Per Hegel il quesito e la relativa risposta sono semplici: solo se si nega in quanto negazione il finito può muoversi, e perciò superare se stesso per trovare la sua essenza nell’Infinito. La mancanza in sé della propria essenza agisce come un propellente che lo incita al superamento di sé come negazione. Ed è proprio nel passaggio dal momento antitetico a quello sintetico che viene “svelato” il segreto della dialettica hegeliana: un segreto che Hegel chiama “aufheben” .
Questo verbo tedesco, secondo un’indagine fatta da Heidegger(1), significa: 1) “…mettere qualcosa su…” , poiché l’atto fondamentale della dialettica è in effetti quello di far apparire gli opposti, per poterli vedere. Aufhebenperciò equivale al latino tollere nel senso di prendere. 2) Elevare gli opposti alla loro unità; 3) custodire, conservare. Questa custodia si attua nell’identità assoluta, in cui però gli opposti vengono conservati, invece di scomparire come facevano le vacche nella buia notte schellinghiana.
L’aufheben è allora un superare-mantenere che implica una negazione della negazione. Attraverso questo processo il positivo si riafferma, ma non sarà più astratto ed intellettuale, bensì concreto e razionale, perché, come abbiamo detto, la ragione regola gli opposti e li sintetizza, mentre l’intelletto si pone e si isola negando l’opposizione.
Questo superamento-mantenimento (Aufhebung) segna quindi il passaggio dall’antitesi alla sintesi. Si definisce superamento perché il negativo supera se stesso ritornando al positivo, e si definisce mantenimento perché tutto l’eterno movimento triadico avviene all’interno dell’infinità della Ragione e della sua unità.
Per questo la Natura è il momento dinamico per eccellenza, momento dialettico: tutto ciò che è finito soffre la mancanza della sua casa, in particolare l’uomo, che possedendo la Ragione, si sente infelice (la coscienza infelice è la più famosa figura hegeliana descritta nelle sua “Fenomenologia dello spirito “), perché potente è in lui il desiderio di totalità, il volere di farsi Dio (tutto il Romanticismo si può spiegare col concetto di sensucht, che è il desiderio struggente di Infinito).
Il concetto di aufheben rimanda, come si può a questo punto facilmente comprendere, alla riflessione filosofica di Hegel sulla figura del Figlio nella Trinità.
Costui è uomo e Dio: come uomo è finito, morente sulla croce, mancante di vera vita; come Dio egli è Infinito ed immortale. Ma il Figlio per farsi davvero Dio deve superare se stesso in quanto uomo. Solo il riconoscimento consapevole della propria divinità può spingerlo al superamento di se stesso come essere finito.
Come Figlio-uomo egli è negazione del Padre, di cui è l’opposto, l’antitesi. Come Figlio-Dio egli è la negazione di se stesso in quanto uomo: è la volontà che vuole ritornare Padre.
Con la Crocifissione, il Figlio, morendo come uomo, rinasce come Dio. E questo diventa possibile perché solo il sacrificio cosciente del proprio limite e la determinazione di voler superare la propria finitudine, porta il Figlio a negare e perciò oltrepassare la umana precarietà.
La Crocifissione rappresenta il momento della massima abiezione, perché solo gli schiavi erano condannati ad una così terribile e spregevole pena, e, nel contempo, il momento del massimo trionfo, perché vi è con essa il ritorno alla casa del Padre, cioè alla propria divinità.
L’Infinito, dice Hegel, deve sporcarsi nel finito per poter essere davvero Infinito. Ed è proprio questo sporcarsi che rende degno il finito.
Per cui, se il Figlio incarna in sé il dualismo fra Infinito-finito, tra natura e spirito, tra uomo e Dio, la Crocifissione diventa il simbolo del minimo e del massimo, della morte e della vita, che celebra nell’apoteosi il ritorno all’Infinito. La negazione negando se stessa si fa nuova affermazione, si fa Spirito Assoluto o, per la religione, Spirito Santo.
