11 Ottobre 2024
Scienza

Scienza e democrazia – Fabio Calabrese

L’abbiamo visto più volte: in un’epoca di oppressione gli scienziati, i ricercatori che ambiscono ad ampliare la conoscenza umana e tentano almeno di farlo, sono costretti a camminare sul filo del rasoio in modo da non urtare contro i dogmi dell’ortodossia dominante.

Questo è certamente avvenuto all’epoca della controriforma, quando gli astronomi dovevano per forza continuare a proclamare per vera la teoria geocentrica di Tolomeo che attraverso la filosofia di Tommaso d’Aquino era stata incorporata nella dogmatica cristiana, soprattutto cattolica, mentre tutte le loro osservazioni li spingevano verso l’eliocentrismo, che Copernico non aveva avuto il coraggio di annunciare alla comunità scientifica e al mondo se non in punto di morte.

La scappatoia a cui ricorrevano gli astronomi, era perlopiù di fingere che l’eliocentrismo fosse un semplice artificio matematico per semplificare i calcoli che non metteva in discussione la “verità” geocentrica o di simulare un’equidistanza fra le due ipotesi; nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, Galileo ricorse a questo artificio, ma ciò nonostante, per sua sfortuna fu troppo esplicito, con le conseguenze che sappiamo.

Oggi viviamo nell’epoca democratica, che E’ un’epoca di oppressione, con la differenza che l’oppressione assume una forma più ipocrita e si avvale del potere plagiario di un sistema mediatico che gli inquisitori dei tempi di Galileo non avrebbero nemmeno potuto sognare.

Le “verità ufficiali” della democrazia, i dogmi che ci è imposto forzatamente di credere riguardano la presunta uguaglianza fra gli uomini, la non importanza dell’eredità biologica, la riconducibilità al dominio “culturale” dell’appreso di tutte le differenze riscontrabili, la non esistenza delle razze, l’origine africana della nostra specie, l’origine mediorientale degli Indoeuropei che sarebbero stati non cavalieri nomadi delle steppe ma pacifici agricoltori (teoria linguistica del nostratico), la sterilità e non creatività della civiltà europea, che sarebbe interamente basata su influssi orientali, tutta una serie di idee o di dogmi che nel loro insieme hanno uno scopo preciso: quello di svilirci ai nostri stessi occhi in quanto europei, indoeuropei, caucasici, bianchi, e/o di farci credere che la base biologica, l’eredità di sangue non abbia importanza nel determinare ciò che noi siamo, in modo da farci subire con rassegnazione o disinteresse, senza opporre resistenza la nostra sostituzione etnica, la “dolce morte” che la democrazia ci ha riservato in quanto comunità nazionali.

E’ ovvio che questa serie di dogmatismi non trova il minimo appiglio nella realtà, e a farcelo capire è stato prima di tutto Konrad Lorenz, uno dei pochi e forse l’ultimo grande scienziato della nostra epoca, che ci ha fatto comprendere innanzi tutto che la contrapposizione fra natura e cultura che sta alla base della mentalità democratica e “di sinistra” (qualunque cosa ciò si pretenda significhi) è un autentico nonsenso; infatti ci spiega che è soltanto la nostra natura genetica di esseri umani, la nostra eredità biologica, che ci consente di essere dei fruitori e produttori di cultura.

Un discorso che ha anche uno “scomodo” corollario: poiché non tutti gli esseri umani hanno la stessa base genetica, allora la possibilità di accedere ai diversi livelli di cultura non sarà uguale per tutti gli uomini e/o le popolazioni umane. Questo Lorenz non lo ha affermato esplicitamente, ma quanto ha detto è stato sufficiente a procurargli l’odio dei democratici, della sinistra e l’accusa di razzismo. Ricordiamo sempre che l’accusa di razzismo è come un coltello svizzero, è buona per tutti gli usi, soprattutto per tappare la bocca a chi la pensa diversamente quando non si hanno argomenti.

Ora sia ben chiaro che non tutti possono avere la stessa franchezza, lo stesso coraggio intellettuale di Konrad Lorenz; è più probabile che la realtà delle cose che smentisce le “verità” dogmatiche della democrazia emerga da ammissioni a mezza bocca quasi a dispetto delle intenzioni coscienti e dichiarate di chi le pronuncia, che perlopiù sanno benissimo che sotto un regime tirannico, e la democrazia lo è, la sincerità può essere sommamente pericolosa.

Un esempio di questo tipo, ve ne avevo già parlato, è stato rappresentato dal genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza che nel corso di un’intervista si è lasciato scappare quest’osservazione: “Etnia e razza sono praticamente la stessa cosa”.

