I) Premessa.
I Boeri – o Afrikaner – hanno rappresentato, nel corso della loro storia, un esempio di coraggio, per lo spirito identitario e la pervicace volontà di resistenza ad ogni tipo di assimilazione etnoculturale ad opera degli Inglesi, prima, e della popolazione aborigena, poi. Boer – che, in olandese, significa “contadino” – è il nome con cui si designa una vera e propria “nazione”, contraddistinta persino da una lingua propria – Afrikaans – derivante dall’olandese, con una forte commistione, sul piano lessicale, di inglese, tedesco e portoghese[2]. L’identità etnica dei Boeri – al di là delle origini europee – si è definita e sviluppata proprio nel Sudafrica e fin dall’inizio della colonizzazione di quel territorio ad opera della Compagnia olandese delle Indie orientali. Il 6 aprile del 1652, i primi coloni olandesi, guidati dal capitano Jan van Riebeek (†1677), sbarcarono nella Baia della Tavola – dove sarebbe sorta Città del Capo – con l’obiettivo di creare un piccolo insediamento commerciale per le navi olandesi in viaggio lungo la rotta per le Indie. Ben presto l’insediamento si ingrandì per l’afflusso di nuovi coloni europei di fede calvinista, perseguitati in patria. Agli Olandesi – la componente maggioritaria – si aggiunsero ugonotti francesi e protestanti tedeschi che, progressivamente, si amalgamarono tra loro – anche biologicamente – al fine di contrastare le avversità naturali e gli attacchi delle principali tribù aborigene del luogo: Khoikhoi e San. Gli Ottentotti e i Boscimani – come li chiamavano i Boeri – erano tribù di “cacciatori-raccoglitori” tra le più primitive dell’Africa sudoccidentale che, anche sotto il profilo linguistico, costituivano un unicum nel panorama etnologico africano. Abili guerrieri, diedero filo da torcere ai Boeri fino alla seconda metà del XVII sec., quando furono sottomessi. Intanto, dopo la conquista dell’Olanda da parte delle truppe francesi (1795) e la trasformazione in regno affidato al fratello di Napoleone Bonaparte, Luigi (†1846), l’Inghilterra – nemica della Francia rivoluzionaria – occupò la colonia, che le fu ufficialmente assegnata dal congresso di Vienna col nome di “Colonia del Capo” (1815)[3]. L’afflusso sempre maggiore di immigrati inglesi, l’introduzione dell’anglicanesimo e di leggi anglosassoni, spinsero i Boeri ad emigrare verso nord, in territori ancora più selvaggi e popolati da tribù ostili. Quando, nel 1834, fu proibita la schiavitù in tutto l’impero britannico, danneggiando gli interessi degli originari abitanti di Colonia del Capo – possessori di schiavi – circa 20000 Boeri intrapresero quello che, nella loro “memoria nazionale”, è ricordato come Die Groot Trek, “La Grande Migrazione”. Un’esigua minoranza – i Cape Dutch – invece, decise di non emigrare, adattandosi a vivere con i vicini anglofoni, mentre i Boeri che andarono via, si stabilirono a nord della Colonia del Capo, nelle valli dei fiumi Orange e Vaal, fondando tre repubbliche: Natal (1838), Transvaal (1852) e Orange (1854). Ma ciò non li mise al riparo dalla
II) L’Unione Sudafricana.
