«Dio se non lo cerchi lo trovi»
(Meister Eckhart)
La filosofia indiana, nella sua adamantina libertà e opulenza, poteva permettersi già migliaia d’anni fa di sviluppare sistemi atei, persino religioni atee. La Chiesa cristiana, per secoli, ha invece reso impossibile che qualcuno mettesse in dubbio l’esistenza di Dio. Ma se la realtà di Dio era fuori discussione, perché affaticarsi a cercare prove e dimostrazioni razionali?
Il matrimonio tra fede e ragione è difficile, e se la fede diventa tiranna, la ragione, prima o poi, si ribella. Così, all’epoca dei ‘Lumi’, un acerbo ateismo comincia a diffondersi. Nel 1796 Napoleone chiede a Laplace perché non menzioni Dio nella sua “Esposizione del sistema del mondo”, e lo studioso risponde: «sire, non ho avuto bisogno di quell’ipotesi».
Che senso può avere oggi tale ipotesi? Dio è ancora importante nel determinare la nostra visione del mondo? A mio parere noi disponiamo di tre strumenti fondamentali per svolgere un esame di realtà: l’inferenza, l’esperienza dei sensi, la testimonianza degna di fede. Nel caso si voglia stabilire la realtà di Dio, tuttavia, tutti e tre risultano inadeguati. Occorre introdurre criteri diversi, come la rivelazione, l’ispirazione, l’intuizione.
La nostra conoscenza di Dio può dunque venirci da libri cui attribuiamo origine divina, e dai relativi commenti. Ma gli studi moderni hanno messo in crisi l’origine sovrannaturale di tali testi, col mostrarne i contesti culturali e storici, gli stili narrativi, le interpolazioni, l’umanità degli autori. La fede nella “parola di Dio”, un tempo compatta e omologante, si è oggi dispersa in una pletora di opinioni personali e di distinguo. D’altro canto le facoltà psichiche che predispongono l’uomo a stati profetici, ispirati, o a profonde intuizioni spirituali, sembrano aver subìto negli ultimi tempi una rapida involuzione.
Così, alcuni credono all’esistenza di Dio, altri la negano o non se ne danno pensiero. Altri, dubbiosi, ne vorrebbero le prove, come si trattasse dello Yeti, degli alieni o dei fantasmi. Occorre naturalmente evitare pregiudizi grossolani su cosa significhi ‘esistere’. Esistono lo spazio, l’amore, la materia, la mente? In che senso domandiamo se Dio esiste? E quale Dio?
C’è un Dio ebreo, un Dio gnostico o panteista. Il Dio di Spinoza, di Hegel, o quell’indefinito dio che secondo di Heidegger ci potrebbe salvare. V’è un Dio logico-astratto, nella sua geometrica freddezza, e uno biblico-antropomorfo, più caldo, che si preoccupa per noi. V’è un Dio indistinguibile dalle leggi naturali, indifferente ai problemi degli uomini. Vi sono il Brahman, il Tao, Ahura Mazda ecc. Sono modelli, strutture intellettuali, ed è difficile dire a cosa esattamente si riferiscano.
Da circa duemila anni l’uomo occidentale ha un rapporto col divino basato su clausole giudaiche ed elleniste. Il fine di tale religiosità, in sintesi, mi par essere quello di propiziare entità e forze sovrannaturali, dare fondamento mitologico a un’organizzazione sociale, inserire la storia dell’uomo in una dimensione metafisica.
Tuttavia, mentre la vita politica e sociale degli Ebrei era fortemente influenzata dal rapporto con Jahvè – e quella dei greci e dei romani dal rapporto con gli Dei – oggi lo sviluppo delle scienze positive e della tecnica imprimono a nostri orientamenti sociali carattere decisamente ateo. Il mondo è ormai un luogo dissacrato, dove i paradigmi fisici ed economici erodono i dogmi teologici.
Eppure, benché non esista più una vera religiosità sociale, l’uomo continua a interrogarsi su Dio. Son però discussioni aprioristiche, che prendono l’abbrivio da un’idea di Dio e della sua natura già cristallizzata dalla storia del pensiero, chiusa in classiche concezioni bibliche, platoniche ecc. È un Dio culturale, sedimento del passato, sul quale proiettiamo le nostre idiosincrasie sentimentali o razionali.
