, Chieti, Solfanelli, 2020

Non sarebbe eccessivo indicare nell’“Occidente Collettivo”, mutuando la nota e, a parer nostro, calzante espressione di Vladimir Vladimirovič Putin, un Potere unico e totalitario, tendente a imporre con tutti i metodi a sua disposizione, finanche quelli più brutali, la propria brama egemonica, al fine di ostacolare le montanti pulsioni multipolari di colossi militari ed energetici (Federazione Russa) ed economici e manifatturieri (Repubblica Popolare Cinese o PRC). La domanda che sorge logica quanto necessaria è: quali sono gli strumenti migliori per organizzare una difesa il più possibile incisiva e quali gli orientamenti esistenziali ideali e pratici da assumere di fronte a una realtà in continuo e indecifrabile mutamento? Prova con una certa efficacia a fornire le risposte a interrogativi tanto ostici quanto complessi Renzo Giorgetti con questo suo ultimo lavoro, tornando a uno dei suoi principali campi di interesse; ossia, la critica della Weltanschauung della modernità, stigmatizzandone soprusi, vizi e intenti manipolatori sul piano mentale e spirituale.

Conoscendo molto bene le posizioni di un autore/polemista col quale abbiamo anche avuto il piacere di vergare assieme un volume sul celeberrimo Uomo Pipistrello dei comics statunitensi (BATMAN. Le origini, il mito, Chieti, Tabula fati, 2022), non siamo punto sorpresi di constatare come in questo suo altro scritto si evitino accuratamente la inutile denuncia e i luoghi comuni della cosiddetta “area del dissenso”, proponendo per converso alternative concrete per intraprendere quella edificazione personale tanto cara a Julius Evola (1898 – 1974), il quale, come chi non è digiuno del Pensiero Tradizione si sarà accorto, viene richiamato, per mezzo di una delle sue opere più conosciute, nel titolo stesso del libro. A tal proposito, nel lavoro di Giorgetti i riferimenti al grande filosofo e, come andiamo lungamente sostenendo, parimenti orientalista italiano non sono preponderanti. Questo potrebbe spiazzare il lettore interessato a queste complicate tematiche intellettuali e iniziatiche, provocandogli persino una sorta di delusione. Francamente, un siffatto stato d’animo non renderebbe giustizia a un libro quale Com’è difficile cavalcare la tigre, giacché in esso determinate prospettive tradizionali vengono collegate alle più cogenti istanze della attualità, affrontate, e qui è individuabile il precipuo valore del volume, con una esegesi squisitamente personale delle varie problematiche insite nella modernità, senza ancorarsi continuamente alle riflessioni del suddetto Evola o del francese René Guénon (1886 – 1951), gli unici due pensatori “integrali”, per dirla col linguaggio appartenente a questa particolare corrente filosofica. Un contributo, quindi, propositivo, quello offerto da Giorgetti, che guarda in avanti e oltre la apparente ineluttabilità di questo “imbrunire” della coscienza dell’uomo massificato e mercificato, abbracciando categorie per l’appunto evoliane.

Pagina dopo pagina, si propone comunque una “alternativa pratica” (7), la quale non può non rimandare a due sommi scritti di Evola: Rivolta contro il mondo moderno (1934) e, ovviamente, Cavalcare la tigre (1961). Quello che si critica – aggiungiamo giustamente – è un occidente negativo: “[…] inteso come affermazione di una realtà crepuscolare, tenebrosa, ormai declinante” (13). Il passo è breve, per richiamare le considerazione di Oswald Spengler (1880 – 1936) ne Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (“Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte”, 1918 – 1923), constatando che le previsioni del pensatore tedesco si sono fatalmente e impietosamente avverate. Giorgetti si mostra consapevole del deterioramento delle nostre società “avanzate” e la sua reazione sta tutta in questo piccolo, benché assai denso nei concetti, libro, da lui nobilmente inteso quale uno “strumento” per restare sempre, “[…] antichi senza mai diventare vecchi” (8), sostenendo, forse inconsciamente, la visione della esistenza di “Mahatma” Gandhi (1869 – 1948), condensata nella silloge postuma in italiano dal titolo: Antiche come le montagne. La vita e il pensiero di M. K. Gandhi attraverso i suoi scritti.

