“Il desiderio di resistere all’oppressione è radicato nella natura umana”
(Publio Cornelio Tacito)
Alcuni anni orsono il grande pensatore polacco Zygmunt Bauman definì la nostra una “società liquida”, ove “il cambiamento è l’unica cosa permanente e l’incertezza l’unica certezza”. Eravamo agli esordi del mondo globale, moderno, votato alla velocità e all’efficienza della comunicazione, degli scambi commerciali, degli spostamenti da un capo all’altro del pianeta in tempi sino ad allora inimmaginabili. Finalmente la Terra di tutti e tutti “cittadini del mondo”. Il cosmopolitismo, la grande chimera ellenica che auspicava tutti gli uomini cittadini di un’unica patria universale, il mondo, e che prometteva nuove opportunità per coloro i quali sino ad allora erano rimasti ai margini di un pianeta diviso e ineguale, faceva capolino all’orizzonte di una nuoava alba universale. L’inebriamento durò poco. Il nuovo fenomeno globale segnava la fine della “comunità” e l’avvento di uno sfrenato isolazionismo del singolo, celato dietro il vessillo di un individualismo volto alla soddisfazione dei bisogni di ciascuno, ma, in realtà, votato al consumo bulimico di beni e cose, ingurgitati al ritmo forsennato imposto da un mercato sempre più aggressivo e diretto ad una smodata produzione economica. Il cittadino globale indorò la pillola edulcorata dalle fulgide luci di schermi allettanti alla portata di tutti: la connessione senza sosta alla rete infinita di una nuova forma di comunicazione significava parlare e scrivere senza la noia di carta e penna, fare del proprio sé, sino ad allora disperso nel meltin-pot globale, un’opera estetica fatta di immagini, video e jingle in continuo divenire, esposti impudicamente sulla vetrina dei social network, palcoscenici tecnologici dalle illimitate possibilità di moltiplicazione visiva.
Nel Paese dei Balocchi l’alba del giorno dopo tuttavia già esibiva il caro prezzo da scontare. Del resto ogni fenomeno votato all’assolutizzazione finisce inevitabilmente per travolgere tutto, alla guisa di un tosaerba su un campo di fiori, che al suo passaggio lascia dietro di sé un uniforme tappeto erboso sinonimo di perfezione architettonica, ma privo dell’armoniosa asimmetria della margherita. E’ l’era dell’entropia totalizzante e totalitaria. Tutto si offusca, o per lo meno diviene labile. I confini perdono consistenza e con essi ogni certezza. Siamo all’inversione della rotta, che pare ci riconduca a ritroso lungo passi già percorsi, in una direzione onirica e visionaria, secondo un processo inverso all’originaria espansione della materia e alla sua diversificazione: il nuovo cittadino globale vive una condizione disumanizzante, privato di ogni riferimento fermo, calato in una realtà non più in divenire, che, semmai ancora fosse tale, godrebbe per lo meno dell’ultimo bastione di riferimento, quello dello spazio-tempo, ma statica, confondendosi così con l’amalgama indistinta di una società omogeneizzata e massificata, amorfa e proprio per questo impossibilitata a darsi una definizione.
Ora, noi sappiamo che è caratteristica dell’uomo dare un nome alle cose per segnarle quali oggetti del proprio esperienziato, così che esse vadano ad implementare l’insieme della conoscenza. Quando questo non è più possibile, quando definire, ossia assegnare una forma ad ogni cosa non è più attuabile, ecco allora la difficoltà a sbrogliarsi in una realtà aliena. Nel mondo liquido sono determinanti due processi diabolici che si alimentano vicendevolmente: i centri decisionali divengono non più identificabili e le istituzioni, incarnanti i poteri statuali, degenerano in spersonalizzate macchine burocratiche. Entrambi gli attori, non coincidenti ma piuttosto sovrapponibili e complici l’uno dell’altro, acquistano in tal senso una smisurata prepotenza invasiva ed una illimitata efficienza dispotica. La struttura, necessariamente rigida che li caratterizza per assicurar loro il buon funzionamento del meccanismo, nella materia liquida che tutto pervade gli garantisce il primato quali unici corpi agenti, facendo di essi un sistema assolutizzato, onnipotente, onnipresente, onnisciente. Tutto il resto è liquido. Anche i corpi umani, abitatori del nuovo regno dell’informe, fluidificano, disfando la barriera della pelle, quanto mai più adatta nella sua malleabilità a seguire le morfologie generalizzanti della nuova imposta estetica artificiale.
