8 Ottobre 2024
Tradizione Romana

Riflessioni minime sul senso di Roma – Claudio Pirillo

Non è mai facile “parlare” di ROMA, del suo senso per l’ITALIA ed il Mondo intero. Men che meno appare agevole scriverne. Eppure, dagli estremi dei cardini che figurativamente sostengono questo Universo, non vi è zona che non abbia avuto e che non abbia qualche riferimento a Roma. E non è solo una questione di originaria parentela etnica e cultuale (che si tratti dell’India, dell’Iran, dei Tagiki, della mitica “Legione perduta” cinese ovvero, di tutta l’Europa). Ci sarà pure un motivo, oltre i facili interessi commercial-turistici, se paesi lontani fra loro hanno fatto (e fanno) a gara nella istituzione di “festival” della presenza romana in quelle contrade quando, addirittura, pretendere di assumere – illecitamente – l’eredità romana (dalla Francia, all’Inghilterra, all’Austria, alla Germania, alla Russia) chiamando i sovrani con i medesi titoli: Re, Imperatore, Cesare (Caesar, Cesar, Kaiser, Tzar), Augusto, e ripetendone i simboli (segnatamente l’Aquila e i Fasci [come, per esempio, nella Francia repubblicana e negli Stati Uniti d’America, la cui indipendenza dall’Inghilterra – Guerra delle Tredici Colonie- fu segnata dai riferimenti costanti alla romanità]).

Al presente, vi è tutto un rifiorire di ricerche, studi sulla romanità; non si contano le Associazioni e i Gruppi di studio – virtuali e non – che proclamano il lor rifarsi alla romanità. Fatti apparentemente positivi. Alcuni di essi presentano aspetti di indubbio interesse, molti altri sono palesemente dei re – enactments folkloristici alquanto.

Tuttavia, però, non abbiamo ancora letto l’unico fondamentale interrogativo che tali gruppi ed associazioni avrebbero dovuto porsi: Che cosa fu ROMA? E che cosa E’ ROMA? Chi o che cosa ne rese possibile la sua manifestazione? Quanto può essere vera la profezia del suo rinnovamento, della sua rinascita? Vi è qualcuno o qualche cosa che possa pretendere di assumerne il legato?
Uno degli aspetti più “curiosi”, per un ricercatore, è scoprire quante persone oggi si dicano “pagane” (“pagani” che si danno al culto romano).

Vorremmo chiarire subito che personalmente ci andremmo più cauti nella…pratica del culto e del Rito romano. Chi conosce la parola RITUS nella pratica, sa che essa si riferisce ad un Ordine, ad una Educazione (come la parola castus); sa, per altro (ci auguriamo che lo sappia) che le POTENZE del cielo Urbico sono potenze iperuranie, sono FORZE INTELLIGENTI CONCRETE mosse ed operanti (per dirla con l’Ammonio Maestro Kremmerz) da quel Centro Occulto dell’Astrale Universo dove si fa il caldo ed il freddo, dove le cose sono ancora prima di esistere. Un po’ pericoloso scherzare col fuoco, non credete amici lettori? Ora, con tutto il rispetto per tutti, non mi pare che in giro si vedano tanti Romani, TANTE ANIME ROMANE, forti e virtuose al punto da rendere ancora una volta visibile ed agente il NUME di ROMA… . Meno presunzione e più preparazioni non guasterebbero in determinati ambienti. Ma ognuno, ovviamente, è libero di fare quel che crede assumendo le proprie responsabilità quando evoca – se ne ha la capacità vera – o invoca il Genius Urbis… . Noi, preferiamo credere che ROMA (la POTENZA che ha assunto questo nomen/omen venticinque secoli fa) si manifesterà ancora quando il Nume – e solo il Nume – ne decreterà il momento. Fino ad allora, naturalmente, i FEDELI D’AMORE (cioè i seguaci della DEA ROMA, guardata dai Gemelli mercuriali),si manterranno tali e pronti al suono delle buccine enee. Senza appariscenze esteriori, nel SILENTIUM di un MISTERO MAGNO che va custodito perennemente, Mistero adombrato nel Fuoco Eterno di Vesta, custodito nel delubro arcano e rubro dell’ipogeo circolare tempio).

