Nel 1840 il celebre scienziato svizzero Auguste De la Rive affermò pubblicamente in un convegno ciò che tutti gli scienziati europei pensavano, e cioè che la frammentazione politica dell’Italia rappresentava il più grande ostacolo alla crescita della Scienza Italiana e, conseguentemente, al riconoscimento del suo valore a livello internazionale. Dunque, la mancata Unità, l’esser costretti da secoli alla divisione dai poteri forti di allora (in primis la Chiesa), sortiva pesanti ricadute negative anche laddove stava nascendo la Scienza moderna, in tutti i campi dello scibile, in cui l’Italia aveva già sfoderato personaggi del calibro di Amedeo Avogadro, Lazzaro Spallanzani, Antonio Lagrangia, Alessandro Volta, solo per citare i più importanti. Proprio per questo, alcuni di essi (per fortuna un’esigua minoranza), avevano finito per gravitare verso altre nazioni: è il caso di Lagrangia, poi diventato Lagrange, è il caso, un secolo prima, del grande astronomo GianDomenico Cassini, divenuto anche lui francese.
Già nel 1766, l’ingegnere militare e ufficiale della Serenissima Antonio Maria Lorgna, stanco della divisione dell’Italia, aveva lanciato l’idea di istituire un’Accademia unica che riunisse tutti i migliori scienziati italiani al di sopra degli Stati di appartenenza: era nata così, nel 1782, la Società Italiana delle Scienze, o dei XL, dal numero degli
scienziati che con entusiasmo vi aderirono. Proprio dalla Scienza provenne perciò l’incitazione più illustre, più decisa e più significativa all’Unità dell’Italia, o meglio alla sua ri-unificazione, al punto che gli scienziati italiani non solo furono i primi a organizzarsi unitariamente, ma presero parte attiva al Risorgimento nazionale anche sui campi di battaglia, andando a infoltire le schiere di volontari che da ogni parte della penisola affluivano ai centri di raccolta che andavano via via formandosi in vista delle patrie battaglie. Si pensi al grande chimico siciliano Stanislao Cannizzaro che partecipò ai moti siciliani del 1848, fu esiliato, riparò in Francia, poi in Piemonte, ritornò in Sicilia per l’impresa dei Mille, infine fu uno dei personaggi chiave del post-Risorgimento, in quanto a lui si deve la fondazione di una chimica nazionale di prestigio internazionale, che porterà nei decenni successivi ai più alti traguardi, tra cui l’invenzione della plastica da parte del professor Giulio Natta, uomo del Ventennio (premio nobel nel 1963).
Ebbene: di denigrazioni contro il Risorgimento, contro-storie, millantate rivelazioni inedite e altro, ne potremmo citare a iosa da riempirne quaderni interi: per contraddirle, sempre che ne valga la pena (e che ne valga la pena o no dipende dal livello di esse), bisognerebbe industriarsi con certosina pazienza a specificare, distinguere, chiarire e allargare il discorso – che invece i detrattori solitamente restringono – onde abbracciare panorami e conoscenze approfondite le quali appaiono molto lontane dagli esagitati epigoni dell’anti-Risorgimento, delle cui spavalde sparate sono ormai piene le fosse. La maggioranza di queste accuse si concentrano con particolare virulenza contro Garibaldi, quando al Risorgimento parteciparono centinaia di migliaia di persone di tutte le idee, anche molto diverse da Garibaldi. Egli fu sì la figura preminente, trascinante, affascinante, generosa e unica, l’impavido condottiero che catalizzò su di sé la simpatia dell’opinione pubblica mondiale (più di settanta nazioni gli hanno dedicato almeno un monumento o una strada, e quando fu ferito ad Aspromonte tutti i luminari d’Europa s’offersero di curarlo gratis), ma il Risorgimento è e resta al di sopra di Garibaldi, e Garibaldi stesso resta al di sopra delle critiche, le maldicenze e le insinuazioni di cui è stato fatto oggetto dai detrattori di professione.