So che alcuni pretendono di conoscere l’essenza di Dio, la sua volontà, i suoi sentimenti etc. Fatta salva quella dose di imperscrutabilità e imprevedibilità, che del resto è inevitabile anche nelle più intime relazioni umane, costoro sembrano sapere con certezza non solo ciò che Dio fa ma anche perché lo fa. Mi chiedo donde venga loro questa familiarità. Forse son stretti confidenti dell’essere divino, o forse si tratta di credenze, di illazioni.
Da parte mia, non sono un credente e neppure uno scettico. Dubito di ciò in cui credo e credo in ciò di cui dubito. Fatico a capire quello che io stesso sono, faccio e voglio, e mi son del tutto oscure le faccende divine. Conosco una certa quantità di teologie e mitologie, congetture filosofiche e psicanalitiche, ma questo non significa che io sappia qualcosa di Dio. Inoltre, ripetere i pensieri altrui non mi piace, perché l’imitazione uccide ogni arte, anche quella di vivere.
Alcuni fanno Dio oggetto di argomentazioni sottili e ben costruite. Ma il Dio che esce dalla prova ontologica di Sant’Anselmo o di Gödel, o da altre ingegnose sciarade, non è certo immagine che possa infiammare o consolare gli animi.
V’è chi ha fede in Dio con la speranza di trarne un beneficio, in questo o in un altro mondo. Come Mosè, ha “lo sguardo rivolto alla ricompensa”. Per lui Dio è un Padre-Sovrano cui ubbidire, il contabile delle buone e cattive azioni, lo scrutatore delle coscienze, colui che giudica l’uomo, lo premia o lo punisce. Questa divinità paterna suscita profonde espressioni d’amore, ma anche fanatismi, sensi di colpa, paure e soprusi.
Ancora non abbiamo rinunciato al Dio psicopatico e feroce, che dalle pagine di vecchi libri incita all’odio, alla conquista, alla mancanza di pietà per i nemici, al massacro degli infedeli, al Dio che promette e minaccia, che alimenta i nostri deliri collettivi o individuali.
Tuttavia è questa l’unica idea di Dio che possa far presa sui popoli, influenzarne le decisioni politiche, le dottrine etiche. Di fatto, ritengo che le sorti di una civiltà dipendano, più che da contingenze economiche o politiche, da una concezione condivisa di Dio. Su ciò mi pare fondarsi e plasmarsi l’identità di un popolo e dei suoi individui.
Infine, v’è chi par conoscere Dio grazie al rapimento estatico. Si direbbe che solo questi, un Plotino, un’Angela da Foligno, abbiano esperienza reale del divino. Gli altri, diceva Rumi, discutono di Dio come degli infanti potrebbero parlare dei misteri nuziali. Anche l’Aquinate, sperimentata l’estasi, chiese che le sue opere venissero distrutte – “mihi videtur ut palea” (mi sembrarono paglia). Ma l’esperienza dei grandi mistici non è né generalizzabile né comunicabile.
Difettandocene l’esperienza diretta, dovremmo forse tacere su Dio. Tuttavia, il parlarne stimola riflessioni sulla vita in senso lato, sulla condotta dell’uomo e sul suo destino. Un tale mi dice: “credo in un Dio d’amore, perché questo mi aiuta a vivere meglio”. Illusione? Può darsi, ma a volte è necessario farsi guidare dall’immaginazione. Bisogna però saper scegliere i propri sogni. Anche il denaro, il potere, il sesso, sono a modo loro una trascendenza che ci attrae.
Possiamo aver fede in un Dio eterno, sorgente di vita e di ogni bene, o render culto a idoli effimeri. Vedere nell’universo una teofania e in noi stessi un significato che ci trascende, oppure crederci creature di una natura incomprensibile e ostile, larve del tempo che il caso crea e distrugge, passando da nulla a nulla. Questa opzione incide profondamente sul nostro modo di interpretare la realtà, il nostro ruolo nel mondo, la nostra relazione con gli altri, i nostri doveri etc.
Ma tanto il Dio sillogistico dei filosofi quanto quello paterno e autocratico di Abramo, o il Deus sive natura, mi sembrano costruzioni fragili e malamente poggiate sulla profondità oscura dell’animo umano. Io credo che l’idea di Dio dovrebbe essere piuttosto una finestra aperta sull’infinito, presentimento della nostra stessa infinità, ed evocare una realtà nella quale l’uomo stesso si riconosce come mistero e trascendenza.
Purtroppo oggi la società ci chiude in immanenze sempre più anguste, di tipo fisico, chimico, biologico, psicologico, neurologico, economico, sociale, politico ecc., comprimendo penosamente la nostra vastità spirituale. E quel che resta di Dio è usato come feticcio di Verità e Moralità con cui manipolare le coscienze degli individui.