Scriveva J.W.Goethe, in ERSTE ROEMISCHE ELEGIE: <<Eine Welt zwar bist du, o Rom, doch ohne die Liebe / Waere die Welt nicht die Welt, waere denn Rom auch nicht Rom>>.

Come è noto, all’abc degli studi romanologici vi è l’anagramma stesso del Nome dell’Urbe: ROMA/AMOR, che può essere rappresentato graficamente in un quadrato palindromo, esattamente come quadrata era la lastra che chiudeva il circolare MUNDUS, ritualmente e periodicamente aperto, per ingraziare e rafforzare la fides urbica con le potenze uranie animanti incarnate nel sottosuolo germinante di viriditas dell’ager romanus intramoenia. Ma che cosa sia questo AMOR ROMANO di cui cenna l’Alighieri è noto solo ai Pontefici che si muovono nei vani ascosi, ai Maestri che hanno avuto accesso al trono eliaco ed assisi accanto al Nume, Dei fra gli Dei, ovvero ai Governatori delle Navi di cui dà notizia il Lebano. Ora, che Roma sia Amore o Flora o Valentia, come ben recita l’Inno a Roma del Pascoli o come celebrata dal carme oraziano o dal De Reditu di Rutilio Namaziano, ultimo cantore pagano del culto urbico, quel che è certo è che l’apparire di ROMA fece l’effetto del tuono che precede il fulmine: fra i popoli italici – e nel resto d’Europa, come si vedrà – si manifesta, improvvisa e ignota, la potenza di Tinia, di Ju-piter: la Razza di Roma sorge, rapida e bellicosa, con un compito tanto oscuro ai parenti italici quanto apparentemente prevaricante: Dai Liguri agli Umbri, dagli Etruschi ai Latini, ai Sabini, ai Marcii, agli Osci, ai Sanniti, i popoli italici sono caratterizzati da una sostanziale unità linguistica, culturale, cultuale. A ROMA, che sorge in primo luogo come insediamento circolare ripetendo urbanisticamente la costellazione dell’Orsa, è demandato un compito; unificare quei popoli, dando una Legge (che tutt’ora è modello per metà della popolazione mondiale) creatrice e regolatrice di UNA CIVILTA’ che avrebbe incarnato l’armonia dei Cieli. Nel Rito romano, nel culto del fuoco, nel simbolo dell’ascia, vi E’ tutto questo. Ed il Tempio romano ed il Tempio celeste sono una cosa sola. Il civis romanus diventa il modello del semidio: l’aratro in pace, la spada nei momenti di pericolo, in perfetta armonia con le leggi del cosmo; una creazione sempre rinnovantesi nell’apparente distruzione delle forme, una civiltà UNA che conduca ad Unità le genti come è pei pianeti che – diversi per grandezza e virtù – partecipano tutti dell’attrazione eliaca. Così per le anime romane. La statua di VIRTUS, il simulacro della Dea VICTORIA ed i FASCI custoditi nel Tempio di Venere Libitina; il pugio, l’ancile: i pegnora urbis sono l’espressione del pactum con gli Dei, il legame magico dell’Urbe con le Potenze Fatali. L’improvviso sorgere di Roma nel panorama dei popoli italici ed in Europa, ci dice che ROMA era ancor prima di manifestarsi.

