8 Ottobre 2024
Cultura

Rinascite. Il Museo Nazionale Archeologico di Taranto

Il Museo Nazionale Archeologico di Taranto (M.Ar.TA) si ripropone al pubblico con un nuovo allestimento. Dopo lunghi anni grigi, in cui palpabile era la sensazione dell’indifferenza istituzionale al suo sviluppo, la nuova gestione a cura della Dott.ssa Eva Degl’Innocenti sembra ridare linfa e slancio ad uno dei più importanti poli museali d’Italia, che detiene alcuni tra i reperti di maggior rilievo della storia antica del bacino mediterraneo.

A partire dal 29 luglio 2016 un intero piano, per un totale di circa dieci nuove sale, si è aggiunto al preesistente allestimento. Sono stati finalmente esposti i tesori della Preistoria locale e della Taranto pre-ellenica, per troppo tempo rimasti inaccessibili al pubblico a causa (presumibilmente) della mancanza di fondi necessari per l’inaugurazione dei nuovi spazi, unitamente ad autentiche perle quali la giara micenea di Scoglio del Tonno e l’”idolo” di Arnesano, le c.d. Veneri paleolitiche, maschere rituali, la copia fedele della Kore in trono conservata presso l’Altes Museum di Berlino (originale di cui si auspica il ritorno a casa) e molte altre.

Su tutto troneggia l’inimitabile Zeus di Ugento, l’atletico dio in atto di scagliare la folgore, lo sguardo sereno e tremendo fisso in avanti (su Tifone, istoriato in tutta la sua spaventevole inquietudine su un vaso a collo stretto? O su uno dei Titani ribelli cantati da Esiodo nella sua Teogonia?), che domina la prima sala introducendo il nuovo percorso. Di sala in sala, ci sentiamo assaliti dalla storia gloriosa dei nostri Padri e dalla magia della spontaneità espressiva di cui sapevano mostrare assoluta padronanza.

E qui l’occhio deve farsi lama e apprendere a penetrare. Un semplice motivo a spirale su un coccio vascolare neolitico, ad esempio, lungi dall’essere un mero ghirigoro decorativo all’uso dei moderni testimonia di una visione del mondo e dei rapporti tra uomo e Sacer ben definita a chi si prenda la pena di scagliare l’intelletto, etimologicamente inteso, di là dalle nebbie delle forzature interpretative contemporanee. Lo stesso si può dire di alcune rappresentazioni dell’Axis mundi, dei motivi solari e labirintici di cui i nostri più antichi progenitori disseminarono le più umili suppellettili destinate all’uso quotidiano.

Con un balzo di millenni veniamo inesorabilmente attratti dalla fissità dello sguardo della Menade la cui danza, illo tempore (in un attimo fuori dal tempo), fu catturata e fissata su uno dei tanti tesori magnogreci a tinte rosse e nere custoditi presso il M.Ar.TA. Quello sguardo puntato sull’ignoto, fin dentro le pieghe del velo che copre il reale, rende meglio di migliaia di pagine il nucleo profondo del rapimento estatico (aggettivo scelto non a caso, bensì da leggersi in chiave prettamente ‘tecnica’) peculiare del tiaso dionisiaco; così come la purezza inimitabile della testa attribuita ad Artemide, copia romana di un originale greco depauperata del suo diadema, attesta – in uno con lo sguardo sideralmente lontano che sigilla il busto di Athena e l’Augusto capite velato – di una concezione della vita che, per i Maggiori, fu più-che-vita, distante anni luce dalla triste visione materialista e catagogica dei nostri contemporanei.