Nell’ultima parte della sua vita (morì il 2 giugno del 1882), gravemente malato, affranto per Nizza e la Corsica che tentò invano di riottenere, ricevendone solo sgarberie e pesci in faccia dalla Francia, accorato per la sorte degli Istriani, dei Triestini e dei Trentini che lo invocavano liberatore, ulteriormente deluso per non esser stato lui il protagonista e l’artefice della presa dell’agognata Roma cui fin da ragazzo aveva sempre guardato con intenso struggimento, insofferente al Parlamento, al Re, ai Ministri, alla politica, agli equilibri internazionali ed interni, alle sedute della Camera che non faceva per lui (e da cui infine si dimise con enorme strascico di polemiche), critico verso gli Italiani stessi che giudicava ormai adagiati, impigriti e distratti dal nuovo Regno, sentendosi come tradito, perse la lucidità e l’equilibrio che aveva manifestato in tante occasioni, nei momenti più delicati e difficili, e s’abbandonò a decisioni e giudizi emotivi, aspri e perfino avventati, “passando di molto il limite” come lui stesso ebbe a riconoscere quando un’ondata di biasimo, nonostante la venerazione che gli Italiani gli portavano, sommerse il suo libro “I Mille”, rabbiosamente scritto tra il 1870 e il 1872, libro che praticamente tutti gli editori si rifiutarono di pubblicare, e la cui pubblicazione avvenne solo per sottoscrizione privata, in poche migliaia di esemplari. In esso, con irruenta foga e un’irrazionalità che si faticava a riconoscergli, attaccava senza alcun riguardo tutto e tutti, compreso il povero Mazzini. Il quale da parte sua si chiuse in un sordo rifiuto “aventiniano” (rifiutò di entrare in Parlamento nonostante la gente di Messina lo avesse eletto deputato nel 1866), quando invece avrebbe dovuto partecipare attivamente alla vita politica del nuovo Stato per creare un solido partito socialista-patriottico che facesse argine al dilagante marxismo. Così non fu, purtroppo, e l’Italia divenne la preda più vulnerabile di quella nefasta ideologia che tanti danni ha arrecato e i cui estremi epigoni a tutt’oggi non c’è verso di scrollarsi di dosso. Ma né a Garibaldi né a Mazzini bisogna fare una colpa più del dovuto, dal momento che, spesisi oltre ogni umano limite per l’Unità d’Italia, quando questa si realizzò, di fronte ai nuovi gravosi problemi che si presentavano, non ebbero più la forza di continuare sulla saggia via che con esito felice li aveva guidati al Risorgimento. Mazzini, dopo una grama esistenza da braccato in cui aveva cambiato dimora in continuazione, inseguito dalle condanne a morte, spesso a corto di danaro, finì per chiudersi amaramente in sé stesso, mentre Garibaldi s’abbandonò a sfoghi talvolta incomposti, espressione dello stato d’animo duramente provato di chi vedeva incompiuta e imperfetta la sua Italia per la quale mille volte aveva rischiato la vita. Pure, il conclamato “divorzio” dal Regno d’Italia, non impedì al Governo di tributare, alla morte di questi due grandi protagonisti del Risorgimento, grandiose onoranze, facendo sempre campeggiare la loro immagine accanto a quella del Re e di Cavour.
Alla riuscita concreta del Risorgimento essi avevano sacrificato molta parte delle loro idee volte a una politica sociale popolare e a realizzazioni democratiche che non si poterono raggiungere anche per l’immaturità dei tempi (nelle zone più depresse d’Italia il nuovo Stato lottò per convincere i genitori a mandare i figli alla scuola dell’obbligo, a farsi curare dal medico condotto e ad accettare i Carabinieri), oltrechè per mantenere delicati equilibri interni e non tirarsi addosso l’Europa, la cui potenza dominante era allora l’Inghilterra conservatrice della Regina Vittoria. Si deve proprio al realismo di Garibaldi, dimostrato durante tutto il Risorgimento, di fronte a un Mazzini che restò talvolta intransigente difensore delle proprie idee e a un Cavour incline a perdere le staffe, se l’Inghilterra non mise del tutto i bastoni fra le ruote all’Unità d’Italia, facendola fallire: il che era sempre nell’aria, grazie all’avversione del partito conservatore inglese, nonché alla politica ambigua, mutevole e infida del ministro Lord Palmerston (che cambiava idea anche da un giorno all’altro a seconda degli interessi del Regno Unito e suoi propri), senza contare le antipatie che l’Italia suscitava anche in eminenti personaggi della Camera dei Comuni, come l’influente Disraeli (che arrivò a rinnegare le proprie origini italiane), e la posizione dell’amato consorte della Regina, il Principe Alberto di Sassonia-Coburgo, smaccatamente parteggiante per l’Austria.