ROMA, significa concetto sacro di Vittoria e questa Dea, suprema, è l’affermazione della volontà numinosa delegata all’Urbe visibile che opera in quanto mandataria di un Collegio non visibile al populus: i Patres si serviranno di un Ordine cui solo una elitaria discendenza di difensori, tenuti a custodire il secretum della Dea potrà appartenere l’ Ordo Equestris. Riflesso di tale antichità e significati fu la Cavalleria medievale, una ristretta aristocrazia invidiata dai sovrani che, profani, ne tentarono l’annullamento. La Vittoria (la sua concezione, divinità e riti) ed il Senato erano interdipendenti. E’ noto che il culto religioso romano fosse pubblico: ogni rito era officiato “pro salute populi” e per tale motivo, era finanziato dall’erario ogni celebrazione rituale volta a perpetuare il pactum fra le divinità ed il popolo, ed ogni altro rito col quale impetrare dal Dio o dalla Dea il favore che si intendeva ottenere per la Gloria dell’Urbe. Egualmente, i senatori- pubblicamente e prima di sedersi sui loro scranni all’interno della Curia – bruciavano in offerta un grano di incenso alla statua della Dea, quasi a volere propiziare la discesa del divino influsso sulle decisioni curiali. I senatori tendevano, ritualmente, le mani verso la statua quando giuravano fedeltà al nuovo principe. Così pure quando si augurava fervidamente la salute all’impero, ed all’Imperatore, con un rito specifico (il 3 di Gennaio). In tal modo si stabiliva una alleanza tra il Senato, l’Urbe, la Vittoria. Oltre a propiziare l’influsso della Dea Vittoria sulle decisioni del Senato, tali ritualità di fatto abolivano le differenze individue, in quanto tutti, pur avendo ognuno un diverso valore animico, partecipavano delle benedizioni che la dea elargiva; tutti si disindividualizzavano, partecipando della natura del Genio e della Vittoria, in una organicità spirituale superindividuale : tale individualità organica era il CORPUS del Senato e del Popolo di Roma in uno con la FIDES nella VITTORIA e nel GENIUS POPULI ROMANORUM/URBIS ROMAE. Il Mistero Pontificale Romano indicava agli Eletti che il Senato visibile, REMUS, ripeteva l’ordinamento del Senato adelio o ROMULUS. La Curia doveva rappresentare il delubro arcano. Il simulacro rappresentava la Dea in bronzo dorato, librantesi su un globo: una corona d’alloro nella destra mano mentre il vento gonfia e scompone le sue vesti. Il simulacro e l’altare della Vittoria erano res sacra. I sacrifici offerti al simulacro erano possibili a mezzo dell’altare, sul quale venivano bruciati incenso e vino. Che intorno all’ara ed alla statua della Dea Vittoria si accenderà, poi, la lotta tra Cristiani e Pagani, sarà assolutamente decisivo. Che cosa dovesse significare ROMA, lo capiamo dal sentire della gens Julia. Caio Giulio Cesare e Cesare Ottaviano Augusto sono, a Roma, l’esempio più vivo della aristocrazia sacrale: “Est ergo in genere meo et sanctitas regum qui plurimum inter homines pollent et coerimonia deorum quorum ipsi in potestate sunt reges”, affermava di sè il discendente della dea Venere, solare anima della romulea stirpe e Pontefice Massimo. Livio (Ab Urbe Condita, I,18) ci mostra chiaro ed inequivocabile il principio sul quale Numa (sacro nome fra le civiltà indoeuropee, che per anagramma dà: Manu, Unam ed il nomen del Dio Egizio, Amun (l’Egitto faraonico varrà successivamente per culto italico, per quegli ermetisti ed alchimisti che dovranno mascherarsi per sfuggire ai carnefici del papato), archetipo della regalità solare, fonda la sua auctoritas, descrivendo la cerimonia di consacrazione: <<…sicut Romulus augurato urbe condenda regnum adeptus est, de se quoque deos consuli iussit. Inde ab augure, (…) deductus in arcem in lapidem ad meridiem versus consedit. Augur ad laevam eius capite velato sedem cepit, dextra manu baculum sine nodo aduncum tenens, quem lituum appellarunt. Inde, ubi prospectu in urbem agrumque capto, Deo precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septemtrionem esse dixit, signum contra quoad longissime conspectum oculi ferebant, animo finivit; tum, lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, precatus ita est: “Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium, cuius ego caput teneo, regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines, quos feci.” Tum peregit verbis auspicia, quae mitti vellet. Quibus omissis declaratus rex Numa de templo descendit>>.