L’Inghilterra vittoriana, però, non poteva arrendersi davanti alla resistenza delle repubbliche e, così, vi fu incoraggiata l’immigrazione degli Uitlanders, avventurieri anglofoni provenienti da Colonia del Capo, ai quali i Boeri rifiutarono la concessione della cittadinanza e dei diritti politici nelle loro repubbliche. Nel 1895, il primo ministro della Colonia del Capo, Cecil Rodhes (†1902), promosse lo “Jameson raid”, un’incursione armata di coloni inglesi, guidata da Leander Jameson (†1917), che avrebbe dovuto favorire una sollevazione generale degli Uitlanders già residenti in Transvaal e Orange. Il raid fallì e Rhodes, sconfessato dalla regina Vittoria (1837-1901), dovette dimettersi, benché avesse completato la sottomissione degli Zulu e dei Xhosa e fondato un’altra colonia britannica: la Rhodesia[7]. Nel 1899, l’impero britannico decise di farla finita, scatenando una vera e propria guerra contro il Transvaal e l’Orange che, dopo la coraggiosa resistenza sotto la guida dei rispettivi presidenti, Paul Kruger (†1904) e Martinus Steyn (†1916), capitolarono nel 1902, sottoscrivendo la seconda pace di Pretoria (31 maggio). La guerra fu una vera e propria “guerra di sterminio” che costò la morte di più di 7000 Boeri, cui sono da aggiungere 20000 morti nei campi di concentramento inglesi ribattezzati, in lingua afrikaans – laager – parola che indicava il “cerchio di carri”, con cui i Boeri si proteggevano dall’assalto degli Zulu. L’Orange e il Transvaal furono allora incorporati nella Colonia del Capo e andarono a costituire una nuova entità statale, l’Unione Sudafricana[8]. Poiché l’Unione vantava un gran numero di abitanti europei e salde istituzioni amministrative, Londra le riconobbe il rango di dominion del Commonwealth britannico, cioè lo status di colonia dotata di ampia autonomia politico-amministrativa e di un proprio governo, presieduto da un primo ministro[9]. Nel frattempo, aumentava anche l’immigrazione di elementi indostani e malesi, provenienti da altre regioni dell’impero britannico e attratti dalle potenzialità economico-produttive del dominion. I Boeri, costituendo ancora la maggioranza della popolazione “bianca” dell’Unione, riuscirono ad esprimere le personalità che si alternarono al governo per gli anni a venire come Louis Botha, Jan Smuts e James Hertzog. Nonostante il paese fosse la colonia inglese più sviluppata dell’Africa grazie ai vasti giacimenti minerari, tra i Boeri continuò a serpeggiare l’odio per l’Inghilterra, com’è dimostrato dal fatto che l’ingresso nel primo e nel secondo conflitto mondiale al fianco del Regno Unito fu turbato da gravi sommosse, perché una fetta consistente degli abitanti era favorevole alla neutralità o, addirittura, ad un intervento al fianco della Germania. L’atteggiamento filotedesco dei Boeri era dettato dal senso di “comunanza di stirpe” con la Germania, unica potenza europea che, al tempo della guerra anglo-boera, fornì loro aiuti finanziari e militari contro l’Inghilterra. Nel 1915, comunque, l’esercito sudafricano riuscì ad occupare l’Africa sudoccidentale tedesca – odierna Namibia – che, annessa all’Unione ne condivise le sorti fino al 1989. Nel 1939, in occasione della guerra contro la Germania nazista, alcuni Boeri costituirono anche un movimento politico filotedesco – “La sentinella del carro dei buoi” (OB) – che, però, fu messo subito fuori legge[10]. Nell’Unione Sudafricana la vita politica si organizzò sul modello europeo con la nascita di partiti politici quali il Partito Nazionale (1914) e il Partito Comunista Sudafricano (1921) – che riunirono l’elettorato bianco – e l’African National Congress (1912), che riunì la maggioranza della popolazione di colore, diretto soprattutto dalla “borghesia nera”, ossia da quella parte minoritaria della popolazione autoctona urbanizzata e sufficientemente alfabetizzata[11]. La fondazione dell’Unione Sudafricana ebbe come effetto, col tempo, di smorzare le differenze e le aspre contrapposizioni tra i Boeri e gli anglofoni, favorendo la formazione di un vasto raggruppamento etnico e politico comprensivo di tutta la popolazione bianca che trovò, proprio nel National Party (NP), la formazione rappresentativa dei propri interessi, soprattutto nei confronti degli aborigeni.
III) La Repubblica e l’apartheid.