Hegel chiama questa risoluzione dell’idealismo momento speculativo, positivo, razionale e concreto. Tale momento rappresenta l’intuizione della verità eterna, cioè dell’Infinito e della Totalità. Il ciclo triadico così si chiude. Si è partiti dall’Infinito e si è ritornati ad esso. Il primo momento, l’Idea, era quello della astrattezza e della massima povertà di contenuto. Un Infinito che non sapeva di essere tale. Solo alienandosi nel finito l’Infinito scopre la sua infinità. E’ il finito che lo rende cosciente di sé. Un finito che ha l’essenza nell’Infinito e che proprio per questo vuole tornare alla vecchia “sede”. Quando però il viaggio di ritorno si compie, il vecchio Infinito non sarà più “com’era”, perché esso intanto ha avuto l’esperienza del finito, e quindi si è fatto cosciente attraverso la finitudine, diventando così vera Totalità.
Con il momento speculativo (termine che deriva dal latino speculum, specchio, da cui il significato dato da Hegel di visione) si ha la sintesi fra l’Idea (il primo Infinito astratto), Natura (il finito dialettico) e Spirito. Uno Spirito che è ben più completo dell’Idea, poiché esso è concreto (è Vero Essere) e razionale in cui tutto viene compreso e risolto.
E se si ritorna al parallelismo con la Trinità cristiana, si ricava con evidenza che solo lo Spirito Santo è il vero Dio assoluto. Il Figlio, abbandonando sulla Croce la propria finità di uomo, ritorna al Padre: tuttavia Egli è ora il nuovo Dio perché ha in sé la totale completezza. Egli è infinita Totalità, poiché attraversando tutto il dolore umano, vivendo nella aberrazione più infima, è riuscito a superare il proprio limite non avendo paura di sporcarsi con esso, perché solo conglobandolo in sé poteva superarlo.
“Vero, è infatti l’intiero” diceva Hegel.
Lo Spirito Santo è la pienezza totale ed armoniosa, che per i Cristiani è Amore (si veda S.Agostino), ma che in realtà è oltre l’Amore, perché avendo l’esperienza del Tutto, Egli è, appunto, Tutto.
Vi è dunque una stretta correlazione fra la triadicità della dialettica hegeliana e la trinità cristiana. La filosofia e la religione hanno perciò lo stesso fondamento eterno (Dio), con la differenza, dice Hegel, che la filosofia lo esprime in forma superiore, poiché la trattazione filosofica richiede l’impiego di una terminologia logico-ontologica razionale, mentre la religione si avvale di figure ed allegorie che si rivolgono al sentimento della fede. La relazione fra Trinità religiosa e triadicità filosofica non è tuttavia del tutto identica concettualmente, e pertanto si rendono necessarie alcune chiarificazioni.
Nella Trinità il Padre è trascendente e crea “ex nihilo” il mondo, mentre in Hegel esso viene posto dinamicamente e non cronologicamente dall’attività stessa dell’Infinito. I tre momenti del Tutto sono, come si è detto, eterni e sostanziali in senso dinamico. Il loro porsi (setzen) deve essere inteso nel senso di “… staccare e deporre qualcosa per sé e conseguentemente porlo in contrapposizione (entgegensetzung)” (2).
Ciò significa che Hegel non ammetteva la trascendenza di Dio fuori dal mondo, poiché, essendo Dio la Ragione stessa, avrebbe dovuto negare la razionalità del reale finito, e quindi si sarebbe riproposto quel dualismo tra Infinito-finito che doveva essere del tutto superato. Se la realtà, infatti,deve essere ricondottaalla razionalità attraverso il libero agire dell’Autocoscienza, essaessere dentro la Ragione e non fuori.
