di Luca Cancelliere
Nel dibattito che dopo anni di silenzio e di conformismo, con il precipitare della crisi economica in Europa, ha cominciato a svilupparsi anche in Italia a partire dal 2011 sulle prospettive della valuta europea e sull’opportunità del suo mantenimento, i sostenitori dell’uscita dall’Euro hanno dovuto da subito affrontare tutta una serie di pregiudizi che, lungi dal poggiare su una solida base scientifica, hanno il loro fondamento soprattutto in paure irrazionali. Queste paure, verosimilmente diffuse ad arte per ovvie ragioni politiche connesse alla nostra appartenenza (ma sarebbe più corretto dire: sudditanza) all’Unione Europea e all’area valutaria dell’Euro, sono state il cavallo di battaglia della propaganda governativa e dei mezzi d’informazione di massa. Politica, stampa e televisione hanno cercato di convincere gli Italiani da un lato dell’indispensabilità della politica di austerità portata avanti dal governo Monti dal novembre 2011 alle elezioni del 24-25 febbraio scorsi, nonostante l’evidente insuccesso di un governo che, deprimendo la domanda aggregata, ha peggiorato sensibilmente tutti i dati macroeconomici della nostro sistema economico, dal rapporto debito/PIL, all’indebitamento estero, alla produzione nazionale, alla bilancia dei pagamenti, alla crescita del tasso di disoccupazione.
D’altro canto, con fanatismo irrazionale e misticheggiante e zelo degno di una setta pseudoreligiosa, i più accessi propagandisti dell’europeismo anti-italiano hanno sostenuto addirittura l’irreversibilità storica del processo di unificazione europea, concepito come “destino manifesto” e ineluttabile dei riluttanti popoli del vecchio Continente. Le principali forze politiche, non paghe del disastro prodotto dall’introduzione dell’Euro da una parte, dei vincoli e oneri derivanti da patto di stabilità, “fiscal compact” e meccanismo europeo di stabilità dall’altra, anche nella recente campagna elettorale per le elezioni politiche del 24-25 febbraio 2013 si sono distinte per la pedissequa e conformista adesione a quello che ormai viene chiamato il “partito unico dell’Euro”.
Questo mentre la migliore dottrina economica italiana e internazionale (a cominciare dall’economista statunitense e premio Nobel Krugman) individua con sempre maggiore convinzione nella stessa esistenza dell’area valutaria “non ottimale” (secondo l’accezione data da Mundell) dell’Euro la causa ultima della crisi delle economie della periferia dell’unione monetaria, che nel suo svolgimento segue le fasi descritte in linea teorica da Frenkel nel suo “ciclo” (crescita del debito estero, crisi del settore finanziario privato, conseguente crisi del debito pubblico e infine collasso dei conti pubblici). Queste nozioni, che per segua le dichiarazioni dei maggiori economisti internazionali e la stampa dei paesi non appartenenti all’area dell’Euro (in particolare di lingua inglese), nonché la meritoria attività di studio e di divulgazione portata avanti dalla generazione (Bagnai, Zezza, Borghi Aquilini, Fantacci, etc.) sono assolutamente pacifiche già dalla fine degli anni ’90.