A partire dalle elezioni del 1948, il NP conquistò la maggioranza assoluta in parlamento, mantenendo ininterrottamente il governo del paese fino al 1994. In quegli stessi anni, con il varo di un’apposita legislazione, prendeva forma quel sistema giuridico-sociale che sarebbe stato noto come apartheid – termine afrikaans che significa “separazione” – prontamente condannato dalla comunità internazionale – ONU in testa – con il varo di misure di embargo nei confronti del Sudafrica[12]. A promuovere l’apartheid furono i primi governi del dopoguerra, guidati da Daniel Malan (1948-1954), Johannes Strijdom (1954-1958) ed Hendrik Verwoerd (1958-1966)[13]. Nel 1950, fu messo fuori legge il Partito Comunista – ostile alla politica di apartheid – mentre, nel 1960, fu sciolto l’African National Congress (ANC), in seguito ad una manifestazione non autorizzata della popolazione nera, tenuta a Sharpeville, poi degenerata in insurrezione e, con il “processo di Pretoria” (1963-1964), parte della dirigenza del partito venne condannata a severe pene detentive[14]. Il Partito Comunista Sudafricano sopravvisse in condizioni di clandestinità, continuando ad appoggiare, con la fornitura di armi e danaro provenienti dall’URSS, la guerriglia fomentata dalle formazioni paramilitari che facevano capo all’ANC[15]. Il 31 maggio del 1961, dopo tanti anni, con un plebiscito popolare, i Boeri ottennero la loro “vendetta” contro l’Inghilterra, proclamando la piena indipendenza del paese – che assunse il nome di Repubblica Sudafricana – e uscendo dal Commonwealth: la “patria boera” – Afrikanerdom – sembrò, allora, diventare realtà! Ma in cosa consisteva l’apartheid, aborrita da tutti, ma di cui pochi conoscevano la reale natura? In un periodo in cui si avviava il processo di decolonizzazione africana e gli Europei venivano estromessi da ogni funzione direttiva e i loro beni nazionalizzati, l’apartheid rappresentò – al di là di qualsiasi considerazione “ideologica” di tipo razziale – l’unico strumento con cui la minoranza di origini europee – circa il 5% della popolazione – poté sopravvivere, evitando l’estromissione totale dal governo di un paese modernissimo che, nel bene e nel male, essa aveva creato. L’apartheid, quindi, prima che una “teoria”, fu uno strumento imposto dalla necessità storica di preservare l’identità etnica e politica dei bianchi – Inglesi e Boeri – consentendo di far funzionare “all’europea” – e fino al 1994! – l’unico paese dell’Africa subsahariana non travolto dalla decolonizzazione degli anni ’50-60[16]. Alle varie etnie africane spesso conflittuali – appartenenti al gruppo Bantu[17] – fu riservato l’autogoverno di una decina di zone della Repubblica – dette Bantustan o Homelands – sotto la sovranità di capi tribali, chief ministers. Inizialmente, la superficie totale dei Bantustan corrispondeva a non più del 13 % del territorio nazionale, ma divenne, col tempo, assolutamente insufficiente a contenere la popolazione cafra, a causa del tasso esorbitante di natalità della stessa – problema ancora oggi attuale – e caratteristica peculiare di ogni cultura tribale. Ciò comportò una situazione difficilissima da gestire perché, pur non avendone l’autorizzazione, moltissimi aborigeni si trasferirono in direzione delle città “bianche”, andando ad alimentare la delinquenza e favorendo la formazione di veri e propri slums, come quello di Soweto, a Johannesburg. Il governo sudafricano avviò, comunque, alla fine degli anni ’70, il riconoscimento della piena sovranità politica dei Bantustan, affinché diventassero stati indipendenti abitati da una specifica etnia, sotto propri capi, e il confine territoriale tra essi e la Repubblica sudafricana diventasse un confine internazionale tra stati sovrani, superabile solo da chi avesse avuto un adeguato passaporto. Tra il 1976 e il 1981, furono proclamati indipendenti Transkei, Venda e Ciskei, senza che l’indipendenza fosse riconosciuta dall’ONU[18]. Era iniziato, infatti, il grande boicottaggio internazionale del paese di cui, però, data la ricchezza mineraria, nessuno poteva fare a meno. Ed è proprio a causa di tale ricchezza che