Essa governa il mondo entro il mondo e lo costituisce, sebbene in un processo lungo e spesse volte nascosto, in quanto essa talvolta si avvale delle passioni umane, a volte incomprensibili, (che Hegel chiamerà “astuzia della ragione”) per rivelare se stessa. Nel Cristianesimo, invece, il Figlio-lògos interviene nel mondo per salvarlo e redimerlo dalla sua dannazione dovuta al peccato originale commesso dall’uomo e quindi anche in questo caso possiamo osservare che ci sono delle tappe necessarie che vengono stabilite da Dio secondo un progetto provvidenziale che va dall’Eden alla caduta, dalla dannazione alla prima venuta, dalla possibilità della grazia alla seconda venuta, fino al giudizio universale.
Anche in tal caso si deve rilevare che per Hegel la Ragione non salva o né redime.
Hegel prende dalla teologia il lògos fondamentale, trasferendolo si di un piano logico-metafisico, costruendo così il suo sistema. Perciò, pur non essendo ateo, si può dire che egli non era del tutto cristiano. Il suo immanentismo razionale esclude l’intervento di una Volontà divina libera e creatrice; la sua etica non comporta l’accettazione, fondamentale per un cristiano, di valori costruiti sulla volontà compassionevole e redentrice; la guerra poi è per lui il giudice della storia e non certo l’amore.
Infine per Hegel l’ingresso di Dio nel mondo non è dovuto inizialmente all’incarnazione divina nell’uomo, ma all’avvento dello stato che crea il diritto positivo e che forma gli uomini, togliendoli dallo stadio zoologico e aprendoli a comprendere il percorso dello Spirito.
Resta il fatto che senza questa teologia il suo pensiero non sarebbe mai giunto ad una sistematicità così grandiosa ed onnicomprensiva.
Da quanto detto si può notare che ci sono notevoli differenze, ma più forti sono le analogie. Sorge ora una domanda decisiva per comprendere sino in fondo il senso del pensare dialettico in Hegel.
Sinora si è cercato di dimostrare come egli abbia risolto il problema del dualismo nel far coincidere la realtà con la razionalità. Non si è ancora approfondito il tema riguardante lo scaturire del divenire storico.
La dialettica che si è esaminato riguarda la Totalità infinita ed eterna, cioè l’Idea, la Natura e lo Spirito. Come, invece, si sviluppa il divenire del mondo?
Per immaginare il sistema hegeliano si deve pensare ad una sfera infinita che comprende tutto e al cui interno si muovono a forma di spirali tutte le contraddizioni del finito secondo lo schema della dialettica triadica. Il Lògos eterno di Dio diventa il lògos temporale degli enti non modificando però la sua struttura basata sull’aufheben.
Il divenire scaturisce, da sempre, all’interno dell’Infinito stesso che comprende in sé i due principi generalissimi, ossia quelli dell’essere e del non-essere. Questi due principi sono stati concepiti, come abbiamo visto, come i principi della manifestazione e della non-manifestazione; per Hegel essi sono invece i concetti più estesi della Ragione e come tali i più vuoti, in quanto privi di ogni contenuto empirico. La loro estrema genericità li fa coincidere: essere e nulla sono lo stesso. Dice il filosofo:
“Ora, questo puro essere è la pura astrazione, e, per conseguenza, è l’ assolutamente negativo, il quale, preso anche immediatamente, è il niente” . (3).
E ancora:
“Reciprocamente, il niente, considerato come codesto immediato, uguale a se stesso, è il medesimo che l’essere. La verità dell’essere come del niente è perciò l’unità dei contrari “(4).
Ed infine:
“Il divenire è la vera espressione del risultato di essere e niente come l’unità di essi: e non è soltanto l’unità dell’essere e del niente, ma è l’irrequietezza in sé” (5).
Il sorgere del divenire è allora la sintesi fra essere e non-essere, che, ripetiamo, per Hegel sono i due concetti più puri, assolutamente astratti, che nel loro scontrarsi dialettico originano il divenire. Un divenire che è sempre ordinato, più o meno palesemente, in base alla legge suprema. Ecco che allora la stessa storia dell’uomo è spiegata come il progressivo affermarsi della Ragione. secondo una concezione già presente in Vico, che va dalla coscienza, all’autocoscienza fino alla Ragione o Spirito. La descrizione logico-concettuale e storico concettuale di tale percorso viene illustrata da Hegel nel suo primo grande capolavoro filosofico, che è “La fenomenologia dello spirito” .