Così, persino il solco dell’aratro romuleo fu visto per indicare il costume rituale: <<Urbem designat aratro quem Cato in originibus dicit morem fuisse…>> (Servio, Ad Aeneam, 5,755), mentre quando ormai si cominecrà a parlare di ITALIA, per Livio, <<Alpis…quorum alterum latu Italiae sit…>>(Livio, op. cit. 21,5). Nel culto romano vi è il motivo della sacertà d’Italia:<<Tellus enim quod prima vincta caelo>>; <<idem principes in Latio Saturnus et Ops. Terra enim et caelum…sunt dei magni…hi quos augurum libri scriptos habent sic divi potes>> (Varrone).

Ma Roma fu anche altro: essa rappresentò il modello per l’unità fisico-mentale della Nuova Italia quando, dopo il crollo esteriore ed invasa la città ed assoggetta al potere catto-barbarico del papato, giunse il momento di riprendere la lotta per ricomporre l’unità augustea; la città visibile, di superficie, fu vista come concretezza dell’agire, come azione realizzatrice e realizzata, come creazione di spazi culturali e spirituali condivisi dall’intero popolo italiano, come simbolo stesso dei pensieri, delle sensazioni, delle cognizioni, delle percezioni, degli stimoli; fu assimilazione ed accomodamento di una esperienza a cui si adattò lo stile dell’Italia ri-unita nel suo Nome. Essa evocava gli archetipi genitoriali, secondo Freud: le cure e l’affettività della relazionalità evolutiva dell’individuo, la madre, e per altro il paternum di riferimento, strutturante. I resti archeologici, monumentali e il sottosuolo stesso dell’Urbe, rappresentavano, invece, il sub-conscio o in-conscio: il regno arcano in cui si gioca tutta la partita dell’evoluzione animica, mentale; il fondo astrale da cui risalgono -improvvisi, inattesi- pensieri ed idee che non si pensava potessero esistere; da cui si affaccia prepotentemente l’anteriorità abissale dell’individuo, non poche volte coperta da strati numerosi di verniciature di successive umanazioni, imposizioni, preconcetti ed artifizi sociali, che crollano tutti all’affiorare impetuoso del vero astrale (o fondo oscuro) dell’individuo. ROMA pagana fu l’astrale, o io storico -esperienze ed incarnazioni precedenti- del nostro Risorgimento.

Adriano V. Pirillo, è fecondo giornalista-pubblicista per alcune testate calabresi; dotato di una robustissima preparazione classica (grecista e latinista), NON è certo ascrivibile al tradizionalismo romano – pagano. In più occasioni ha manifestato il suo filo-borbonismo, seppure in termini molto personali, ma sulla COSCIENZA POLITICA E GIURIDICA A ROMA ED ATENE (v. La Provincia KR, settimanale edito in Crotone) ha scritto in termini assolutamente incontestabili e laudativi, incontrovertibili, quasi poetici, sacrali: <<Lo spirito romano e lo spirito greco hanno come categoria suprema, che dà consistenza al loro sistema morale e politico, la divinità della patria… .Il pensiero greco precede, ma soprattutto eccede sulla vita e sul reale, dando luogo all’intellettualismo, con la Repubblica di Platone e con il cosmopolitismo delle scuole di fronte all’isolamento sterile ed improduttivo del saggio… Il prevalere della semplice erudizione fine a se stessa sulla speculazione, negli ultimi anni della decadenza, segna la fase conclusiva di un processo che aliena gradualmente gli interessi mentali dagli interessi vitali, sino a dare un eccessivo sapere al posto della funzione di una compiuta umanità. Ben diversa è la situazione a Roma: l’urbe è disposta piuttosto a rinunciare alle sublimi speculazioni che all’equilibrio perfetto della vita e del pensiero. A Roma il sentimento della patria è un tutt’uno con la coscienza civica e, mentre essa chiede ai suoi figli il soccorso delle armi e la saggezza politica, non concede loro l’otium della speculazione… presi come sono dal fine supremo di formare la repubblica reale e anziché propalare l’universalità dell’idea, tende a fondare l’universalità dello Stato… . Perciò il cittadino romano è il pater familias che organizza il suo nucleo familiare in modo organico e compatto come una piccola comunità politica, è la madre che mostra e considera i suoi figli come gioielli, il guerriero che lascia bruciare la propria mano su un braciere ardente, il legato che per non mancare alla parola data al nemico si offre alla tortura, il condottiero che non dispera mai della forza della patria pur dopo sconfitte tremende, il dittatore che dopo aver riportato ordine e pace nello Stato lascia il potere e ritorna alla semplice ed umile vita dei campi… E come la più bella poesia latina nasce dalla gioia di una visione agreste e bucolica, così ogni conquista effettuata con le armi in pugno finisce per diventare una conquista del lavoro che il più delle volte viene affidata agli stessi soldati capaci di maneggiare altrettanto bene armi e vanghe.>> Ancora: <<Le virtù del popolo romano dunque si devono considerare e definire solo insite negli esempi concreti, non fuori di essi; e tutte quante si possono riassumere nella Virtù per eccellenza, quella cioè che segna la completa dedizione del cittadino allo Stato, identificabile nella Fedeltà alle leggi in pace e nel valore militare in guerra…