USA e URSS, assistiti dal grande capitale “apolide” e internazionale, decisero di puntare sull’annientamento della Repubblica sudafricana, finanziando massicciamente il terrorismo collegato a gruppi estremisti bantu – la “Lancia della Nazione”, il “Congresso Panafricano” – che si resero responsabili di molti attentati ai danni della popolazione locale anche di colore[19]. D’altronde, un paese privo di una guida politica stabile e di una classe dirigente tecnicamente preparata, nazionalisticamente radicata nella propria identità, si prestava certamente meglio a diventare una vera e propria “colonia” di investimento e di sfruttamento per le grosse multinazionali, sul modello degli altri stati africani, nati dalla decolonizzazione. Nell’azione di sabotaggio della Repubblica – volta a saccheggiarne le preziose risorse, minandone la sovranità – si distinsero anche le chiese locali – cattolica e riformate[20] – che offrirono copertura al terrorismo e, infine, il Partito Progressista (PP), guidato dal finanziere ebreo e filantropo Henry Oppenheimer (†2000): il PP, infatti, era l’unica forza politica bianca apertamente ostile all’apartheid. I governi di Balthazar Vorster (1966-1978) e di Pieter Botha (1978-1989) rinunciarono progressivamente all’apartheid sotto pressione dei gruppi di interesse predetti, al fine di migliorare l’immagine del paese nel consesso internazionale, ma questa politica causò molte scissioni “a destra” del NP, come la formazione del Partito Nazionale Rifondato[21], nel 1969, e del Partito Conservatore[22], nel 1982, mentre, nel 1973, un singolare personaggio – l’imprenditore agricolo Eugène Terre’Blanche (†2010) – fondò l’extraparlamentare “Movimento di Resistenza Afrikaner” che, però, svolse la sua azione al di fuori dell’agone elettorale[23]. Intanto la situazione all’interno del paese assumeva aspetti preoccupanti per l’ordine pubblico, a causa di alcune sollevazioni della popolazione nera come quella del “ghetto” di Soweto, un vasto slum costituitosi nella periferia di Johannesburg (1976), promossa dal movimento Black Consciousness – “Coscienza Nera” – ideologicamente ispirato agli analoghi movimenti afroamericani degli anni ’60[24]. In quegli stessi anni, l’esercito sudafricano intervenne nelle colonie portoghesi di Angola e Mozambico, per impedire la formazione di governi filosovietici marxisti-leninisti, appoggiati finanziariamente e militarmente dall’URSS e da Cuba. Il regime castrista aveva persino inviato, a sostegno dei movimenti indipendentisti, proprie milizie di “volontari”, noti come “Barbudos
”. Crollata la dittatura portoghese di Salazar, nel 1974, l’Angola e il Mozambico ottennero la piena indipendenza e le truppe sudafricane furono costrette a ritirarsi. I governi marxisti dei due paesi offrirono, da quel momento, protezione ai terroristi dell’ANC, molti dei quali si addestrarono nelle basi militari messe loro a disposizione.
IV) La fine del Boerestaat.
Al primo ministro Pieter Botha (†2006) – promotore della politica dell’“adattarsi per non perire” – si deve la promulgazione, nel 1983, di una nuova costituzione di tipo presidenziale che unificava le cariche di capo del governo e capo dello stato nella nuova carica di “presidente” eletto direttamente dal popolo, dotata di maggiori poteri e coadiuvata da un “Consiglio per la sicurezza dello stato”, composto da elementi in parte di nomina presidenziale ed in parte di nomina elettiva. Le riforme messe in atto da Botha prevedevano l’abolizione della cosiddetta petty apartheid, cioè della “separazione” delle etnie nelle infrastrutture e nei luoghi pubblici e la costituzione – accanto al parlamento ufficiale – di altre due camere consultive, rappresentative dell’elettorato indostano e meticcio, ma non Bantu. Inoltre, fu abolito il divieto di matrimoni misti, l’obbligo del pass – per spostarsi dai Bantustan in aree territoriali riservate ai bianchi – il divieto di costituzione di sindacati per la popolazione aborigena e indostana e fu concessa autonomia amministrativa, attraverso l’istituzione di appositi consigli elettivi, ai “ghetti” che, totalmente fuori controllo, andavano