Ma come?, verrebbe da dire. Per decenni Claude Levi Strauss e tutti i suoi discepoli riuniti nella scuola dell’antropologia culturale si sono affannati in tutti i modi per persuaderci che l’etnia non ha nulla a che fare con la razza, con l’eredità biologica ma è interamente un portato culturale riconducibile esclusivamente agli apprendimenti, al linguaggio, alle usanze, e ora questo qui con noncuranza, con un colpo di scopa spazza via tutte le elaborate ragnatele che costoro hanno costruito nel corso dei decenni?

Talvolta la realtà dei fatti emerge da ricerche intese a provare tutto il contrario, a conformarsi ai dogmi democratici, e in qualche caso i ricercatori sono per loro disgrazia abbastanza onesti e abbastanza ingenui da pubblicare i risultati. Un esempio classico in questo senso è quello di un altro genetista, Arthur Jensen. E’ noto che gli afroamericani hanno una media di Q. I. di 85, quindici punti percentuali al disotto del 100 che rappresenta lo standard della popolazione bianca, ma gli afroamericani non sono neri puri e hanno una presenza non irrilevante di sangue bianco. La media di Q. I. delle popolazioni dell’Africa subsahariana scende a 70, siamo cioè al limite del ritardo mentale.

La spiegazione democratica e “politicamente corretta” standard di questo fatto, è che ciò dipende dalle condizioni di inferiorità sociale e culturale in cui versa la minoranza nera negli Stati Uniti e dell’arretratezza della situazione africana, supponendo (senza prove, ma questo non importa, infatti non parliamo di scienza ma di fede) che cresciuti in situazioni socio-culturali opportune, i neri, vuoi afroamericani vuoi subsahariani, otterrebbero nei test di Q. I. gli stessi risultati dei bianchi.

Jensen escogitò un esperimento per mettere questa convinzione alla prova: prese un campione di ragazzi di colore e li divise in tre gruppi, a seconda che le loro caratteristiche fisiche si avvicinassero di più al nero puro, fossero in una situazione intermedia o fossero maggiormente “bianchi”. I ragazzi provenivano tutti dallo stesso strato sociale ed erano tutti considerati “neri”; in questo modo si annullavano o, come si dice in gergo, si “randomizzavano” le variabili sociali e culturali, facendo emergere il nudo fatto genetico. Jensen era convinto che i test non avrebbero rivelato differenze significative fra i tre gruppi, invece dovette presto ricredersi. Il gruppo “nero puro” otteneva i risultati più scadenti, quello “intermedio” si poneva in una fascia – appunto – intermedia, e i risultati migliori erano ottenuti dal gruppo “bianco”.

Jensen pubblicò i risultati ottenuti nella convinzione – santa ingenuità – di rendere un servizio alla comunità nera evidenziando il fatto che i ragazzi di quest’ultima avevano bisogno di programmi educativi speciali per competere coi bianchi su di un piano di parità.

Risultato? Non solo fu accusato di razzismo, perse il lavoro, fu messo al bando della comunità scientifica, ma per anni dovette vivere una vita blindata dopo essere sfuggito a diversi attentati. Il che ci dimostra due cose: primo, per la democrazia la cosa più importante è che i suoi dogmi non siano messi in discussione; secondo, in mancanza di meglio, essa non si fa scrupolo di ricorrere alla violenza, cosa che ha potuto ad esempio sperimentare anche Robert Faurisson a cui i democratici hanno cercato varie volte di fare “democraticamente” la pelle.

La situazione più frequente, però, è probabilmente quella intermedia fra i casi di Cavalli-Sforza e di Jensen, ossia una serie di ammissioni semi-involontarie in contrasto con l’intenzione dichiarata del ricercatore che è andato a scoprire qualcosa “che non avrebbe dovuto”.

Io penso che tutti voi ricorderete il nome di Sergio Gozzoli, un intellettuale della nostra “area” venuto a mancare nel 2015, e per di più in sorprendente coincidenza temporale con la scomparsa di un altro intellettuale “nostro”, il grande Gianantonio Valli, ed entrambi hanno lasciato un vuoto non facile da colmare. Penso che di Gozzoli ricorderete soprattutto lo stupendo saggio L’incolmabile fossato pubblicato su “L’uomo libero”, un testo che dovrebbe togliere qualsiasi illusione a chi si ostina a voler credere che al di qua e al di là dell’oceano Atlantico esista la medesima civiltà, che falcia impietosamente l’erba sotto i piedi a qualsiasi atlantismo, un testo da leggere e rileggere, più volte e senza stancarsi.

Tuttavia sarebbe bene ricordare anche un altro scritto di Gozzoli, un articolo che a mio parere ha un’importanza non inferiore a L’incolmabile fossato, e si occupa proprio di questioni scientifiche, La rivincita della scienza, pubblicato sempre su “L’uomo libero” in data 1.11.1997.