Se i ribelli ungheresi e greci rappresentavano un pericolo ben più modesto per l’Inghilterra, che con facilità poteva intromettervisi, il Risorgimento italiano poggiava su troppe vaste, corpose, datate e variegate forze per poter essere controllato dall’alto. Perciò, il timore di un’Italia unita che avrebbe intralciato l’Inghilterra nel Mediterraneo (come infatti la intralciò, solo pochi decenni dopo l’Unità, con la guerra italo-turca), non abbandonò mai gli Inglesi. Le forti posizioni strategiche che la Corona britannica era venuta acquistandosi in quel mare e nell’Italia meridionale anche grazie ai Borboni, che da oltre un secolo, per arginare la potenza Austriaca, teneva fermi sopra un trono sempre più vacillante e inviso alla popolazione, gli interessi inglesi nello sfruttamento delle risorse meridionali, lo spionaggio inglese massonico che comodamente agiva nel Regno delle due Sicilie ove aveva la sua base principale in Italia in funzione anti-francese, la cacciata di ministri e funzionari illuminati come il Principe di Caramanico e il Tanucci che intendevano contrastarla, la politica di feroce repressione contro la Carboneria di cui fu occulta regista assieme alla regina Maria Carolina, amante di Sir John Acton, l’occupazione di Malta con conseguente repressione dei Maltesi che si sentivano italiani, legati alla Sicilia fin dal tempo degli Altavilla, l’allontanamento del Regno delle due Sicilie dal Piemonte nonostante il matrimonio fra la principessa Maria Cristina di Savoia e il Re Ferdinando II (rimasto vedovo troppo presto, nel 1836), l’impossessarsi perfino di un’isoletta insignificante emersa al largo della Sicilia piantandoci sopra il vessillo inglese, il tutto sotto lo sguardo assente, complice e impotente dei Borboni, insomma questo pericoloso garbuglio di potenti interessi inglesi si trovò a dover affrontare Garibaldi quando si trattò di dar seguito alle reiterate insistenze provenienti dai patrioti del mezzogiorno d’Italia, di far seguire alle parole i fatti con uno sbarco. Per tempo dunque, egli, considerando la minacciosa potenza britannica che si parava davanti, aveva cercato, con una serie di viaggi esplorativi, di ingraziarsi gli Inglesi, forte della sua fama indiscussa, delle simpatie del partito Whig, della presentazione di nobildonne influenti, e di un vasto movimento d’opinione favorevole all’Unità d’Italia facente capo al defunto Lord Byron, per non parlare di una rete di associazioni progressiste di tutti i tipi che da subito raccolsero fondi per la causa italiana.
Ancora nel suo quarto viaggio in Inghilterra, nel 1864, tre anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, Garibaldi, emerso a fatica dall’incredibile e impressionante bagno di folla di un milione di inglesi che lo acclamavano (la sua carrozza ci mise ore e ore per percorrere un breve tragitto), intendeva saggiare e acquietare gli “umori” della Corona britannica, stante il difficile periodo di assestamento che il novello Regno stava attraversando. Alla reazione smodata del Re Borbone spodestato e del Papa presso cui, arso di vendetta, costui era andato a rifugiarsi, s’accompagnava l’ostilità di nazioni come la Francia che, vedendo nell’Italia una pericolosa concorrente (Napoleone III aveva sempre pensato a una Confederazione di Stati italiani gravitante intorno a Parigi e dunque si sentiva gabbato da Cavour), offriva ospitalità a Francesco II e alla consorte austriaca Maria Sofia, imbastendo una becera propaganda per la restaurazione del Regno delle due Sicilie, con conseguente danno d’immagine e lesione del prestigio dell’Italia Unita: propaganda che non mancò di sfiorare anche l’Inghilterra.
In particolare per quel che riguarda la Francia, la questione di Nizza che, ribellatasi all’insulsa annessione del 1860, era stata messa sotto assedio dalle truppe di Napoleone III con ondate di arresti, aveva scagliato l’opinione pubblica francese contro l’Italia, accusata di foraggiare i rivoltosi nizzardi. Per quel che riguarda l’Inghilterra, il programma di costruire una flotta Italiana sul nucleo della piccola flotta sarda e borbonica unificate, con la mira neanche troppo nascosta di occupare l’Istria, Fiume, la Dalmazia, la Corsica (una delegazione di Corsi si era recata dal Re Vittorio a chiedere l’annessione all’Italia), e, perché no, riprendersi Malta, impensieriva non poco Sua Maestà Britannica. In questo clima, sembra dunque più un pretesto che la realtà il discorso tenuto da Lord Lennox davanti al Parlamento inglese nel 1863, in cui narrò scandalizzato di carceri napoletane strapiene di oltre tremila prigionieri borbonici malconci che lui giurava d’aver visto nell’inverno precedente, vestiti di stracci e nutriti a pane secco (così duro che il suo piede non era riuscito a spezzarlo….), e di fronte al cui scempio invocava una reazione dell’Inghilterra, pronunciando parole offensive all’indirizzo del Risorgimento.