Lo stadio della coscienza rappresenta la vita zoologica dell’uomo, che ha in sé tutte le potenzialità, senza però esprimerle in quanto egli vive nell’immediatezza naturale. La seconda tappa, quella dell’autocoscienza, è la più importante, perché parla della storia umana, dell’affermarsi dello stato, della nascita delle classi sociali (celebre è la figura meta-storica del servo e del padrone), della guerra e del dolore e della coscienza infelice. Aspetti, questi, che Hegel non considera negativamente, ma, al contrario, che ritiene necessari per l’affermazione stessa della Ragione. L’amore, che nelle opere giovanili era pensato come un sentimento capace di conciliare gli opposti, viene ora giudicato quasi inutile, poiché opera sintesi a “buon mercato” , mentre la guerra è la vera levatrice della Ragione, poiché le sintesi che essa opera sono sì il prodotto della fatica, del sudore e della sofferenza, ma proprio per questo sono sintesi superiori che rendono lo spirito umano sempre più consapevole di sé.
Ecco che allora si spiega come la Ragione governi il mondo e la storia: lo stesso Eraclito scriveva nel suo fr. 64 che “Governa tutte le cose il fulmine” , paragonando il lògos dei contrari al fulmine-fuoco. Con questa veduta Hegel darà il via a quel modo di interpretare la storia che sarà definito, dai moltissimi suoi cattivi interpreti (da Schopenhauer a Kierkegaard, per giungere fino a Popper e ad Abbagnano, come il fondatore o il sommo sacerdote dello storicismo idealistico. In generale costoro hanno giudicato Hegel o come un ciarlatano, poiché non comprendeva l’intima irrazionalità dell’agire umano, che è insensato e caotico (anche Nietzsche in verità la pensava così), oppure come un pazzo che giustificava tutto il percorso storico umano indipendentemente da ogni differenza ontologica fra Bene e Male. Infatti se si considera che vi è una uguaglianza perfetta fra realtà e razionalità, solo chi vince o ha successo incarna in toto il disegno della ragione e della sua necessità provvidenzialistica. A rigore, gli Americani, oggi, dovrebbero essere, in quanto vincitori delle guerre mondiali e della guerra fredda, gli strumenti del trionfo della razionalità nella storia. Se così fosse Hegel sarebbe stato davvero un povero minorato mentale. Per fortuna questa veduta, insegnata ancora nelle scuole liceali (il manuale dell’Abbagnano-Fornero è il più adottato) e nelle università dove trionfa (segno dei tempi) la nullità filosofica di Popper o il nulla wittgensteiniano e dei neo-positivisti, sta per essere incrinata e messa in discussione. Del resto non serve fare tanti discorsi per smentire l’interpretazione ancor oggi dominante su Hegel: basta prendere in esame il suo famoso paragone fra la filosofia e la nottola (la civetta) di Minerva. Questo rapace, scriveva Hegel, si alza in volo sul far del crepuscolo, quando la realtà è già bell’e fatta. Ciò significa che il sapere filosofico può solo comprendere ciò che è stato, ciò che è avvenuto, ma non può avere la pretesa di guidare e determinare il futuro. La filosofia ha allora il compito di “vedere” il filo logico che si rivela nell’agire umano, avvalendosi del suo principio razionale più potente, che è la dialettica. Non c’è quindi nessun disegno provvidenzialistico da parte della ragione. L’uomo storico, quando è nella sua pienezza autocosciente, può solo comprendere (prendere-con, sussumere) il percorso, che peraltro Hegel considerava lento, della storia umana, cercando di adeguare al “Begriff” (al concetto razionale) la realtà dei fatti che nel manifestarsi potevano sembrare del tutto casuali.
