9 Ottobre 2024
Islam Religione

Ricordo di un invito in moschea – Il Poliscriba

Una prosa avulsa dalle insulsaggini PolCor, dovrebbe oggi corroborare quelle poche anime infiammate costrette in corpi ghiacciati dall’incessante vivere meccanico. Tutto ciò che si scrive sulla vita, dopo i periodi decadentisti, surrealisti, strutturalisti, concettualisti e porno-edonisti, dovrebbe mirare a un’espressione segnatamente realista, quella che 170 anni fa si definiva naturalista. A tal proposito, ricordo con disappunto quando mi recai alla prima moschea aperta a Torino nelle vicinanze di Porta Susa. Trattavasi di un umile trilocale sopra i portici di c.so San Martino. Era il 1990; fui invitato da due compagni di stanza (condividevo un piano di abitazione all’interno del quale più stanze erano affittate a studenti universitari come me, a impiegati o lavoratori in trasferta), provenienti dal Marocco che, all’epoca, si guadagnavano e rovinavano la vita lavorando in una conceria.

Perché disappunto?

Perché, come potei da subito notare, le nostre “culture” non si potevano incontrare né sulla base di un sincretismo religioso, né su quella, ancor più sdrucciolevole, di una condivisione storica, letteraria, artistica, semantica, etc. L’Imam che conobbi si era formato in una madrassa a Casablanca e di Dante, Lapo e Guido, Machiavelli, Pontormo, Tasso, Saladino, l’immensa cultura classica, Leopardi, Aretino, o i grandi geni italiani, non conosceva nulla, perché nulla della grande e generosa Italia, dei tremila anni della sua storia, dagli Etruschi a Montale, gli era stato insegnato. Né allora né oggi ho paura di questi arabi che hanno sostituito in Nord Africa quel connubio di saperi e sentire che intercorse tra egizi, nubiani, greci e latini; poiché non decontestualizzo tout court, non temo la storia che li ha forgiati, quella di nomadi allevatori di capre, di guerrieri violenti, sadici, ma anche capaci di sottile filosofia militare e altrettanto sagace lettura dei cuori umani che si ritrova ancora intatta nelle parole dei loro grandi narratori di storia che hanno influenzato. nel bene e nel male, la nostra forma mentis.

E so, con altrettanta sicurezza scientifica, che un frammento genetico di queste genti si ritrova intrappolato nelle spire cellulari dei mediterranei, perché seppero mutare l’Asia, il mare nostrum e i balcani in un impero vasto e invidiabile per estensione, potenza e bellezza artistico-architettonica attraverso una delle più grandi fusioni razziali, incisivamente ed anche meglio di quanto non riuscirono le stirpi mongole, nordiche o di quanto realizzò la casata sveva o il primo e sempre imitato Alessandro il Macedone. Tuttavia, in quel lontano 1990 sapevo, razionalmente e non emotivamente, che non mi trovavo al cospetto di rifugiati della splendida Baghdad del X secolo che intonavano le sure in una lingua che non mi apparteneva e verso la quale non sentivo quel trasporto che invece segnò la vita spirituale e umana di Charles Eugène de Foucauld che l’amò intensamente e dalla quale si fece tradurre in un peregrinare tra i viottoli in luce e in ombra di quegli agglomerati di pietre appartenenti a un Oriente esperito e non soltanto appreso per logica, e studiandola, per farla propria, finì per infatuarsi, travestito da berbero, vivendo come un berbero, dell’Islam e della sua potente e fascinosa mistica estetica, come lui ebbe a scrivere in riflessioni postume al suo ritorno alla cristianità.

Cercai di raccontare ai due compagni di strada marocchini e al loro pedagogista spirituale degli scrittori europei che ebbero una predilezione per il loro mondo, autori che non immaginavano neppure fossero esistiti: gli citai Rimbaud, Lawrence Durrell, Gide, la fantascienza di Frank Herbert. Io tiravo fuori storie di ordinario scambio culturale tra quei pianeti non così lontani tra loro, cercando di far leva su un patriottismo comune, s’un senso di appartenenza a luoghi, a una fede religiosa, all’epos estinto risultante di una forgiatura lessicale di millenni. Neanche le grandi battaglie: la presa di Costantinopoli da parte di Solimano il Magnifico, la Battaglia di Lepanto, l’assedio di Vienna, li smuoveva. Mi risolvevo di capire cosa in quei giovani era filtrato dal passato remoto, rispetto a quello che era precipitato in me soltanto attraverso l’educazione scolastica. Vacuità nei loro occhi, vacuità nei miei quando tentavano di convincermi della bontà di Allah e dei sacrifici che facevano per mettersi da parte i soldi per il pellegrinaggio alla Mecca.