Le recenti vicende di Cipro, della Polonia, del Belgio e dell’Irlanda sembrano confermare che la crisi dell’area Euro è ormai irreversibile. La miopia e il cinismo con cui, nonostante il catastrofico precedente greco, la Germania e i paesi satelliti dell’Unione Europea stanno proponendo un “piano di salvataggio” immancabilmente destinato a colpire i risparmiatori e a salvare gli speculatori, nonché a gettare Cipro in una crisi irreversibile, fa comprendere come l’Unione Europea sia ormai diventata estremamente pericolosa per la vita dei popoli che hanno la disgrazia di farne parte. Il governo polacco, come già in precedenza quello bulgaro, ha dichiarato che il processo con cui la Polonia avrebbe dovuto abbandonare la propria valuta nazionale per entrare nell’unione monetaria europea è sospeso fino a nuovo ordine almeno per i prossimi due anni. Saggia decisione, soprattutto alla luce del fatto che nonostante la crisi degli ultimi anni, il debito pubblico e la capacità produttiva della Polonia sono perfettamente sotto controllo. Il governo belga ha aperto una procedura di infrazione contro la Germania per “dumping sociale”, ovvero ha denunciato le pratiche lesive della concorrenza con cui la Germania, approfittando dell’impossibilità per gli altri Stati dell’unione valutaria di riequilibrare la bilancia dei pagamenti mediante svalutazioni, cerca di incrementare la propria posizione di vantaggio mediante la riduzione del costo del lavoro interno, quindi a danno dei propri stessi lavoratori. Il governo irlandese, infine, ha annunciato che scambierà le cambiali possedute dalla Banca d’Irlanda con titoli del debito pubblico ultratrentennali, infischiandosene dell’art. 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea che impedisce alle banche centrali dell’area Euro di finanziare i rispettivi governi. A ben vedere, è quello che accadeva anche in Italia fino al famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro avvenuto nel 1981, che fu una delle scelte più sciagurate della politica economica della storia repubblicana. Giustamente Stefano D’Andrea, Professore della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Viterbo e presidente dell’A.R.S. (Associazione Riconquistare la Sovranità), ha osservato che è da un preventivabile stillicidio di prese di posizione unilaterali come queste, e non da procedure formali adottate secondo la lettera dei trattati europei, che è lecito attendersi il graduale sgretolamento dell’area valutaria dell’Euro e più in generale dell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea.
Purtroppo, si deve constatare che un numero ancora troppo consistente dei nostri connazionali, che non ha accesso alla letteratura specializzata in lingua inglese e deve accontentarsi della propaganda diffusa dai notiziari televisivi e dalle prime pagine dei quotidiani di maggiore diffusione, è convinta dell’inevitabilità di tutta una serie di fantomatici e improbabili inconvenienti (isolamento economico, inflazione galoppante, rivalutazione del debito, difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime, etc.) che si manifesterebbero all’indomani dell’uscita dell’Italia dall’unione monetaria europea. Nell’estate 2012, l’economista britannico Roger Bootle ha vinto il “Wolfson Economic Prize”, competizione a cui hanno partecipato 425 economisti e il cui tema era la proposta di uno strategia sicura di uscita dall’Euro per i paesi in crisi, con il suo interessante studio, “Leaving the Euro: a practical guide”. In questo documento, è possibile reperire tutte le risposte scientifiche necessarie a fugare i timori irrazionali sull’uscita dall’Euro. Roger Bootle, britannico, classe 1952, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso è emerso come uno dei più convincenti analisti economici contemporanei. Dopo gli studi a Oxford ha intrapreso la carriera accademica, sempre nella prestigiosa città universitaria, presso il St. Anne’s College, per poi svolgere il ruolo di analista economico per vari gruppi bancari privati (Capel Cure Myers, Lloyd’s Merchant Bank, etc.) e infine capo della società di consulenza Capital Economics.
Nel suo studio Bootle prospetta che gli Stati interessati, a seguito di una decisione assunta in totale segretezza con un mese di anticipo dai propri governi, dovrebbero uscire dall’Euro dando all’Unione Europea e agli altri Stati membri, alla Banca Centrale Europea e alle istituzioni finanziarie internazionali un preavviso di soli tre giorni, possibilmente il venerdì in coincidenza con la chiusura delle Borse. In nessun modo l’uscita dall’Euro comporterebbe la contestuale uscita dall’Unione Europea, anzi sarebbe sconsigliabile farlo in quel momento, a prescindere da ogni eventuale valutazione politica successiva. I flussi finanziari con l’estero dovrebbero essere immediatamente chiusi per evitare fughe di capitali. Mentre si provvederebbe a rifornire il sistema bancario della nuova valuta nazionale appena stampata dalla Zecca, nel brevissimo termine e solo per le piccole transazioni si potrebbe autorizzare l’uso provvisorio dell’Euro. La banca centrale, peraltro, dovrebbe immediatamente trasferire liquidità nel sistema bancario nazionale per garantire la funzionalità di tutte le transazioni economiche e l’effettività del corso legale della nuova valuta. Potrebbe presentarsi la necessità di nazionalizzare le banche, provvedimento che secondo chi scrive rivestirebbe non solo una funzione emergenziale, ma anche un’auspicabile svolta di lungo periodo nell’approccio stesso che lo Stato dovrebbe avere alla politica economica.