Spiegare il passato non significa quindi stabilire cosa accadrà nel futuro: al massimo si potranno individuare le tendenze più importanti presenti in un dato momento storico e nulla più.
Per queste ragioni definire Hegel un giustificazionista o ancora, come scrisse Popper, che non capiva nulla o quasi di filosofia metafisica, un nemico della società aperta, è una assurdità completa. Hegel riteneva solo che nella storia c’è la “presenza” immanente di una spiritualità che si compie. L’Assoluto hegeliano non cade dal cielo, come scrisse Costanzo Preve, ma è “…la metafora della totalità etica di un popolo” (6). E’ uno Staat inteso come comunità organica. Comprenderla è il dovere della filosofia che si propone la ricerca del vero. Rinunciare a tale compito significa cadere nella dimensione di un nichilismo totalizzante, che nessun superuomo può dominare.
Passiamo ora ad esaminare confronti e critiche che si possono apportare al pensiero hegeliano.
Come si è potuto notare ci sono alcune differenze fra la dialettica di Eraclito e quella di Hegel. In Eraclito gli opposti sono posti sullo stesso piano ontologico è perciò sono entrambi positivi, in quanto esistono empiricamente e scaturiscono del fluire di forme vitali che nulla hanno dell’astrattezza delle norme logiche.
I contrari contrastanti lottano fra loro in una guerra che viene vinta da quel contrario che gioca meglio. L’unica necessità intrinseca alla dialettica eraclitea è che i contrari sono complementari e concordanti in modo indissolubile nell’ “eterno” (sarebbe meglio dire perpetuo) temporale. La vittoria di colui che vince non è mai definitiva o totale: ad esempio, la pace non trionferà mai sulla guerra, l’amore sull’odio e viceversa e così sarà per tutte le coppie di opposti che si combattono nel mondo della finitudine e del divenire. Infatti, quanto viene vinto un “nemico” , questo rinascerà sotto altre spoglie: solo gli stolti o i falsi sapienti, diceva Eraclito, possono davvero credere che ci sia una vittoria conclusiva di uno dei due contrari. Se ciò accadesse sarebbe la fine del mondo stesso e del suo mutamento. Un bene assoluto diverrebbe il male assoluto e la vita stessa perirebbe.
I contrari, quindi, si ripropongono senza fine. L’Infinito Uno non partecipa, né parteggia per uno o per l’altro. Assiste, neutro, nella sua Trascendenza, alla loro eterna lotta. Esso è al di là di essi e il suo unico “compito” è quello di contenerli, essendo il loro incondizionato fondamento.
In Hegel, invece, l’Infinito non è solo il contenitore, ma viene considerato come contrario del finito, sebbene, a dire il vero, questi sia dentro l’infinito stesso. Il motivo di questa scelta metafisica l’abbiamo or ora spiegato: Hegel nega la trascendenza della Ragione e considera il finito come ideale, cioè come non autonomo in sé, poiché esso non possiede in sè una sua autonomia esistenziale (il che, come s’è detto, non comporta uno svilimento del finito).
La sua dialettica presenta una conflittualità fra una tesi ed una antitesi che si risolve sempre in una sintesi superiore. Fra l’altro i due contrari fondamentali, l’Infinito e il finito, nonsono posti sullo stesso piano ontologico, perché il finito non ha una sua essenza, una sua ragion d’essere in sé, e quindi vi è di fatto una netta differenza ontologica.
E’ pur vero che sia Eraclito ed Hegel rifiutano ogni dualismo, che per entrambi implicherebbe una veduta falsa ed incompleta dell’Infinito, in quanto il dualismo porta ad una scissione senza soluzione, e quindi ad un isolamento che li depotenzia e li svilisce.