Roma è eterna finché l’universalità del suo sapere si è realizzata in una forma concreta di vita per i popoli, in una determinazione esatta dei limiti di libertà individuale in rapporto alla libertà degli altri, in quella che è il segno più civile della sua sostanza: il diritto. Col diritto essa ha potuto estendere un’unica disciplina a popoli diversi per lingua, razza, usi e costumi… partecipando a tanti popoli la sua vita. Il diritto inoltre,… ha stabilito la coincidenza tra il fare e il pensare,… costituisce… la caratteristica e la gloria dell’Urbe: e l’originalità di Roma sta nel fatto che esso diritto non fu opera di un individuo, re, filosofo, o conquistatore che fosse, ma creazione collettiva di un popolo che nella coerenza del suo genio stabilisce la coerenza di una legge molteplice e varia secondo i tempi e i luoghi e saldava in meravigliosa unità il contributo di re e consoli, di pretori e tribuni, il responso dei comizi e i consulti senatoriali e i rescripta imperiali. Come disse Catone il censore: <<[…]lo Stato nostro invece è opera non dell’ingegno di uno solo, ma di molti, non è formato nel corso di una vita sola ma attraverso più secoli e più generazioni.>> Così, <<Mentre altri popoli, chiusi in se stessi, cercano tutti gli elementi che possono contrapporli e tenerli separati, lontani dagli altri -razza, territorio, culture, lingue- Roma invece adduce a motivi della sua singolarità proprio il carattere universale, la capacità o meglio la virtù di concentrarsi e approfondirsi man mano che si estende sino a divenire l’impero delle genti. E’ l’Urbe che si rende coincidente con l’Orbe; è la cittadinanza del vincitore data al vinto; è lo stato in cui vivono tanti popoli, lo stesso che ha però bisogno assoluto di quelle genti per vivere. Roma fu res gentium e res populi e, attraverso le più drammatiche vicende interne e almeno per nove secoli della sua storia, seppe mantenere quella forma di organizzazione politica per cui lo Stato è l’espressione dell’equilibrio organico delle classi, ricco di una volontà collettiva he esso rafforza disciplinandola e unificandola. Prima che venissero le popolazioni dell’Italia e del mondo a rafforzare quest’organicità dello stato romano, erano venuti i plebei a consociarsi col patriziato, ed era stata creata la repubblica contro la tirannide dell’ultimo monarca…, finché, nel genio militare e politico di Cesare ed Ottaviano, nacque l’impero per salvare la repubblica…: e nell’autorità dell’uomo in cui si incarna lo Stato, la repubblica trovò il difensore della giustizia e della pace contro le forze disgregatrici e le intemperanze di partiti sovvertitori. Quando con Diocleziano, l’imperatore diventerà dominus, e lo stato sarà foggiato sul tipo delle monarchie assolute orientali, la grande idea politica di Roma sarà perduta e verrà segnata la fine di Roma come realtà storica.>>