Qui Gozzoli delinea un caso fortemente analogo a quelli che abbiamo considerato: lo zoologo e fondatore della sociobiologia Edward O. Wilson. Gozzoli ce lo descrive in questi termini: “Edward O. Wilson, è un vecchio liberal, infarcito da sempre delle antiche sciocche credenze politically correct – antirazzismo, femminismo, permissivismo sessuale, bontà naturale dell’uomo, raziopacifismo”.

Nonostante questo, durante una conferenza è stato aggredito da un commando di femministe che gli hanno gettato addosso acqua e cubetti di ghiaccio e l’hanno pubblicamente sbeffeggiato. Per quale motivo? Cosa gli è scappato di dire di scientificamente provato ma radicalmente contrario allo sciocchezzaio dogmatico che costituisce l’ideologia democratica?

Qualcosa di non da poco. Sentite!

“Le conclusioni scientifiche non lasciano dubbi: il cervello umano – ogni singolo cervello umano – non è una tabula rasa che l’esperienza debba riempire attraverso l’accumulo di impressioni e informazioni, ma è un «negativo impressionato in attesa di essere immerso nel liquido di sviluppo».

L’ambiente, cioè la vita che lo accoglie e lo nutre, può portarlo – a seconda che esso sia positivo o negativo – al massimo della sua pienezza o al minimo della crescita e del rigore: il cervello di un grande matematico, o di un prodigioso portiere di calcio, se non è stimolato da attività ed esercizio non svilupperà mai le proprie caratteristiche, mentre al contrario ricerca ed allenamento stimoleranno lo sviluppo pieno delle potenzialità genetiche. Quello che però è certo è che il risultato conclusivo era già contenuto, in potenza, nella pellicola genetica del cervello.

Il problema centrale, conclude Wilson, è che dalla genetica non dipendono soltanto l’intelligenza, le inclinazioni, i ruoli, l’aggressività e l’emotività, ma anche le scelte morali fondamentali, che non sono affatto il prodotto di un libero arbitrio, ma espressione di tendenze iscritte da sempre nel patrimonio genetico del nostro cervello”.

In altre parole, lo sviluppo della personalità umana può essere deprivato dalla mancanza degli stimoli giusti, ma senza la base genetica adeguata, non potranno svilupparsi né l’intelligenza né il carattere e neppure le inclinazioni morali; tutto il contrario di quanto hanno sempre sostenuto i democratici e le sinistre, fautori di una totale “costruibilità” dell’uomo a partire dagli stimoli ambientali. Ce n’è di che far infuriare non solo le femministe, e vediamo una volta di più che l’argomento ultimo della democrazia è la violenza.

Peraltro, l’articolo di Gozzoli evidenzia un punto a mio parere molto importante. Noi sappiamo che nei nostri ambienti c’è un anti-scientismo diffuso, ovvia conseguenza del fatto che le istituzioni “scientifiche” come tutto l’establishment sono contro di noi, spesso impugnando “teorie” come l’Out of Africa che sono armi contro la nostra visione del mondo, ma è importante capire che questa non è, scienza, o per meglio dire, è una scienza fasulla e truccata. Se noi ci atteniamo al concetto galileiano di scienza come osservazione ed esperimento per la verifica delle ipotesi, e sappiamo interpretare i fatti spesso ammessi dai ricercatori quasi loro malgrado, vediamo che è proprio la visione del mondo democratica-progressista-sinistrorsa a subire le più brucianti sconfessioni. E’ precisamente in questo senso che Gozzoli parlava di rivincita della scienza, una scienza che non si riesce più a far stare dentro la camicia di forza dell’ortodossia democratica “politicamente corretta”.

Sergio Gozzoli era un medico così come, interessante coincidenza, lo era anche Gianantonio Valli. Il sottoscritto, invece, ha una laurea in filosofia e una formazione prevalentemente umanistica, ma non è che se ci spostiamo dalle scienze naturali a quelle umane, le cose cambino di molto.

Un caso che mi sembra presenti forti analogie con quelli che abbiamo finora considerato, è quello dell’archeologo britannico Colin Renfrew. Apparentemente, questa stella dell’archeologia britannica, al punto da essere nominato nel 1991 non baronetto, ma barone (barone di Kaimsthorm, “strano titolo, ma se ci tenete”, come dice il re della Cenerentola disneyana), è quanto di più aderente all’ortodossia “scientifica” politicamente corretta secondo la vulgata democratica che si possa immaginare, sostenitore dell’origine mediorientale degli indoeuropei, che sarebbero stati non allevatori e cavalieri nomadi delle steppe, ma pacifici agricoltori sedentari.

(Chi ha poi detto che gli agricoltori siano tanto pacifici? Doveva essere qualcuno che non è mai entrato in un frutteto a fare un po’ di raccolta non autorizzata).