L’autore professa, o forse più intimamente si augura, l’avvento di un uomo Ur-storico, diretta manifestazione dell’archetipo, in coincidenza con il Dharma personale; esempio ne è la Dea egizia Maat – coincidenza di giustizia-ordine-dovere – che ha come simbolo una piuma. In altre parole, il dovere, principalmente verso se stessi, è leggerissimo se conforme al proprio vero essere. Pare che Giorgetti voglia fare il verso, però al rovescio, al bislacco concetto di Ur-fascismo paventato anni fa da quell’Umberto Eco (1932 – 2016) pervicacemente acclamato dalla élite intellettuale progressista italiana. Quello che invece si auspica l’autore, in piena consonanza con le posizioni filosofiche della Tradizione, è il recupero di una dimensione di completezza, giacché l’uomo si trova parcellizzato in mille elementi, col risultato di non avere più una identità, incapace di riconoscersi in alcunché.

Nei vari ragionamenti qui proposti, emerge la ferma convinzione di Giorgetti che la “società del progresso” vive in modo complice la finzione democratica, argomento da lui trattato in Demofagia (Chieti, Solfanelli, 2017), la quale connota l’“Era Mercantile” (48), riferendosi al concetto base dello storico e sociologo transalpino Augustin Cochin (1876 – 1916), espresso in Meccanica della rivoluzione (“La Révolution et la libre-pensée. La Socialisation de la pensée (1750-1789). La Socialisation de la personne (1789-1792). La Socialisation des biens (1793-1794)”, 1924). In effetti, ed è un altro aspetto di originalità di questo lavoro, i riferimenti non sono i soliti di marca filosofica, bensì vengono attinti da contesti maggiormente “politici” come la Sociologia e la Storia.

Precedentemente all’avvento della Rivoluzione Industriale prima e del Liberismo poi, vi era nella società occidentale una concezione in fin dei conti positiva della Economia (40), come il politologo e presule italiano Don Curzio Nitoglia in alcun suoi interventi ha ripetutamente evidenziato, segnalando la differenza con il concetto speculativo del mondo capitalista, rispetto a un passato ove con “Economia” (lat. Oeconomĭa dal grec. Oἰκονομία; parola composta di οἶκος “dimora” e –νομία “-nomia”) si intendeva: “la amministrazione della casa”; sarebbe a dire, la Prudenza che si occupa del bene comune (cfr. Curzio Nitoglia, articolo in Rete: http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV3686_Nitoglia_Famiglie_Alta_finanza_3.html).

Ciò era alla base del Diritto nel Medioevo, evolutosi nel Giusnaturalismo, quando la dottrina giuridica affermava l’esatto contrario delle teorie delle studioso austriaco di confessione ebraica Hans Kelsen (1881 – 1973), con la sua strenua difesa del Positivismo e, in generale, delle posizioni di tutta la scuola amministrativista francese e, in parte minore, tedesca, figlie del Centralismo Giuridico di stampo illuminista, per cui la norma prevale draconianamente sui naturali diritti dell’essere umano.

Da qui si è giunti al nodale passaggio alla “Terza Era”, che il filosofo anglo-irlandese Edmund Burke (1729 – 1797), latore di una valorizzazione della società feudale, considerava come lo scioglimento ai dettami della Rivoluzione Francese (1789 – 1799), che diede vita in ultimo a quella dei nichilisti, degli economisti e dei calcolatori. Del resto, nell’ottica politica in cui si situa questo saggio, la modernità altro non è che: “tenebra amniotica” (50), icasticamente rappresentata nella odierna cultura dominante vicina alla massoneria da quella Era dell’Acquario che fu il ’68; un periodo, contrariamente alla tanto sbandierata liberazione dei costumi individuali, che instaurò l’Era “servile”, generando lo svilimento del sacro, in primis della famiglia/matrimonio.

D’altronde, lo sfaldamento del trascendente – la “irreligione occidentale” condannata da Augusto Del Noce (1910 – 1989) – trova la sua triste e fatale epitome nel discusso, e forse illecito, pontificato di Jorge Mario Bergoglio, con l’accentuazione di una emozionalità immatura e stolida, con la perdita di quel Logos stigmatizzata dall’autore: “La razionalità pura lascerà il posto a un sentimento […] moralistico, umanitario, consolatorio, che imporrà la bontà a tutti e sempre in nome della bontà distruggerà implacabilmente chi non vorrà adeguarsi, chi non vorrà fare parte della grande ‘famiglia planetaria’” (54).