Mario Farneti, nel suo OCCIDENTE, Editrice Nord, Milano 2001, p.179, 262: scrive: << Pensa che la Roma antica non esista più, poiché è ridotta a poche rovine. Ma si sbaglia. Non sono i monumenti, i palazzi, gli stadi e i teatri che fanno una città, ma il suo spirito. E’ questo ciò che conta, e finché lo spirito sarà vivo, anche la città vivrà, oggi come ieri, sebbene sotto forme esteriori diverse. Quello che noi, Pontefici di Vesta, alimentiamo in questo tempio segreto è lo spirito immortale di Roma, che continuerà ad allignare in questi luoghi, vivificandoli, finché arderà il sacro fuoco…: il fuoco di Vesta arde senza interruzione da quasi tre millenni e, dopo di noi, arderà ancora. Le Vergini Vestali, lo custodiscono ogni giorno ed ogni giorno alimentano le sue fiamme con il legno dell’arbor felix, così come prescritto dall’antico rituale.>> Lo stesso pontifex afferma poi la continuità: <<Noi esistiamo da molti saecula, prima ancora di Roma… . Vi affannate a svelare il nome segreto di Roma senza neanche avere nozione di che cosa significhi la stessa parola Roma. Sappi che l’Impero, quello vero, non è mai morto, ma è esistito ed esiste da sempre sulla Terra, sebbene si sia manifestato una sola volta e per un breve periodo in Occidente… .E’ un ideale di grandezza e di perfezione a cui tende il mondo intero e che si manifesterà in maniera definitiva quando e se gli uomini avranno la giusta consapevolezza, non solo attraverso la mente, ma soprattutto attraverso lo spirito.>> Inoltre, a pag. 39, fa dire alla vergine Giulia Flaviana Morosini, ipostasi della Dea Roma, che dopo la morte di Flavio Claudio Giuliano nel 363, <<i discendenti di Giuliano hanno conservato, attraverso i secoli, il culto segreto degli antichi numi tutelari di Roma…>>, e quindi che <<Noi non combattiamo contro qualcosa, ma per qualcosa: per affermare l’idea di Roma, la grandezza dell’Impero… Noi… saremo sempre vincitori, anche se perderemo la vita, anche se le orde dei barbari ci travolgeranno. Perché l’Impero è eterno… sebbene non sempre si manifesti agli occhi della gente>>.

Essere Romano, sentirsi Romano significava soprattutto una cosa: la strettissima adesione al mos maiorum. Era il mos maiorum che regolava la vita della stirpe e ne custodiva la purità dei costumi, come fatto essenzialmente spirituale. Furono molti i non Romani di origine che, avendo l’animo intriso di grande amore per quell’idea di luce che Roma rappresentava, divennero i cantori più fervidi della romanità, e furono da Roma amati come veri e propri Quiriti. Però, Roma distingueva fra la “impotentia” e la “feritas” dei Barbari, la “laevitas” e la “vanitas” dei greco-asiatici (visti anch’essi come Barbari) e la “pìetas”, la “virtus”, la “humanitas” del proprio popolo. Dal 91 a.C. (inizio della guerra sociale, in cui l’Urbe aveva conosciuto anche la “crudelitas” degli Italici originari), al 410 d.C., Roma ebbe più volte a confrontarsi col “furor impius” dei Barbari. La massima di Cesare (distruggere e respingere tutto ciò che era inassimilabile ed utilizzare tutto il resto) aveva sempre portato ottimi frutti. D’altra parte, sin dalle sue origini e fino all’ultima guerra punica, dalle guerre interne sino a Giuliano Augusto, il Civis Romanus si pone davanti al Barbaro come artifex di fronte alla rozzezza del selvaggio che ha un grado di perfezione assai ridotto. Poiché è proprio dell’artifex utilizzare le energie pure e la materia buona, adatta, plasmabile dall’intelligenza, e scartare ciò che non serve ed è deleterio. Il conflitto tra Roma e l’anti Roma si può così sintetizzare: l’uomo e la donna romani costituiscono l’anima improntata da Humanitas, Pìetas, Gravitas; l’uomo e la donna barbari (germanici o asiatici) hanno un’anima costrutta di feritas, vanitas, luxuria. Yves Albert Dauge(“Le Barbare-Recherches sur la conception romain de la barbarie et de la civilasation”-Bruxelles, 1981), ha addirittura redatto una tabella comparativa tra romanità e barbarie. La romana humanitas, magnitudo animi, sapientia, si oppone alla feritas; continentia, temperantia, recta ratio, perfecta ratio si oppongono alla ferocia, il barbarico belli furor contrasta con la romana fortitudo, firmitas, tranquillitas, pacis, amor; alla discordia è opposta la iustitia, l’aequitas, la concordia, la fides, la pìetas; con- stantia, gravitas, prudentia, vera virtus sono ben altro che la vanitas barbarica. Il polo romano è orientato verso il bene di una missione civilizzatrice; il polo barbarico è difficilmente (a volte, del tutto impossibile) utilizzabile al fine necessario del progresso delle genti. E Roma fu soprattutto civiltà di LUCE (ne accennavamo prima), a fronte di un mondo avvolto nella oscurità del disordine animico e sociale; la limpida, lucida, religiosità romana stava di fronte al resto del mondo in cui non vi erano che sacerdozi vendicativi, e popoli schiavi dell’abbruttimento materialistico dei loro stessi sovrani bramosi di possesso: <<La radice soprasensibile della Roma terrena, sottratta ad ogni vicissitudine del mondo sublunare, costituisce l’inesauribile serbatoio di energie divine al quale è chiamata ad attingere la minoranza creatrice degli Eneadi, perpetuamente rinnovantesi per mandato divino.>> (Piero Fenili, “Politica Romana”, 5/1998-1999, p.45) Il Dauge riferisce, nella sua opera citata, che Enea intuisce <<la Roma celeste, verde, rossa e bianca, sotto il suo sole mistico – e la colloca nel suo cuore quale idea perenne>>.