Il cambio tra la nuova valuta e l’Euro dovrebbe essere di uno a uno. Lo stesso debito pubblico dovrebbe essere ridenominato nella nuova moneta. Chiaramente la prospettiva di una svalutazione della nuova moneta, inizialmente emessa con parità uno a uno rispetto all’Euro, sarebbe più che probabile nell’immediatezza dell’uscita dall’Euro, in una misura che secondo gli analisti potrebbe essere del 40% per Grecia e Portogallo, del 30% per Italia e Spagna e del 15% per l’Irlanda. E’ del tutto evidente che per i soggetti economici (famiglie e imprese) interni al sistema Italia, non ci sarebbe perdita di valore delle retribuzioni e dei cespiti, nella misura in cui le attività dei suddetti soggetti, svalutandosi tutte nella medesima misura, manterrebbero tra di loro lo stesso rapporto. Nei confronti dell’estero, invece, la svalutazione favorirebbe da un lato le esportazioni, dall’altra renderebbe meno convenienti le importazioni e più convenienti gli acquisti di beni e servizi interni, incentivando quindi la ripresa produttiva e occupazionale. Contestualmente, le maggiori esportazioni comporterebbero una maggiore richiesta della nuova valuta nazionale e una sua conseguente rivalutazione, secondo quel meccanismo naturale dell’economia che è stato inopinatamente abbandonato dagli Stati che hanno optato per tassi di cambio fissi o addirittura per una unione monetaria. Di conseguenza, dovrebbe essere accettata la libera fluttuazione dei cambi. Una stretta vigilanza sulle eventuali conseguenze di tipo inflattivo che potrebbero verificarsi, anche se il precedente della svalutazione della Lira nel 1992, che fu circa del 30% e produsse un incremento dell’inflazione assai contenuto, induce a un realistico ottimismo.
La svalutazione del tasso di cambio, è stato osservato, potrebbe aumentare il debito reale. E’ norma riconosciuta del diritto internazionale generale la c.d. “lex monetae”, in base alla quale ciascuno Stato ha la piena potestà di stabilire la valuta avente corso legale nel proprio territorio. Il Codice Civile italiano, ad esempio, stabilisce che ogni debito possa essere saldato nella valuta avente corso legale nello Stato alla data della scadenza del debito, al tasso di cambio vigente alla suddetta data. Chiaramente, in caso di svalutazione della nuova moneta nazionale rispetto all’Euro, potrebbe verificarsi un aggravio di spesa per il debitore, ma lo stesso Codice Civile richiama la possibilità che leggi speciali disciplinino diversamente la materia. Alberto Bagnai ha prospettato che lo Stato potrebbe stabilire che il tasso di cambio con cui saldare il debito, originariamente denominato in Euro, nella nuova valuta, sia quello della data di adozione della nuova valuta, cioè di uno a uno tra questa e l’Euro. E’ la soluzione politicamente più probabile e in ultima analisi conveniente per gli stessi creditori, che senz’altro dovrebbero arrendersi al “factum Principis”, ovvero alla decisione dello Stato, e contestualmente avrebbero comunque la garanzia di un rientro dal proprio debito in misura inferiore a quella preventivata, ma certa e sicura. Bootle, nel suo studio, raccomanda agli Stati eventualmente interessati all’uscita dall’Euro di onorare i propri debiti nella massima misura possibile – e la soluzione prospettata da Bagnai andrebbe in quella direzione – dall’altra anche di intavolare negoziati con gli altri Stati per dirimere amichevolmente eventuali controversie che potessero insorgere in merito.
In buona sostanza, ormai non solo è evidente “cosa” occorre fare per salvare l’Italia dalla crisi, cioè uscire dall’Euro, ma è anche stato chiarito “come” farlo, e non è detto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Banca d’Italia, nelle loro segrete stanze, non abbiano già pronto quel famoso “piano B” di cui parlava l’illustre economista cagliaritano Paolo Savona. E’ ora compito della politica trovare la volontà e l’energia per restituire al nostro Stato Nazionale l’indipendenza e la sovranità, in primo luogo monetaria, necessarie alla sua sopravvivenza.
(Rivista Excalibur, n. 73, Aprile 2013 – Cagliari)