Tuttavia considerare il sistema hegeliano un sistema chiuso è del tutto erroneo (anche Marx cadde in questo fraintendimento). La dialettica della Totalità (Idea, Natura, Spirito) è la legge eterna dell’Infinito. Il mondo finito, pervaso intimamente da questa legge, non può giungere in sé a nessuna sintesi totale, proprio perché esso è divenire, temporalità, e come tale può solo aspirare all’eterno, senza mai raggiungerlo: perciò egli sa benissimo che qualsiasi modello politico sarà soggetto a trasformazioni. E’ chiaro che Hegel propose nei suoi “Lineamenti della filosofia del diritto” un modello di stato ispirato al vero e al giusto, ma credere che egli configurasse uno stato perenne, come ritenne Marx, è del tutto improprio.
La dialettica hegeliana poi, proprio a causa della sua triadicità, è stata oggetto di molte critiche, in particolare da parte del filosofo Tredenlenburg e del suo moderno epigono Popper, che misero in rilievo i limiti di tale dialettica.
Costoro affermarono che la negazione può avere un duplice aspetto: o è puramente logica o è reale, due aspetti che secondo loro per Hegel sono indistinguibili, in base alla sua massima che ci dice che “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale”. Invero, se invece prendiamo atto della distinzione fra logica pura formale e logica reale, vediamo come la prima implichi, come dimostrò Aristotele, la contraddittorietà fra due concetti o due proposizioni. Si può esemplificare il discorso portando il caso di due proposizioni algebriche: nella prima si afferma che a=b (tesi) nella seconda si dice che a non è b (antitesi). Il rapporto di contraddittorietà stabilisce che se una delle due proposizioni è vera, l’altra è necessariamente falsa. Per cui le due proposizioni si escludono, proprio perché fra una proposizione vera ed una falsa non ci può essere integrazione o conciliazione, ma solo esclusione. E, in effetti, “…può un’opposizione logica determinare uno svolgimento del pensiero tale da far sorgere un nuovo concetto che unisca in sé positivamente le autoescludentesi affermazione e negazione?” .
Ciò non è pensabile, perché fra due termini contraddittori, di cui uno è il positivo e l’altro il negativo, non è possibile che nasca dal loro rapporto un terzo (tertium non datur). Non ci può essere intesa fra due termini o proposizioni di cui una è data per necessariamente vera e l’altra per necessariamente falsa. Il positivo rivendica la sua positività e il negativo può solo opporsi. Quindi non è possibile nessuna unione sintetica a livello logico-formale.
In altre parole, la logica matematica, che è logica pura astratta (anche se ovviamente ha grandissime applicazioni pratiche ai fini della misurazione degli enti) si fonda sul principio di non-contraddizione, che esclude necessariamente ogni possibilità di sintesi fra il negativo e il positivo. C’è da ribadire rispetto a tali critiche che Hegel non ha mai affermato il contrario poiché sapeva benissimo che in campo matematico e scientifico l’unica logica possibile era quella aristotelica.
Si è però detto che l’opposizione può essere reale. Essa si ha quando si verifica lo scontro fra due entità esistenti, come può essere il conflitto fra due stati o fra due classi sociali o fra due interessi e così via.
Secondo Hegel la storia umana è caratterizzata dallo scontro dialettico fra enti e da tale scontro sorge sempre una sintesi superiore che diventerà poi una tesi che combatterà con un’antitesi, per poi attuare una nuova sintesi e così fino alla fine della storia, che si concluderà con l’affermazione dello Spirito oggettivo, ovvero con la costruzione di uno stato organico, il cui modello viene proposto nel suo più profondo lavoro di filosofia giuridico-politica, che è intitolato “Lineamenti della filosofia del diritto” .
Ora c’è da sottolineare il fatto che gli enti reali sono enti esistenti, ed anche ammettendo che da un loro eventuale scontro scaturisca una sintesi, come può essere una nuova civiltà, (7) bisogna tener presente che i contrari reali possiedono l’esistenza, e come tali non possono essere giudicati o del tutto negativi o del tutto positivi, in quanto il loro stesso esistere conferisce loro una dignità, cioè li rende entrambi affermativi. Il fatto che un popolo, una classe e così via possano avere valori più o meno positivi in senso culturale o sociale, non vuol dire essi rappresentino in un conflitto o la parte positiva o la parte negativa. L’esistenza stessa li rende positivi, poiché essi sono reali.