Forse, l’aver creduto che le già nemiche genti avessero compreso ed accettato la missione dell’Urbe (nel mentre il livore e la vendetta meschina sempre covava), fu causa della mutata concezione dei fines, che poi si ritorse contro l’inviolabilità d’Italia. La Roma Celeste è l’altra Roma, la Roma adelia costituente l’arcano altissimo della tradizione romano-italica. I tre colori, che rimandano alla più antica tradizione dei popoli indoeuropei, ritornano nel misterium della Beatrice dantesca (p. es. il c.XXX del “Paradiso”, con i cenni al colore “rubin che oro circumscrive” v.67; il verso 83: “col volto verso il latte”; il verso 111: “quando è nel verde e ne’ fioretti opimo”, e più in generale l’intero canto con le descrizioni del fulgore della luce, della rosa, della mirabile primavera), e nell’Eneide medesima in VI, 638 (amoena virecta); VI,644 (fulva harena), dove eroi e sapienti sono cinti alle tempie da bianche bende :<<nivea cinguntur tempora vitta>> (VI,655). Proprio nell’Eneide i tre colori saranno associati per sempre alla Saturnia Tellus. Giovanni Lido, autore bizantino del Vi secolo, scrive a chiare lettere che i tre colori rimontano alla prisca romanità ed indicavano non solo i Ramnes, i Luceres e i Titienses ma anche la vittoria nei Ludi (“giochi” rituali ed iniziatici). Vorremmo aggiungere che quei “neopagani romani” di oggi tutti presi fra rimembranze e “culti”, pronti a bollare come non romano, quindi estraneo e sovversivo quanto attiene al magismo ed al magistero ermetico-alchemico di Roma (per usare un linguaggio “contemporaneo”), che nulla è mai stato più magico di Roma, ad onta di chi rammenta il famoso senatoconsulto contro i “caldei” emanato per preservare – giustamente – il culto romano a fronte di una pletora di truffatori levantini (che nulla di caldeo avevano) che affollavano i territori soggetti a Roma. Ma proprio per questo, contraria contrariis curantur, il pontificato Romano, Numano e Lucumonico, si afferma come eminentemente aristocratico e teurgico.