In fondo, la loro era una fede che garantiva un minimo di coesione sociale in una città che non gli apparteneva, in una società dove ancora non erano stati omologati, come oggi accade per le nuove generazioni di giovani arabi che scimmiottano i rapper afroamericani strafatti di bigmac e marjuana. Sentii un vuoto e lo avvertii come lo avverto quando leggo di quel ritorno di Papini presso la sua campagna natia che lo rinfrancava della sua finitudine d’uomo e gli ricordava cosa significasse sentirsi toscano prima ancora che italiano. Ancora oggi avverto uno stordimento, una vertigine quando m’immergo nell’oceano smisurato degli incontri-scontri tra Europa e mondo arabo avvenuti in 14 secoli; così come mi assale un’immagine vitrea e annebbiata nel momento esatto in cui mi specchio nelle metamorfosi di Ovidio, nelle puntuali descrizioni dei vizi e delle virtù mirabilmente incastonate nei pantheon olimpici discesi da tutti i punti cardinali; quando mi perdo e non mi ritrovo nella devozione per Allah o per il Dio abramitico temibile, giusto e infinitamente amorevole o in quello sensuale dello Srimad Bhagavatam; quando scopro, nella pazzia nichilista del nostro tempo, tratti di una follia sempre in agguato nelle visceri dell’uomo, come in quelle dell’Eracle di Euripide, e quando nei congiaria ravviso più amore per il popolo di quanto ci promettano i ciarloni dell’odierno populismo.

Non penso potrà più formarsi un piccolo esercito di patrioti, giannizzeri o crociati che siano, come gli eroi che si scontrarono nel 1683 davanti ai bastioni viennesi di Burg e Lebel ; mi sembra che una minuta fanteria di Jean Floressas Des Esseintes, alla quale credo indebitamente di appartenere, stia misurando il tempo che la separa dalla tomba, immersa in una trincea di disperazione controcorrente, mai pronta all’assalto, ma divisa tra il fucile e la Bibbia. Oppure, come scriveva l’Ismaele di Moby Dick:

Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro; e soprattutto quando l’ipocondrio riesce a dominarmi tanto, che solo un robusto principio morale può impedirmi di uscire deciso per strada e mettermi metodicamente a gettare in terra il cappello alla gente, allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto: questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un gran gesto filosofico Catone si butta sulla spada: io, zitto zitto, m’imbarco.”

Il Poliscriba

2 Comments

  • Gaetano Barbella 18 Aprile 2018

    Dice bene, Poliscriba. «…le nostre “culture” non si potevano incontrare…»…
    Sul suo «Ricordo di un invito in moschea» prevalgono in me vaghi ricordi di un viaggio fatto a Teheran moltissimi anni fa, quando viaggiavo spesso per lavoro. Si discuteva per il progetto di una vetreria da fare presso Teheran, insieme ad altri colleghi accanto. Di tanto in tanto interveniva qua e là l’ingegnere capo progetto iraniano, scorrendo i grani di un piccolo rosario fra le dita… E poi verso sera, un matrimonio festoso nel grande albergo ove alloggiavo. Mi fu permesso di sbirciare nella sala dello sposo che era come in trono su una pedana, e tutti cantavano e ballavano fra loro ridendo festosamente. Sentivo a mala pena un brusio proveniente dalla sala del piano inferiore, quella della sposa, ma non mi era consentito accedervi. A pensarci oggi, mi dà un senso d’angoscia, come di un mondo svincolato dal tempo. Resta quel rosario nelle mani rispettose di donne e uomini islamici. Per contro vedo rosari sospesi, a mo’ di feticci, sospesi allo specchietto del parabrezza di tante auto, oppure crocette attaccate ai lobi di orecchie di giovani e anche adulti. Un preludio di stendardi di occulte battaglie che si perpetuano di questi tempi? E allora che serve “imbarcarsi”? Per dove? Forse là dove si spera che si incontrano le discusse “culture”?
    Cordialità.

  • Gaetano Barbella 18 Aprile 2018

    Dice bene, Poliscriba. «…le nostre “culture” non si potevano incontrare…»…
    Sul suo «Ricordo di un invito in moschea» prevalgono in me vaghi ricordi di un viaggio fatto a Teheran moltissimi anni fa, quando viaggiavo spesso per lavoro. Si discuteva per il progetto di una vetreria da fare presso Teheran, insieme ad altri colleghi accanto. Di tanto in tanto interveniva qua e là l’ingegnere capo progetto iraniano, scorrendo i grani di un piccolo rosario fra le dita… E poi verso sera, un matrimonio festoso nel grande albergo ove alloggiavo. Mi fu permesso di sbirciare nella sala dello sposo che era come in trono su una pedana, e tutti cantavano e ballavano fra loro ridendo festosamente. Sentivo a mala pena un brusio proveniente dalla sala del piano inferiore, quella della sposa, ma non mi era consentito accedervi. A pensarci oggi, mi dà un senso d’angoscia, come di un mondo svincolato dal tempo. Resta quel rosario nelle mani rispettose di donne e uomini islamici. Per contro vedo rosari sospesi, a mo’ di feticci, sospesi allo specchietto del parabrezza di tante auto, oppure crocette attaccate ai lobi di orecchie di giovani e anche adulti. Un preludio di stendardi di occulte battaglie che si perpetuano di questi tempi? E allora che serve “imbarcarsi”? Per dove? Forse là dove si spera che si incontrano le discusse “culture”?
    Cordialità.

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