E’ come se si pensasse che la caduta dell’impero romano d’Occidente, che comportò un regresso allo stadio zoologico primitivo, fosse dovuta ad una segreta trama o astuzia per far trionfare il Cristianesimo e quindi far progredire provvidenzialmente lo Spirito! In realtà la storia ha visto il crollo di civiltà superiori che sono state sostituite da altre di gran lunga peggiori sotto tutti gli aspetti. Quando si indaga il passato vediamo che le guerre, le rivoluzioni, i cambiamenti costituzionali possono sì essere studiati secondo una logica dialettica basata su coppie di contrari quali amico-nemico, azione-reazione, sfida-risposta, utile-dannoso e così via, come hanno fatto grandi storici moderni ed antichi, senza però credere che tutto avvenga per un piano preordinato scandito da una logica triadica. Gli opposti reali vivono e proprio per questo il vincitore può, in caso di conflitto vittorioso, accettare vari aspetti culturali del vinto, ma può anche annientarlo del tutto come, per esempio, hanno fatto i Mongoli durante le loro terribili invasioni (o come cercano di fare oggi le moderne pseudo-democrazie plutocratiche col nazi-fascismo o col comunismo).
Popper a tal riguardo scriverà che “…vi sono, nella storia … numerosi esempi di lotte futili, che finirono nel nulla. Ed anche quando è raggiunta una sintesi, normalmente sarà una descrizione abbastanza grossolana affermare che essa conserva i tratti migliori sia della tesi che dell’antitesi…” (8).
Hegel pensava che la storia fosse davvero segnata da un progresso sempre più consapevole da parte dell’umanità, guidato dalla Ragione eterna, ma come abbiamo rilevato non esiste nella realtà nessun fine ultimo e tanto meno ci sembra che la storia sia disegnata da una Provvidenza divina e razionale. La nostra attualità ci indica con i suoi enormi malanni e la sua irrazionalità devastante (si pensi solo alla pandemia demografica o alla distruzione delle risorse) che l’avvento di una ragione trionfante è ben lungi da venire.
Il pensiero scettico del Novecento ha attaccato a fondo il metodo dialettico hegeliano. Russell, Reichenbach, Carnap, Popper ed altri hanno criticato il pensare dialettico, cercando di coglierne eventuali incongruenze. Critiche che alla fine hanno avuto lo scopo di glorificare la presente realtà capitalistica nella sua forma assoluta, poichè negare il valore della dialettica dei contrari non significa altro che incensare una situazione storica che viene ritenuta priva di contraddizioni, semmai con la presenza di piccole storture da correggersi con delle riforme a spizzico (Popper). Questo attacco non ha tuttavia cancellato il pensiero dialettico nel nostro tempo: altri grandi pensatori si sono sicuramente rifatti al pensiero originario dei primi filosofi greci o del Tao, recuperando il senso vero della dialettica. Ci riferiamo a grandi pensatori come Toynbee, Spengler, Schimtt, Heidegger, Nolte ed altri che grazie al metodo dialettico, magari interpretato in modo personale, hanno dato interpretazioni straordinarie della realtà spirituale e storica umana.
Sicuramente Hegel è stato uno dei più grandi filosofi della storia. Se vi sono dei limiti, questi sono dipesi dal fatto di aver aderito ad una veduta totalmente idealistica del mondo.
L’idealismo contiene in sé la convinzione che tutto ciò che avviene nel mondo storico può essere riportato alle razionalità, poiché tutto è spiegabile con il principio della ragion dialettica o anche col principio della ragion sufficiente. E’ indiscutibile noi possiamo conoscere il mondo, per quello che ne siamo capaci, solo grazie al pensiero. Ma è anche vero che non tutto è idea come ha ben spiegato Heidegger nella sua “Introduzione alla metafisica” .
Hegel, cioè, non si accorse di commettere un grave errore, che è tipico di tutti gli idealisti, quando scrisse che il divenire scaturiva dal rapporto dialettico fra Essere e Non-essere.
