Roma senza papa è un romanzo di Guido Morselli, uscito postumo dopo il suicidio dell’autore, sconvolto dal rifiuto degli editori. Il fondale è una Roma del tutto secolarizzata di fine XX secolo, in cui la chiesa cattolica, uscita frastornata dal Concilio Vaticano II, elegge i papi a tempo e il governo è collegiale. Il pontefice ha abbandonato il Vaticano e vive in una villetta a schiera a Zagarolo, nell’ hinterland romano. Lo scenario generale è quello di un’Italia con fabbriche dismesse, sfruttata dai paesi del Nord Europa. Impressiona la lucidità visionaria dello scrittore, che affiora alla mente in morte di Benedetto XVI.
Dinanzi alla morte del papa emerito, la sensazione dello scrivano – che nulla sa di teologia e poco di dottrina – è il vuoto, l’assenza – forse definitiva – della figura papale, fisica e spirituale. E’ morto “quel” papa e lo smarrimento porta a credere che Roma sia senza papa. Uno, in verità, c’è, ma ai nostri occhi è un curatore fallimentare, l’incaricato di salvare il salvabile e mantenere un posticino nel gran teatro del mondo. Bergoglio ci pare l’emblema di un’istituzione in rotta, preda della confusione. Troppo grande l’impressione dolorosa di vedere violati i fondamenti della dottrina e dell’etica cattolica.
La sfilata di Pachamama, l’idolo amazzonico, la reiterata affermazione di non essere in grado di giudicare (il vicario di Cristo!) condotte e derive contemporanee, l’indifferenza dottrinaria, e poi il gesto terribile di sbarrare le chiese per l’epidemia, tacendo ogni conforto non materiale e non scientista, sino alle acquasantiere svuotate, sostituite dall’igienizzante. Dalla purificazione alla sanificazione. Un terribile gesto simbolico, un imbarazzante segno di resa ai “segni dei tempi”.
Nel cuore serbiamo la convinzione che – regnante Benedetto – gli strappi che hanno scavato un fossato nella nostra coscienza non sarebbero accaduti. Roma senza papa, dopo la morte del mite teologo tedesco? No, è la nostra tendenza, davanti a cambiamenti epocali, a evocare la fine del mondo. La ruota seguiterà a girare, ma è la fine di “un” mondo, quello a cui credevamo, l’unico nel quale valeva la pena di vivere. Il vecchio papa, pur malato e inevitabilmente in declino, era ancora lì, nel monastero dentro le mura vaticane. Sembrava il pegno che non tutto era perduto, che resisteva il dovere della speranza, ma anche la pietra angolare, l’esercizio di verità della cattedra di Pietro.
Ci aveva ferito, in quel giorno di febbraio del 2013, la voce stanca che nella lingua dei millenni abdicava (un re abdica, non si dimette!): ingravescente aetate, per l’età grave. In quell’ablativo assoluto, più tagliente per il senso di ineluttabilità del participio ingravescente, avevamo avvertito la senilità della chiesa, che la prodigiosa intelligenza di Joseph Ratzinger coglieva, caricandola sulle sue spalle umanamente fragili. Di sicuro, il professore prestato al soglio di Pietro non “fece per viltà il gran rifiuto”. Le prossime generazioni sapranno; chissà se, al di là della cerchia degli storici e di qualche superstite teologo (domani, archeologi dello spirito) interesserà conoscere che cosa accadde davvero.
Certo influì il clima di ostilità di una parte rilevante della Curia, un nido di serpenti oltre il portone di bronzo. Molto dovette impressionare quell’uomo disarmato dinanzi alla violenza del mondo, l’espulsione delle strutture economiche e finanziare vaticane dal sistema Swift, l’autostrada digitale del denaro. L’abdicazione di Benedetto XVI comportò l’istantaneo ripristino del sistema, la riammissione nel salotto buono delle transazioni. Ingravescente aetate: il vecchio papa, avvezzo ma estraneo all’uso di mondo, non ce la faceva più. Eppure è vissuto altri dieci anni, nel silenzio, interrotto da rare apparizioni.
Dai tempi di Pio IX (metro cubo di letame, secondo l’avventuriero Garibaldi) nessun papa ha subito attacchi tanto violenti e continui, con la complicità e l’approvazione di parte della chiesa. L’epiteto più gentile fu “pastore tedesco”: un cane feroce, l’esatto contrario di un intellettuale i cui scritti riempiono ventiquattro volumi. Era detestato dai teologi, ufficiali e di complemento. In morte, leggiamo panegirici postumi che non convincono, “coccodrilli” giornalistici d’occasione, lodi del defunto per dovere d’ufficio.