<<Ci sembra opportuno, terminando questo capitolo, di evocare il mito della fenice che, per molte generazioni di Roma antica, ha simboleggiato la potenza-quasi alchimica- di trasformazione e di rinnovamento, il trionfo della vita, della luce e dell’arte sul tempo. Ma ciò che è soprattutto degno di nota, nel caso di questo uccello solare, ove se ne accetti un’interpretazione particolarmente conforme allo spirito romano, è che le sue manifestazioni non hanno un identico valore: dall’una all’altra in effetti, sussiste una progressione, un perfezionamento. Così, secondo Claudiano, alla Fenice che si accinge ad una nuova resurrezione, il sole rivolge questo incoraggiamento: Mutata melior procede figura…>> (Dauge, op.cit. 803-804)

La rappresentazione dell’Axis Mundi, collegamento dei piani dell’Essere, si concretizzava nel rito circumambulatorio e con i riferimenti –anche costruttorii- alla costellazione dell’Orsa e dell’emisfero boreale; così, nell’ordine del Septimontium: Cermalo/Palatino/Celio/Oppio/Fagutale/Cis -pio/Velia, in cui il Palatino si trova al centro dell’Urbe, così nella stessa significazione misterica della fondazione magica-iniziatica della Città, nel tracciato del sulcus primigenius, nell’accensione del fuoco divino, che il fuoco domestico ripeteva – e mai doveva spegnersi -, nella concezione stessa vergiliana e virginale del rito legato al solstizio invernale, dell’Ignis Vestae, o nella concezione della Mors Triumphalis , che veniva vissuta come fase finale della perfezione iniziatica del sacerdozio misterico. Accanto alla Roma “esteriore”, esterna, v’era (vi è) una Roma Urbica o fratrìa arcana, il cui nome geniale non è pronunciabile. Al Senatus visibile, corrispondeva il Senato adelio: collegio pontificale perennemente intronato nel suo circolare Mundus, invisibile, che chiuso con quadrata petrosa lastra alle profanazioni del vulgus, era diuturnamente ricordato dal fuoco costantemente acceso nel circolare Tempio di Vesta, dalle invocazioni pontificali o dalle rituali aperture periodiche. Giano, il Fuoco, Venere, lo stesso Padre Romolo, ne furono e sono le sublimi verità celate, unitamente a Juppiter e alla sua folgore, Vesta e Marte ed Apollo e Minerva. In imo luminoso arcano Saturno rege ed aureo, ascoso regna. <<Il popolo che storicamente appare alla critica più equilibrato, meno folle di temperamento, è il romano; e nella letteratura, nell’arte, nella lingua, nella politica, nell’amministrazione della giustizia, nel carattere stesso della sua religione, questo popolo nella sua storia, nei periodi più grandiosi e più terribili di essa, non presenta figure di squilibrio folle neanche innanzi all’esplicazione dell’eroismo che è una forma di follìa generosa, ma sempre follia.

L’introduzione dei culti orientali a Roma, e poi la pestilenza della pazzìa giudaica, dettero l’esempio del contagio della follìa ragionante che mutò faccia, distrusse l’opera del genio di Roma gentile e restituì per diciassette secoli l’occidente alla barbarie>> (G.Kremmerz, Scienza dei Magi, vol.II,pag.151- Ed.Mediterranee). Racconta Zosimo, storico bizantino della seconda metà del V secolo d.C., di ciò che era stato profetato quando i cristiani distrussero anche la statua dela VIRTUS: <<…tra queste c’era pure la statua del Valore, che i Romani chiamano Virtus. Dopo averla distrutta, i Romani persero il coraggio ed il valore: così allora avevano profetizzato coloro che si occupavano di cose divine e di riti tradizionali>> (Zosimo, “Storia Nuova”). Recidendo il legame con la Vittoria si ponevano Roma e l’Italia alla mercé dei Barbari. Come in effetti è stato. ROMA va custodita nel cuore non nell’ esteriorità di chi – dicendo di lodarla – in realtà non la comprende e la profana. Anticipammo, all’inizio di queste note personali, che ROMA risorgerà e che la sua Aquila volerà ancora sul mondo: quando? Allorché, maturi i tempi, il Maggior Nume pronuncerà la parola Fatale.

Claudio Pirillo

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