Tuttavia, leggendo i suoi scritti con attenzione, e non occorre nemmeno leggere più che tanto “tra le righe”, si scorge un pensiero ben differente. Ad esempio, in un articolo pubblicato nel 1991 su “Le scienze”, L’origine delle lingue indoeuropee, sulla vexata questio se i costruttori di megaliti cui dobbiamo i monumenti neolitici di Stonehenge, di Avebury e degli altri grandi complessi delle Isole Britanniche, fossero una popolazione neolitica poi sommersa dall’ondata celtica-indoeuropea o invece proprio gli antenati dei Celti che conosciamo in epoca storica, Renfrew scrive:

La lingua celtica si sarebbe evoluta nell’Europa occidentale a partire da radici indoeuropee. Anziché essere un gruppo autoctono cancellato dagli Indoeuropei, il popolo che costruì Stonehenge e gli altri grandi monumenti megalitici d’Europa era costituito da Indoeuropei che parlavano una lingua da cui derivano le odierne lingue celtiche” .

E’ qualcosa che si legge non senza una certa sorpresa, perché semmai i sostenitori delle tesi “orientaliste” sull’origine della civiltà europea, coloro che io chiamo affetti da strabismo mediorientale, tendono a minimizzare il ruolo della cultura celtica che ha il torto di essere stata una grande cultura autoctona sorta nel cuore dell’Europa senza che alle sue origini siano ipotizzabili influssi mediorientali di una qualsiasi specie.

Ma le sorprese non finiscono qui. Se ve ne ricordate, ve ne avevo già parlato nella trentatreesima parte di Una Ahnenerbe casalinga: in Omero nel Baltico, Felice Vinci riporta uno stralcio di un brano di Renfrew che sorprendente è davvero il minimo che si possa definire:

Molti di noi erano convinti che le piramidi d’Egitto fossero i più antichi monumenti del mondo costruiti in pietra, e che i primi templi fossero stati innalzati dall’uomo nel Vicino Oriente, nella fertile regione mesopotamica. Si riteneva anche che là, nella culla delle più antiche civiltà, fosse stata inventata la metallurgia e che, successivamente, le tecnologie per la lavorazione del rame e del bronzo, dell’architettura monumentale e di altre ancora, fossero state acquisite dalle popolazioni più arretrate delle aree circostanti, per poi diffondersi a gran parte dell’Europa e del resto del mondo antico (…) .

Fu quindi un’enorme sorpresa quando ci si rese conto che tutta questa costruzione era errata. Le tombe a camera megalitiche dell’Europa occidentale sono ora considerate più antiche delle piramidi e sono questi, in effetti, i più antichi monumenti in pietra del mondo, sì che una loro origine nella regione mediterranea orientale è ormai improponibile (…) Sembra, inoltre, che in Inghilterra Stonehenge fosse completata e la ricca età del Bronzo locale fosse ben attestata, prima che in Grecia avesse inizio la civiltà micenea (…) Le nuove datazioni ci rivelano quanto abbiamo sottovalutato questi creativi “barbari” dell’Europa preistorica, i quali in realtà innalzavano monumenti in pietra, fondevano il rame, creavano osservatori solari, e facevano altre cose ingegnose senza alcun aiuto dal Mediterraneo orientale (…) Si verifica tutta una serie di rovesciamenti allarmanti nelle relazioni cronologiche. Le tombe megalitiche dell’Europa occidentale diventano ora più antiche delle piramidi (…) e, in Inghilterra, la struttura definitiva di Stonehenge, che si riteneva fosse stata ispirata da maestranze micenee, fu completata molto prima dell’inizio della civiltà micenea (…) Quell’intero edificio costruito con cura, comincia a crollare, e le linee di base dei principali manuali di storia devono essere cambiate”.

Questo brano è un estratto del testo L’Europa della preistoria (Before Civilization, the Radiocarbon Revolution and prehistoric Europe), che è del 1973. Della rivoluzione che le datazioni al radiocarbonio e la dendrocronologia avrebbero dovuto introdurre nella nostra visione della storia, finora non si è visto nulla, come nulla si è visto della rivoluzione che la scoperta delle tavolette di Tartaria, che contengono la più antica scrittura conosciuta al mondo, e che sono state ritrovate nel sito di Turda in Romania, avrebbero dovuto introdurre, e la cui scoperta risale al 1961.

Qui entra in gioco un’altra arma della democrazia: la censura. Certe scoperte possono magari circolare all’interno di un ristretto ambito di specialisti, ma non devono raggiungere il grosso pubblico, né tanto meno finire sui libri di scuola.

Noi tuttavia sappiamo che ci si vuole imporre un’immagine falsata e immiserita del nostro passato per toglierci il futuro, per indebolire la resistenza al fato che ci è stato decretato, la sparizione dei nostri popoli nel tritacarne multietnico.

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