Viene da ringraziare l’ex parlamentare di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria, unica voce a ribadire le critiche feroci che hanno accompagnato il pontificato e, prima, la lunga milizia di Ratzinger nella congregazione per la dottrina della fede. Pessimo per avere difeso la legge naturale, nel solco di due millenni di civiltà. Al riguardo, è prezioso, imprescindibile, il dialogo con un intellettuale agnostico aperto alla dimensione del sacro, Marcello Pera. Senza radici, il libro scaturito dal dibattito, è l’ultimo grido potente contro il relativismo dell’occidente, la deriva nichilista che dopo l’abdicazione papale si è fatta più aggressiva nella “cultura della cancellazione”.
Gli fu rimproverato di attaccare l’Islam nel discorso di Ratisbona che probabilmente segnò l’inizio della guerra aperta dei potenti contro di lui. In realtà, rivendicò il Logos, la parola, contro l’impresa “di diffondere per mezzo della spada la fede. Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo”. L’odio anticristiano avanza in Occidente e la risposta tarda. La chiesa non sembra più credere alla verità che ha improntato almeno sedici secoli di storia, da Costantino e Teodosio sino alla seconda metà del Novecento. Nessuno leva la sua voce e Benedetto XVI – che non tacque – non c’è più.
E sì che aveva iniziato la sua carriera come alfiere del cambiamento, partecipando al Concilio Vaticano II come esperto della chiesa tedesca. Quel passaggio, un secolo dopo il Vaticano I, interrotto da Porta Pia, la fine del potere temporale del papa re, era necessario. Nel secolo XIX venne già colta la sfida decisiva che si andava delineando, il conflitto tra fede e ragione. Il Vaticano I stabilì “che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create”. Il magistero di Ratzinger scavava alla radice di quell’affermazione: nessuno ha lottato con tanta forza per sostenere la compatibilità, la compresenza, la necessità di un terreno comune di fede e ragione, nel solco di Aristotele accolto dal cristianesimo, reso filosofia perenne, dalla patristica a San Tommaso.
Il testamento spirituale di Benedetto XVI rivendica il suo ruolo di testimone, ermeneuta e difensore del deposito della fede. “Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza — le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro — siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità. (…) Con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede.”
Ben altro che le acrobazie verbali di teologi disincarnati, chiusi a compulsare tomi ammuffiti e dibattere, come a Bisanzio assediata, del sesso degli angeli. Nelle dispute sulla portata e la natura del diritto, alla fine del XVI secolo, il giurista filo protestante Alberico Gentili pronunciò la celebre invettiva “Silete theologi in munere alieno”. Tacete, teologi, su ciò che non vi riguarda. Come se si potesse riflettere sull’assoluto senza pensare all’uomo concreto. Il giovane Ratzinger accettò la sfida, dapprima dalla parte dei teologi alla Karl Rahner, teorico della “scelta antropologica” e del “cristiano anonimo” che si salva anche senza conoscere Dio. Poi comprese l’inevitabile deriva di quelle tendenze: non era lui a cambiare, ma i garruli teologi ad avere imboccato una via senza uscita il cui sbocco è il relativismo e un umanesimo senza Dio.
Tappe dell’attuale scientismo, la Dea Tecnologia, regnante non più sull’uomo fatto a immagine e somiglianza dell’Eterno, ma dominatrice della transumanità ibridata con la macchina, invasa dall’artificiale, alla ricerca (lo proclamano gli Illuminati di Davos) di un’eternità spuria basta sulla riproduzione della memoria. Un materialismo assoluto, totalizzante, quello della “mente alveare” dimentica di ogni trascendenza ed anche dei “qualia” gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti, diversi per ciascun essere umano.
Benedetto XVI/Ratzinger ha esplorato la cultura occidentale più di ogni altro, sorretto da una cultura lungamente coltivata e dalla sua origine tedesca, la nazione e la lingua della grande filosofia moderna. Comprese che occorreva risalire alla radice dei problemi. La crisi morale e religiosa è un fenomeno europeo e occidentale: dunque, era alle fonti, a Benedetto da Norcia, il fondatore dell’Europa cristiana dopo il crollo romano, che bisognava tornare. Ce lo ha detto attraverso il nome da pontefice, come il Benedetto d’inizio Novecento, che lottò invano contro “l’inutile strage” della prima guerra mondiale, tomba dell’Europa, dei suoi giovani e degli imperi che l’avevano fatta grande.