Che dopo la solenne proclamazione del Regno d’Italia, nel marzo 1861, in cui Cavour pronunciò il celebre discorso di Roma capitale, lasciando intendere al mondo intero che il Risorgimento era tutt’altro che finito e ci si preparava a fare il resto, cominciassero a trapelare i primi malumori di un’Europa il cui quadro geopolitico risultava stravolto dall’emergere di uno Stato che rivendicava la sua indipendenza, sovranità e libertà di azione in faccia a tutti, è un fatto incontestabile. Le maldicenze e le staffilate contro di esso – identificato dispettosamente con il Piemonte, quando era risaputo che alla sua costituzione avevano partecipato e partecipavano uomini di tutte le regioni, basta guardare alla composizione del suo primo Governo –, schizzavano ora qui ora là, da discorsi, libri e giornali, appuntandosi sulla conquista del Regno delle due Sicilie che rappresentava il passaggio determinante nel cammino della riunificazione, quello che ne aveva decretato l’irreversibilità, la pienezza e il successo definitivo. Togliere legittimità a quella conquista, rinnegarla, cercare di mandarla a carte e quarantotto per ritornare allo stato precedente, definito aulico e splendido, fu il “leitmotiv” della violenta reazione borbonica, clericale e di un’Europa sempre più preoccupata della rinascita dell’Italia, e, peggio, del suo poter divenire una potenza. Le sciocchezze e le falsità sparate per l’occasione sono tante, ma tutte s’incentrano intorno a un tema inconsistente che si ripete: l’indebita appropriazione del Piemonte, la ricchezza del Regno borbonico, la miseria presente, le carceri rigurgitanti, i briganti-brava gente, la cattiveria piemontese…
Giacinto De Sivo, vecchio membro della nomenclatura borbonica e fiero odiatore dei Garibaldini che l’avevano incarcerato e, spinti dalla popolazione inferocita, gli avevano saccheggiato la casa, malmenandolo, passò il resto della sua vita a scrivere peste e corna contro il Regno d’Italia. Nell’ardore dell’odio e della rivalsa, arrivò a farneticare che: “il Regno delle due Sicilie era il sorriso del Signore. La Provvidenza lo faceva abbondante e prospero, lieto e tranquillo, fiero e bello. Aveva leggi sapienti, morigerati costumi e pienezza di vita, aveva esercito, flotta, strade, industrie, opifici, templi e regge meravigliose. Aveva un sovrano napoletano e dal cuore napoletano. L’invidia, l’ateismo e l’ambizione congiurarono insieme per abbatterlo e spogliarlo.” Salvo poi spiegare perché mai questo “prospero Regno lieto e bello” fosse stato percorso nel corso di cent’anni da rivolte e sedizioni di tutti i tipi senza che i Savoia e i garibaldini minimamente c’entrassero, e come fosse chiamato in Europa il “regno senza strade”, dove la Polizia era dappertutto e impediva alla gente comune la libera circolazione, tantopiù per trasferirsi in altri Stati. De Sivo non spiega come mai in questo “paradiso lieto e tranquillo” l’odiato capo di Polizia Salvatore Maniscalco venisse pugnalato a Palermo il 27 novembre 1859, e vi fossero 25.000 mendicanti solo a Napoli abbandonati per strada, scalzi, denutriti e con pochi stracci addosso. Non spiega nemmeno come mai l’analfabetismo fosse il più alto d’europa, il brigantaggio una piaga sociale endemica lasciata poi in eredità al Regno d’Italia, e soprattutto non spiega perchè l’input del Risorgimento nazionale partì proprio dal mezzogiorno grazie all’espandersi vertiginoso delle “vendite” carbonare, ben prima che il principe Carlo Alberto di Savoia si convertisse alla causa nazionale. Il De Sivo altresì non fornisce spiegazioni sul perché la maggioranza del clero, cui è da aggiungersi una buona parte dei baroni calabresi e siciliani, piantarono in asso il “felice Regno e i suoi regnanti dal cuore napoletano” per aggregarsi a un altro Regno, ateo, invidioso e ambizioso come quello dei Savoia, e come sulle barricate di Palermo (è il console di Francia Hippolyte Fleury che lo attesta in una sua ben nota relazione scritta) a incitare la popolazione al combattimento ci fossero frati domenicani e francescani col crocifisso in una mano e il fucile nell’altra. Non spiega nemmeno come mai, stante le nere disgrazie in cui l’impresa dei Mille avrebbe gettato quel “paradiso terrestre”, Garibaldi, tornato colà nel 1862 per raccogliere volontari per Roma, trovasse ad accoglierlo folle immense di gente in delirio che lo festeggiava, com’è attestato da tutte le cronache e gli scrittori, e raccogliesse tra Palermo e Catania oltre 4.000 volontari che passarono con lui lo stretto, sfidando l’ostilità del Governo e della stampa straniera, compresa quella inglese. Il grido “Roma o morte!” fu lanciato proprio da un siciliano tra la folla entusiasta, e Garibaldi prontamente lo raccolse e fece suo.