Secondo Guènon l’Essere è il principio di manifestazione, il Non-essere quello di non-manifestazione. Essi nell’ambito della Possibilità totale non erano intesi come concetti, ma come Principi secondi che rappresentavano sia l’appetito razionale che quello irrazionale, per cui non erano pensati come concetti puri ed assolutamente astratti, ma come i principi reali della vita e della morte, indissolubilmente legati fra loro.
L’errore di Hegel fu invece quello di concepirli proprio come concetti puri.
In tal caso la critica di Trendelenburg si dimostrò efficace, quando egli sottolineò che:
“Il puro essere, uguale a se stesso, è quiete; il nulla, uguale a se stesso, è ugualmente quiete. In che modo dall’unità di due statiche rappresentazioni sorge il movimentato divenire? …poiché tanto il puro essere quanto il non-essere esprimono quiete, il successivo compito del pensiero, se si deve porre l’unità di entrambi, può essere solo quello di trovare una statica unione. Se però il pensiero da quella unità produce qualcos’altro, palesemente è perché esso stesso ve lo aggiunge, introducendo tacitamente il movimento per inserire l’essere e il non-essere nel flusso del divenire. Altrimenti non si avrebbe mai dall’essere e dal non-essere -questi concetti statici – l’intuizione in sé mobile e sempre vivente del divenire. Il divenire non potrebbe affatto nascere dall’essere e dal non-essere, se la rappresentazione del divenire non lo precedesse…” (9).
Tutto questo discorso qui riportato dimostra: 1) che l’essere e il non-essere quando vengono posti come concetti puri essi, in se stessi, sono immobili. Ora non si può comprendere come da due entità logiche statiche scaturisca il movimento; 2) il divenire, proprio perché è movimento, è costituito da due componenti fondamentali, che sono lo spazio e il tempo. Spazio e tempo sono rispettivamente il senso esterno della distanza e il senso interno della successione del prima e del dopo. Essi perciò, non sono concetti, ma intuizioniuniversali legate strettamente alla sensibilità corporale. Per cui non si comprende come da due concetti astratti (privi cioè di contenuto empirico) come l’Essere e il Non-essere nasca il divenire che è costituito dalle intuizioni spazio-temporali, che sono appunto empiriche. E’ evidente che vi è completa eterogeneità fra concetti puri ed intuizioni concrete. Inoltre, una Ragione che produce la sensibilità non sarebbe più pura Ragione.
Solo se intendiamo l’Essere e il Non-essere nel modo eracliteo o taoista, come insegna in modo insuperabile Guènon nelle sue opere metafisiche, si possono superare queste critiche radicali, che di fatto dimostrano come un idealismo totalizzante non sia possibile. Ma detto questo, resta comunque indispensabile il metodo hegeliano, se si vuole davvero indagare sino in fondo la realtà storica in cui si vive.
Grazie, infine, a tutti coloro che fanno ritornare in auge il genio di Hegel.
TOVO Flores
f.tovo@libero.it
NOTE
- M.HEIDEGGER, Seminari, ed. Adelphi, Milano 1992, p.77.
- IDEM, p.75.
- G.W.F. HEGEL, SL., & 87.
- IDEM, & 88.
- IDEM, & 88.
- F.A.TRENDELENBURG, Il metodo dialettico, ed. Il Mulino, Bologna 1990, pp. 13-14.
- Si ricordi l’esempio triadico fra civiltà greca (tesi), civiltà ebraica (antitesi), civiltà cristiana (sintesi).
- K.POPPER, Che cos’è la dialettica, sta in “Congetture e confutazioni” , ed. Il Mulino, Bologna 1972, p.536.
- F.A.TRENDELENBURG, op.cit., pp.4-9.
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F.A.TRENDELENBURG, Il metodo dialettico, ed. Il Mulino, Bologna 1990.
V.VERRA, La filosofia di Hegel, ed. Loescher, Torino 1979.
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