sviluppandosi nei sobborghi delle città industriali. Nel 1984, Botha divenne il nuovo presidente della Repubblica e cercò, anche attraverso una politica di massicci investimenti militari – date le condizioni di disordine interno in cui versava il paese – di potenziare gli apparati bellici del Sudafrica, soprattutto il controspionaggio, mentre le formazioni paramilitari dell’ANC trovavano protezione dai governi filosovietici di Angola e Mozambico, dove i guerriglieri cercavano rifugio, dopo aver compiuto incursioni o attentati in territorio sudafricano. La situazione, nel frattempo, diventava difficile anche in Namibia – ex Africa sudoccidentale tedesca – annessa formalmente al Sudafrica nel 1966, nonostante la condanna dell’ONU, perché si sviluppava la guerriglia della SWAPO, il locale movimento di liberazione nazionale, rifornito di danaro e armi dai governi marxisti dell’Angola e del Mozambico. Milizie sudafricane e angolane si affrontarono in territorio namibiano fino agli accordi di Lusaka, nel 1984, che previdero il progressivo ritiro delle truppe sudafricane e angolane dalla Namibia entro il 1989, anno al quale ha fatto seguito la proclamazione dell’indipendenza. Dal governo Botha fu esperito anche un tentativo di scarcerazione di Mandela, dietro l’impegno a rinunciare alla violenza come strumento di sovvertimento dell’ordine costituzionale, ma l’operazione fu un fallimento. Le riforme costituzionali non fermarono il terrorismo e le manifestazioni di piazza, promosse da Fronte Democratico Unito (FDU) – unione di stampo confederale tra circa 700 organizzazioni socio-sindacali avverse all’apartheid – e dal Forum Nazionale, e Botha, nel 1985, fu costretto a decretare lo “stato d’assedio”, poi reiterato fino al 1989, quando si ritirò dalla vita pubblica. Nel 1990, il nuovo presidente, Frederik de Klerk – già alla guida del NP dal 1989 – abbandonò l’apartheid e consentì la ricostituzione del Partito Comunista e dell’African National Congress, la cui dirigenza fu scarcerata o poté far ritorno dall’esilio[25]. Nel 1993, la nuova costituzione, approvata da un plebiscito cui parteciparono tutti i gruppi etnici, riconobbe piena cittadinanza ai neri e le elezioni del 1994 – le prime su base multirazziale – consacrarono la vittoria dell’ANC e del suo leader, l’avvocato di etnia Xhosa Nelson Mandela (†2013), che divenne il nuovo presidente della Repubblica. Mandela conservò la presidenza fino alle sue dimissioni, nel 1999, quando lasciò la carica al suo delfino, Thabo Mbeki, al quale, nel 2009, è succeduto l’attuale presidente, Jacob Zuma. Dal 1994, benché repubblica multipartitica, grazie alla stragrande maggioranza della sua popolazione di colore, il Sudafrica è, de facto, un vero e proprio stato monopartitico, in cui le posizioni di potere, a tutti i livelli, sono egemonizzate dall’ANC. Il nuovo regime, però, manifestò immediatamente i suoi “lati oscuri”, con le reiterate violenze contro la minoranza bianca – parte della quale espatriò – e con i sanguinosi conflitti che esplosero tra le etnie Bantu, soprattutto gli Xhosa e gli Zulu. Lo zulu Mangosuthu Buthelezi, infatti – capo del partito Inkatha, minister chief del bantustan KwaZulu e avversario di Mandela – rivendicò subito il ruolo di alfiere della “libertà” cafra, pur avendo sempre appoggiato il regime dell’apartheid, promuovendo una guerra civile contro l’ANC, con l’ausilio di lancieri armati come gli “impi” di re Shaka, di cui si considerava un discendente. La sorte riservata ai Boeri e, più in generale, ai bianchi, nella nuova “Repubblica arcobaleno”, è molto chiara. Se si pensa ai casi frequenti di stupri o uccisioni con la diffusa pratica del necklacing – vivicombustione dopo essere stati immobilizzati con un copertone cosparso di benzina – è veramente arduo pensare alla ricostituzione di un Boerestaat sul modello ottocentesco, evitando una secessione. L’ANC, inoltre, sta portando avanti una campagna di progressivo spossessamento fondiario ai danni dei discendenti dei coloni europei, ricorrendo alla forza o facendo pressioni sul sistema bancario, attraverso la negazione dei prestiti o il