Poltrone senza nomi, corpi senza volto. La società indefinita e indefinibile rischia di trasformarsi in una duttile plastilina da manipolare come meglio voglia la strategia di potere di turno, in particolar modo dopo un anno e mezzo di tempesta pandemica, che nelle modalità informative, a volte assai caotiche e per questo poco comprensive, degli addetti ai lavori, non ha certo contribuito a rinsaldare le certezze nell’umana scienza. Negli animi di coloro che intravvedono il ricordo sinistro di passate esclusioni sociali di folli, dissidenti, malati o poveri, si insinua il sospetto di una medicalizzazione forzata, che impudicamente elude il diritto di ogni individuo di decidere in autonomia le sorti del sé. La somministrazione di massa, non spiegata nei termini di una giusta dialettica, ma venduta con disordinate accozzaglie di pareri e opinioni alternate da cambi di rotta continui, diviene atto che conferma il sospetto di quanti temono un disegno predeterminato ad appropriarsi indebitamente di quel diritto a sé stessi, in nome di una politica sociale sanitaria orpellata di benevolo vetusto paternalismo. Torna alla mente un vecchio ed irrisolto interrogativo del passato: con che diritto un governo obbliga dei giovani ad andare a morire in guerra?
Orbene, oggi non è un conflitto armato quello che ci affligge, ma è ben certo che ogni qualvolta è in scacco un diritto dell’individuo già si sente puzza di polvere da sparo. E, fosse solo per tenere in esercizio l’umano pensare, è obbligo di ciascuno, scettico o meno, di dedicarvi una riflessione. I disubbidienti dell’oggi sono additati, disprezzati, emarginati. Ma categorizzare una fascia di individui, isolarli come una microsocietà nella società può rivelarsi il passo maldestro del Potere, rappresentando al contempo una forma di nuova Resistenza. Nella società liquida e apparentemente atomizzata, paradossalmente il gruppo esternizzato da un mondo dominato da altri ritrova nuove forme di aggregazione e solidarietà, si delinea in una “forma”, si riscopre essere essente ed esistente. Assume quindi un’identità d’essere, tra l’altro immune da quelle regole del gioco ufficiale, che lo hanno escluso dall’aggregato collettivo e dai conseguenti progetti premiali. Il gruppo dei Resistenti potrà assumere un valore politico, qualora le circostanze adatte gli diano la possibilità di agire, uscendo dall’aleatorietà del pensiero contrario e indirizzandosi a porre in essere forme concrete di rivalutazione del diritto negato. Al di là delle contingenze dei tempi, questo è il processo che si instaura ogni qualvolta si oppone alle strategie poste in essere dal Potere una istanza contrapposta, seguendo uno sviluppo dialettico che rinaturalizza le genuine forme del divenire, al di là di opinioni individuali e di diritti altri, comunque fondamentali, come quello della salute collettiva. Piuttosto c’è da interrogarsi se ad oggi sia possibile una forma di resistenza capace di opporsi nel tempo a forze languide e difficoltosamente individuabili. Del resto siamo ancora immersi nel mondo liquido, ove è assai arduo opporre una forza oppositiva all’ informe. L’acqua che tracima da un fiume in piena ben difficilmente si ferma di fronte a mani aperte respingenti.
Al di là dei temi che l’attualità ci offre, il tentativo in essere in questi nostri tempi lascia comunque intravvedere che un’Etica del Resistente albeggi ancora all’orizzonte, se poi essa sarà capace di intraprendere una strategia tale da opporsi all’Etica del Potere mettendo in campo una spinta contraria atta ad invertire i ruoli lo vedremo solo nel tempo e, a prescindere dalle singole prese di posizione, essa varrà a rivelare se e quanto è nelle maglie della natura umana un irriducibile operante principio di libertà dell’Uomo.
Romina Barbarino