L’aspetto curioso del libro risiede nel fatto che malgrado Evola non sia, come detto, molto citato, aleggia nelle pagine una sua persistente influenza, come si evince da questa dichiarazione programmatica, “Resta quindi esclusa ogni possibilità di collaborazione con le forze corruttrici e dissolventi della nostra epoca” (23), in piena consonanza con la totale e incorruttibile resistenza alla modernità che animava Evola. Infatti, nel pensiero del filosofo italiano, la società che si è venuta a creare a partire dalla Rivoluzione Francese non va emendata, ma semplicemente cancellata, invocando un effetto che potremmo definire: tabula rasa.

L’essere umano sarà macchina o insetto? Tale è la domanda posta da Giorgetti, la quale, di primo acchito, potrebbe ricordare alcuni distopici tòpoi tipici della Fantascienza, ma che è, alla luce della sparizione nel tessuto sociale delle Nazioni dei corpi intermedi – da non fraintendersi, si badi bene, con la borghesia – e, specialmente, memori di quanto accaduto col Covid-19, oramai legittima e ineludibile, poiché la lotta si va spostando dal campo della ideologia a quello della Biologia, favorendo le “forze entropiche del bastardismo” (61).

In questo volumetto di battaglia vi è una messa a nudo delle menzogne che ci propinano oggi i sedicenti buonisti. Già, considerato che dietro il dogma della eguaglianza si cela subdolamente il piano per la creazione di quel meticciato universale tanto caro al Conte nippo-austriaco Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi (1894 – 1972), padre del Paneuropäismus. Il semplice accorgersi che la Chiesa contemporanea possa rivolgersi anche solo lontanamente a una figura oscura, nel senso quasi tolkieniano del termine, come Kalergi, dà il polso di una situazione a nostro avviso assai inquietante, a tratti irreparabile. Eppure, se così fosse, un libro come questo non avrebbe senso, giacché esso vuole spronare a una ribellione contro un sistema disgregatore.

Lo storico della Economia, Carlo M. Cipolla (1922 – 2000), con la seguente affermazione: “L’uomo industriale è sottoposto a un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto” (Carlo M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 338), si sintonizza metaforicamente col succitato Burke, confermando altresì come questa condizione afflittiva perduri da secoli e che inoltre, se rettamente intese, le scienze economiche possono contribuire a rivelarne le storture, nonostante non spetti a loro trovare soluzioni, pena il rinnovamento del circolo vizioso del danaro. Consci, suggerisce Giorgetti, di non dover mai abbassare la guardia, e non essendo nostro compito né puntellarle né abbattere, ma con la giusta dose di distacco, osservare, onde trarre dalla contingenza i migliori vantaggi strategici, dobbiamo salvarci uno per uno, limitando, nel contempo, al minimo indispensabile i contatti e le dipendenze dal mondo intorno a noi.

Evola chiamava “uomo differenziato” colui in grado di riconoscere e aborrire la realtà attuale in tutta la sua illogicità, nonché estraneità alla natura profonda dell’Io. Questa voluta lontananza dal fattuale stato delle cose comporta l’inevitabile ritiro su una linea più interna di difesa, in una frontiera individuale. Il caos democratico è da tempo esplicito per chi ha occhi per vedere e intelletto per intendere, costituendo un ostacolo troppo faticoso da oltrepassare per la gente melensa che compone la nostra collettiva, ma non lo è affatto, ci sprona Giorgetti, per individui atti a istituire una monarchia della propria anima, cominciando a eliminare il nocivo quando umanamente possibile intervenire.

Il vero impegno, infatti, comincia adesso, con la formazione di una nuova aristocrazia, determinata, preparata, inaccessibile, che sappia mantenersi attiva; pronta ad adempiere al nobile compito di forgiare una alternativa che sarà valida in ogni caso, fosse pure solo come testimonianza. In altre parole, l’unico, autentico “privilegio” è quello di essere scomodi, inadatti a qualsivoglia compromesso con la società. Bisogna far sì che la tigre (la modernità) si stanchi e non divori il suo cavaliere. Lasciamo che gli indifferenziati – tutto l’opposto di ciò lodato in una persona da Evola – vengano sbranati, sfoggiando l’ebete sorriso di quelli che “non avranno nulla e saranno felici”, alla insegna del malefico progetto elaborato dalle consorterie di Davos. Il presente saggio lo si potrebbe riassumere con queste poche parole: “[…] non solo la normalità esiste ma che è anche una buona causa per cui impegnarsi” (62), e non è detto che “difficile” significhi forzatamente “impossibile”. “Portarsi non là dove ci si difende, ma là dove si attacca”, così Evola scelse di domare la tigre; proviamoci anche noi.

Riccardo Rosati

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