pignoramento dei beni dati in garanzia degli stessi[26]. D’altronde si sa che, oggi, il “politicamente corretto” non considera storicamente e politicamente possibili – e, quindi, impone di tacere – genocidi compiuti ai danni di individui di “razza bianca” o di fede cattolica, né esistono forze politiche in grado di competere, sul piano elettorale, con l’ANC, dato che il National Party si è sciolto nel 2005 e l’uccisione di Eugène Terre’Blanche – da parte di alcuni Xhosa[27] – ha creato ulteriore disorientamento nelle fila del fronte boero. Una residua speranza per i Boeri, forse, risiede nella formazione Afrikaner Volksfront – facente capo all’ex generale Constand Viljoen – che finora, però, non è stata in grado di coagulare abbastanza consenso. Cosa sia successo realmente nella Repubblica dopo il 1994, lo si evince anche dall’analisi di alcuni dati qui di seguito citati. Il Sudafrica si è trasformato, progressivamente, in una “repubblica delle banane”, come quelle nate a seguito del processo di decolonizzazione, debitrici verso il Fondo Monetario Internazionale, ai cui prestiti è potuto accedere dopo la fine dell’apartheid e la revoca delle sanzioni. Inoltre, da stato esportatore di generi alimentari, il Sudafrica ne è diventato importatore, l’AIDS è endemico, con più di 8 milioni di malati, la povertà coinvolge circa 20 milioni di Sudafricani, tra bianchi e neri, e la delinquenza rende il paese uno dei più pericolosi del mondo[28]. Da aggiungere il collasso del sistema sanitario nazionale, l’indebitamento pubblico, l’aumento vertiginoso della corruzione, il degrado ambientale e urbano con il noto fenomeno dei plakkers, ovvero degli “occupanti abusivi” – con costruzioni improvvisate – di suolo pubblico, all’interno di quelli che, un tempo, erano considerati contesti urbani civili. In un panorama del genere, quindi, non ci si deve meravigliare di dichiarazioni come quelle rese dal presidente sudafricano – lo zulu Jacob Zuma – secondo il quale l’AIDS andrebbe curato con qualche doccia in più. Un triste scenario che, tra alcuni anni, potrebbe riproporsi anche in Europa[29].
NOTE
[1] Assegnista di Storia Medievale, Università degli Studi di Salerno.
[2] Sui Boeri si veda anche, T. Indelli, Europa e immigrazione. Osservazioni necessarie, Salerno 2017.
[3] Sul punto, F. Fiorani-M. Flore, Grandi Imperi coloniali, Firenze-Milano 2005.
[4] Al quale fu dedicata la fondazione della città di Pretoria, attuale capitale governativa del Sudafrica, sede ufficiale dell’esecutivo. Gli Zulu furono sconfitti definitivamente dagli Inglesi nella guerra del 1879-1881. Il loro re, Cetswayo (1858-1881), fu deportato a Londra. Rientrato in Africa, morì in circostanze misteriose. Per gli eventi descritti nel testo, B. Lugan, Histoire de l’Afrique du Sud, Paris 1986.
[5] E’ possibile vedere, in questi fatti, e nella loro elaborazione culturale successiva, un’affinità con analoghe esperienze pioneristiche, pur se collocate in differenti contesti etnoculturali. Il riferimento immediato è al Far West americano.
[6] P. Pretorius, Volksverraad, Mosselbaii (Sud Africa) 1996.
[7] Nel 1923, la Rhodesia fu divisa in due colonie distinte: Rhodesia del Nord e Rhodesia del Sud. La seconda, più della prima, fu destinata al ruolo di colonia di popolamento attraverso una massiccia immigrazione di bianchi anglofoni. Sul punto, F. Fiorani-M. Flore, op. cit.
[8] Con un’estensione superiore a un milione e trecentomila kmq e con tre nuove capitali: Città del Capo, sede del parlamento, Pretoria, sede dell’esecutivo, Bloemfontein, sede del potere giudiziario.
[9] Il primo dominion fu il Canada (1867), il secondo l’Australia (1900), il terzo la Nuova Zelanda (1907). In ordine di tempo, l’Unione Sudafricana fu il quarto dominion del Commonwealth britannico, di cui fece parte – come si vedrà – fino al 1961.
[10] E di cui fece parte Balthazar Vorster (†1983), futuro primo ministro. Nella seconda guerra mondiale le truppe sudafricane operarono in Kenya e in Africa settentrionale contro gli Italiani e i Tedeschi. Sul punto, M. Emiliani, Sudafrica. Storia dell’oggi. Paesi, protagonisti, questioni, 4, Roma 1991.