Ancora, i monumentali sepolcri di età tardo-arcaica testimoniano della finezza e del gusto dell’aristocrazia tarantina, oltreché di un rapporto con la morte vissuto con compostezza ed alieno dall’angoscia che assilla l’homo consumans. Numerosi sono i segnacoli funebri (ma non si dimentichino le splendide steli funerarie di età romana, alcune anche riconducibili a personalità che rivestirono importanti cariche civili e sacerdotali), ora più ora meno ‘spartani’ nelle loro velleità ornamentali, per non parlare del sarcofago dell’Atleta, contemplante le anfore ottenute in dono a seguito delle gare attiche, e del fedele rifacimento della tomba a camera detta “degli Atleti” con il relativo corredo funebre, comprensivo di numerose suppellettili destinate all’uso dei simposiasti.

Ma, trattando di gusto e di finezza, non si possono tacere gli universalmente noti Ori di Taranto, gli specchi, i gioielli e gli ornamenti veramente degni di dèi (i celebri “deos iratos” di Quinto Fabio Massimo in Livio, Ab Urbe Condita Historiae, XXVII) e, a ben vedere, forse testimoni anch’essi di un declino inesorabile dei figli del ver sacrum partèno guidato da Falanto. Declino etico e sociale che, tuttavia, nulla ha a che vedere col fraintesissimo, e non senza malizia, “molle Tarentum” oraziano.

Innumerevoli le ‘minuterie’ degne di nota, tra cui spiccano – deliziosi nelle rispettive cornici vascolari – i volti delle due “ragazze del mistero”, dalla bocca velata e dallo sguardo apparentemente evasivo, che con la loro vivacità fanno da contraltare alla serena e distaccata ieraticità della Artemis Bendis, delle Kòrai assise in trono e recanti patera e colomba (o, alternativamente, bocciolo di loto), per tacere dei Dioscuri, immortalati nei numerosissimi ex voto che un popolo di marinai non poteva non rivolgere ai divini Gemelli guerrieri protettori, tra le altre cose, dei naviganti.

C’è, onnipresente e ineludibile, il mondo del Sacro, che fa irruzione ovunque, anche dalle più umili suppellettili adibite all’uso quotidiano. Numerosi e spesso di pregevole fattura gli oggetti consacrati al culto, dall’ampolla sacra a Ygieia alla coppa destinata ad Eracle ed all’ara dedicata a Iuppiter Optimus Maximus Conservatori Domus Aug[usti], senza contare la più riposta dimensione misterica e della magia, attestata da alcuni pezzi (più unici che rari) – quali omphaloi e dischi votivi risalenti al IV-III sec. a.e.v. – contemplanti simboli e sigilli riconducibili alle diverse funzioni impersonate dagli dèi e di evidente finalità mantica e, forse, teurgica.

Troppe sono le bellezze custodite nello scrigno del M.Ar.TA, impossibile enumerarle tutte in questa sede per ovvie ragioni di spazio. Ci avviamo alla conclusione rilevando che lo sforzo sostenuto dalla nuova Direzione (sforzo altresì rivolto ad una positiva e “sostenibile” cooperazione tra antico e moderno, nel segno della strumentalità delle nuove tecnologie poste a supporto del percorso) è evidente e palpabile, ma l’encomiabile forza di volontà della dirigenza non può fare miracoli. La carenza di personale è un problema serio, che va preso di petto e risolto una volta per tutte. Non è possibile, infatti, affidare il monitoraggio di un Museo di tale importanza a una sparuta pattuglia di volenterose (e, va detto, cortesissime) unità, perdipiù nel pieno di un’Estate che ha portato qualche timida fioritura turistica in una città devastata dalle note problematiche sociali ed economiche e che, per la sua innegabile bellezza ancora tutta da valorizzare, chiede all’avvenire qualcosa di meglio per se stessa. In questo, le Istituzioni possono e devono fare molto di più, onde consentire la fruizione ottimale di un tesoro inestimabile e per lungo tempo obliato, di cui caldeggiamo vivamente la scoperta al visitatore accorto e volenteroso.

Con l’augurio, parafrasando il Cunctator, che gli dèi tarentini cessino dalla loro (pur legittima) ira e aiutino la Perla della Magna Graecia a risollevarsi ed uscire, risolutamente e definitivamente, dall’età buia che da troppo ne soffoca i destini.

I.R.

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