Nel novembre del 1860, del resto, il Journal des debats, noto quotidiano francese, aveva sparato la madre di tutte le sciocchezze, che batte anche quelle del De’ Sivo: “Quelli che hanno chiamato i Piemontesi e hanno consegnato loro il Regno delle due Sicilie sono una impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si vedono ovunque.” Ciò che si vedeva era piuttosto il clima di dispetto che il Regno d’Italia con la sua ingombrante presenza stava creando in Europa. Tutti sapevano che questo Regno non si sarebbe fermato a Napoli, ma avrebbe proseguito per Roma, puntando dritto a Venezia, Trieste, Trento, Fiume, Zara. Il barone Ricasoli, succeduto a Cavour – morto prematuramente nel giugno del 1861 – aveva annunciato in Parlamento senza tante perifrasi: “L’Italia non avrà pace fino a quando l’ultimo lembo della sua terra ancora sotto dominazione straniera non sarà tornato alla madrepatria.”
L’impresa dei Mille dunque non era che il necessario ponte di passaggio e di lancio verso ulteriori e maggiori traguardi. Calunniarla divenne una costante, ma nessuno, neanche il De Sivo, neanche il Journal des debats, avrebbe potuto immaginare che, dopo 150 anni, quelle calunnie sarebbero riaffiorate centuplicate, arricchite di nuovi veleni, in una moderna repubblica di persone che, a differenza del De Sivo, non possono nemmeno addurre a scusante l’odio personale.
Lungi dall’essere quel perfido capolavoro di calcolo occulto preteso dai revisionisti, orchestrato dall’Inghilterra e da una Massoneria internazionale che allora non esisteva affatto (ogni nazione aveva la “sua” Massoneria e anzi più d’una, spesso in urto reciproco), l’impresa dei Mille, chiamata così per semplificazione, fu, al contrario, un capolavoro di azzardo che tolse il sonno al Conte di Cavour, accelerando la sua prematura fine, tenne col fiato sospeso il Re Vittorio Emanuele II, e aveva non poche probabilità di finire tragicamente, con la morte stessa del suo condottiero.
Fu solo per la segretezza iniziale dell’azione, attuata con ogni possibile precauzione e cautela, cui seguirono altri sbarchi in successione, sempre furtivi e imprevedibili in vari punti dell’isola, fu per le vaste complicità sul territorio, fu per l’afflusso costante di volontari perfino stranieri (inglesi, ungheresi, polacchi, americani, alcuni dei quali scapparono perfino dalle loro navi per seguire Garibaldi), dopo i primi momenti di tensione, confusione e diffidenza (i siciliani in un primo tempo credettero si trattasse di un inganno dei Borboni per fare altre vittime, essendoci state feroci repressioni e rivolte nei mesi antecedenti lo sbarco), fu per il defilarsi dei briganti locali che i Borboni speravano usare a proprio vantaggio e buona parte dei quali invece si schierò con Garibaldi (Giosafatte Talarico, il più noto, si rifiutò di ammazzare l’eroe dei due mondi pur dietro lauto compenso), fu per la partecipazione popolare, l’appoggio di non poche famiglie nobiliari che misero a disposizione case, ville e terreni, la defezione del clero che tranne poche eccezioni si schierò con Garibaldi, la simpatia delle folle di tutta Europa e del mondo, il carisma gigantesco di Garibaldi che offriva perdonanze, cure e accoglienza al nemico ferito e arreso, il clamore suscitato dalle narrazioni del coraggio, degli ardimenti e delle battaglie contro gli agguerriti mercenari svizzeri e bavaresi in gran numero usati dal Borbone fatte da giornalisti e scrittori stranieri entusiasti (Alexandre Dumas fu tra questi), gli aiuti di tutti i generi ricevuti in soldi, alimenti, generi di conforto e messaggi provenienti da ogni dove, persino dai sudisti americani, dai Cinesi e dalle associazioni nazionali e internazionali più disparate, atee e credenti, ebbene fu per tutto questo – e scusate se è poco! – che l’impresa fu coronata dal successo finale, e si trattò di un’impresa oltremodo difficile e sanguinosa, che, a dispetto di ogni denigrazione, rimane scolpita come un’epopea incancellabile nella Storia d’Italia.
Maria Cipriano
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