[11] Dall’ANC si distaccò, nel 1960, il Congresso Panafricano (PAC), su posizioni molto più estremiste dell’ANC.
[12] Nonostante il discredito internazionale e l’embargo d’armi, il paese era ricchissimo di minerali e nessuna nazione poteva fare a meno di intrattenere con esso relazioni commerciali. Oltre all’oro e all’argento, il Sudafrica è ricco di stagno, rame, piombo, zinco, alluminio, ferro, carbone, cromo, platino. Per non parlare dei diamanti.
[13] Verwoerd fu ucciso nel corso di una seduta parlamentare, nel 1966, da un inserviente della camera – Dimitri Tsafendas (†1999) – poi definito, ufficialmente, uno “squilibrato”. In tal modo, Tsafendas riuscì ad evitare la condanna a morte e fu incarcerato a vita. Tuttavia, non mancò chi vide, in quell’assassinio, l’esito naturale di un complotto ai danni della Repubblica. Sul punto, C. Berentemfel, The conspiracy against South Africa, Link Hills 1989.
[14] Tra i dirigenti condannati è da ricordare l’avvocato di etnia Xhosa, Nelson Mandela, e il suo sodale, Walter Sisulu. La piattaforma programmatica dell’ANC era la Freedom Charter, elaborata nel 1955, formalmente favorevole ad un Sudafrica multirazziale con gli esiti che, però, si vedranno più avanti. Molti dei dirigenti dell’ANC, sfuggiti alla cattura, ripararono all’estero e si formarono, ideologicamente, a Mosca, a Londra o a Washington.
[15] Tra i massimi dirigenti comunisti sudafricani – in gran parte di origine “ebraica” – si ricordi Joe Slovo – ebreo di origini lituane – morto nel 1995.
[16] Sul processo di decolonizzazione in generale, C. Coquery-Vidrovitch – H. Moniot, L’Africa nera dal 1800 ai nostri giorni, Milano 1977.
[17] Gli altri raggruppamenti etnico-linguistici sono il Nilota, il Sahariano e il Sudanese.
[18] Sul punto, S. Waldner, Stati Uniti, Iberoamerica, Sud Africa: tre messe a punto, Dueville (Vicenza) 2001.
[19] G. Grazer, South Africa, American’s newest colony, Pretoria 1985.
[20] Esclusa la “Chiesa Riformata Olandese”, schierata col fronte boero. Nell’opera di demolizione dell’apartheid si distinse, tra i tanti, il vescovo anglicano di Città del Capo, Desmond Tutu (1986-1996), ovviamente premiato, nel 1984, con il Nobel per la pace.
[21] Tra i Leaders della nuova formazione, Jaap Marais (†2000) e Albert Hertzog (†1982).
[22] Leader ne fu Andries Treurnicht (†1993)
[23] J. Marais, Afrikanernasionalisme en die nuwe Suid Afrika, Pretoria 1990.
[24] La rivolta, ufficialmente, esplose dopo la decisione del governo di Pretoria di imporre, nelle scuole del ghetto, l’insegnamento dell’afrikaans, lingua ufficiale della Repubblica. Il leader della rivolta, Steve Biko, morì in carcere, nel 1977.
[25] Ovviamente, De Klerk fu subito insignito del Premio Nobel per la pace (1993).
[26] G. Grazer, op. cit.
[27] A quanto pare si trattava di alcuni dipendenti della sua fattoria che lamentavano arretrati nello stipendio. Ma sulla vicenda permane poca chiarezza.
[28] La diffusione dell’AIDS – patologia “africana” per eccellenza – che affliggerebbe circa il 40% della popolazione del continente africano, con punte altissime in Sudafrica, è da collegare – a quanto sembra – agli usi tribali delle tribù bantu della regione del lago Vittoria e, precisamente, all’usanza di iniettare e ingerire sangue infetto della “scimmia azzurra”, ritenuto afrodisiaco secondo i riti locali. S. Waldner, op. cit.
[29] Per una descrizione esauriente, B. De Rachewiltz, Sesso magico nell’Africa nera, Milano 1983, S. Waldner, La deformazione della natura, Padova 1997.