Ratzinger, che certo conosceva l’opera di Oswald Spengler e degli intellettuali della crisi, capiva la portata dei cambiamenti in atto. Scrisse Paul Valéry che le civiltà sono mortali. Benedetto XVI ha lottato per una vita intera per difendere il lascito bimillenario del cristianesimo, sapendo che non poteva farlo senza misurarsi fino in fondo con l’avversario, ribadendo la verità religiosa con le armi della ragione. In termini umani ha perduto, nel presente e all’ interno della civiltà che si chiamò Cristianità (Novalis poteva affermare Cristianità ovvero Europa). In termini religiosi, ha difeso la Chiesa con il vigore oggi perduto, che cercò di infondere a un’istituzione confusa, chiusa nella stanchezza di abitudini pietrificate, conquistata dalle ragioni altrui. Ha denunciato senza posa la dittatura del relativismo incapace di riconoscere alcunché di definitivo, refrattario alla verità e perfino alla realtà, le grandi sconfitte della contemporaneità, sostituite dal soggettivismo e dal desiderio.
Rimosso Dio, negata la legge naturale, crolla la famiglia come stabile alleanza tra uomo e donna aperta al futuro attraverso la generazione di figli. “La rinuncia al legame definitivo ottiene il sigillo giuridico. Decidersi, per chi fa già fatica, diventa ancora più difficile. Si aggiunge poi, per l’altra forma di coppie, la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e di una donna e di due persone dello stesso sesso”. Ne parlava del 2006: tanta, troppa acqua, un’inondazione è passata sotto i ponti, travolgendoli. L’ ideologia di genere è “l’ultima ribellione della creatura contro la sua condizione di creatura”, che nasconde il vero fine della sessualità umana, iscritto nel progetto naturale di propagazione della vita (esista o meno un’intelligenza creatrice), un’ideologia il cui tratto fondamentale è l’autonomia totale dell’uomo, unita a una libertà capricciosa come unico criterio di verità. Ma “un umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano”.
Benedetto XVI lo spiega in un passaggio dell’enciclica Caritas in veritate. “Oggi c’è una profonda contraddizione. Se da un lato si rivendicano presunti diritti di natura arbitraria e voluttuosa, con la pretesa che le istituzioni pubbliche li riconoscano e promuovano, dall’altro vi sono diritti elementari e fondamentali che vengono ignorati e violati in gran parte dell’umanità. Si apprezza frequentemente una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo, e anche alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, acqua potabile, istruzione di base o assistenza sanitaria elementare in certe regioni del mondo sottosviluppato e alla periferia delle grandi città. Tale relazione consiste nel fatto che i diritti individuali, slegati da un insieme di doveri che danno loro un significato profondo, si scardinano e danno luogo ad una spirale praticamente illimitata di istanze prive di criteri. L’inasprimento dei diritti porta all’oblio dei doveri. I doveri delimitano i diritti perché rimandano a un quadro antropologico ed etico nella cui verità si inseriscono anche i diritti e quindi cessano di essere arbitrari. D’altra parte, se i diritti dell’uomo si fondano solo su deliberazioni di un’assemblea di cittadini, essi possono essere modificati in ogni momento e, di conseguenza, si allenta nella coscienza comune il dovere di rispettarli e di cercare di realizzarli. “Un attacco frontale – inascoltato – al positivismo giuridico in nome della filosofia perenne, unione di realtà e verità, adaequatio rei et intellectus. Del resto, romane e cristiane sono le radici del diritto e della libertà, espresse con il massimo vigore dall’antichità alla Scuola di Salamanca: la libertà è diritto naturale, inalienabile, sacro, dell’essere umano. Invece, mai come oggi si è agito e legiferato contro la natura e la biologia. Di negazione in negazione, sta finendo non una civiltà e una religione, ma l’uomo stesso. Con la morte di Benedetto XVI scompare un argine, una voce potente, un katechon in senso biblico “colui che trattiene e mette in guardia”. Chi scrive si sente più solo, più orfano, e vuole pensare che il teologo, il papa, l’intellettuale, sia stato a sua volta sorpreso dall’Eterno.
Ci piace dedicargli il finale dell’Albatros di Charles Baudelaire. “Il poeta è come lui, principe dei nembi che sta con l’uragano e ride degli arcieri; fra le grida di scherno esule in terra, con le sue ali da gigante non riesce a camminare”.
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