Il mondo è invaso dal cancro di mitologie progressiste, di statistiche, di leggi di mercato, dalle ipocrite favole umanitarie o ecologiste. L’uomo moderno si inchina quotidianamente a forze tenebrose che vogliono svuotare la vita di ogni senso divino (e il vuoto lasciato da Dio si riempie rapidamente di demoni e fantasmi). Più la nostra cultura produce idolatrie atee e materialiste, più ci legano catene e tabù.
La ricerca di Dio è ricerca di libertà. Non ci servono mitologie e ideologie, numi tutelari e tutori divini. E dopo esserci disincantati dalle fiabe scientifiche e democratiche, dai fumosi romanzi della ‘solidarietà’, della ‘tolleranza’ ecc., possiamo sbarazzarci anche di cause prime, motori immobili, disegni intelligenti, provvidenze e altri simili argomenti.
Ma occorre un atto di coraggio intellettuale per dubitare che esista un Dio giusto, saggio, misericordioso, garante di un ordine morale ecc. Naturalmente credere in un tale Essere può mitigare il carattere tragico e oscuro del nostro destino, dare speranza. Ma francamente sembra più realistico credere d’esser creati da una natura dura e inclemente.
Ogni essere vivente patisce il dolore e la paura, il freddo e la fame – e “la fame è miscredente”, recita un proverbio islamico. Siamo afflitti da malattia, vecchiaia, morte (ciò che convinse il giovane Gautama, futuro Buddha, a farsi asceta). E se Dio è amore, perché nel mondo prevalgono la crudeltà, il conflitto e l’egoismo?
Il male è sempre stato il grande argomento contro Dio. I manichei saprebbero rispondere. Altri han tentato, senza inventarsi un Anti-Dio, di dare un senso al paradosso. Ma se siamo noi che diamo un senso alle cose, possiamo, come Jago, credere in un Dio crudele che ci ha creato simili a lui. Credere d’essere fango originario evolutosi per il semplice concorso di leggi cieche e di eventi casuali. La nostra fede dipende qui da supposizioni e da inclinazioni arbitrarie della volontà.
La ricerca di Dio è ricerca di realtà, libera da compiacenti illusioni. Di fronte ai problemi astratti il Buddha restava in silenzio. Ma era prodigo di insegnamenti per chi ponesse al centro la propria concreta tensione esistenziale. Come può l’essere uscire dalla ruota del dolore? Non è un esercizio d’erudizione o di dialettica, né un’amabile chiacchierata. L’angoscia dell’interrogante priva la domanda della sua oziosità e la spinge verso una verità radicale.
V’è al contrario una religiosità psicotica che implica il conformarsi, l’ubbidire senza comprendere, l’adeguarsi a norme di carattere etico o intellettuale fissate d’autorità come una segnaletica stradale. La coscienza soggiace a un sistema di condizionamenti, si tratti di religione o di ‘pensiero unico’, di dogmi religiosi o dogmi culturali.
Non si può cercare Dio senza ribellarsi a questo apparato di controllo, al suo sistema di valori e di bisogni inautentici. Cercando un Senso ultimo noi osiamo dubitare dei sensi provvisori, dei saperi opinabili e delle verità presunte. Mettiamo in discussione i criteri apodittici di moralità e le varie soteriologie che la società ci prescrive.
Tuttavia, in fondo a questa via negationis, sappiamo solo di non sapere. Il nostro triplice strumento – sensi, ragione, fede – fallisce, e Dio si ritira, esce dal mondo delle idee, delle gnosi e dei sogni, diventa il Nulla, l’Inattingibile dal pensiero.
Questa non è “la morte di Dio”. Dio vive nell’inconscio, dove non si offre in veste di verità teorica ma di nuda realtà. È un Dio abissale, senza fondamento, che si rivela misteriosamente. Come il senso dell’io, è qualcosa che matura indipendentemente dal pensiero e dalla volontà. Perciò il passo del Nuovo Testamento che più amo è quello in cui il Regno di Dio è paragonato a un tale che getta un seme: «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa».
Chiedermi se Dio esiste non è diverso dal chiedermi se io esisto. La domanda “chi è Dio?” non presenta ambiguità e difficoltà sostanzialmente diverse dal chiedersi “chi sono io?”. Non esiste nessun io che si possa toccare, vedere, dimostrare. Eppure son certo di essere. Donde traggo questa certezza?
Se seguo le mie orme verso un’origine, cado in un nulla profondo e misterioso. Ho esperienza di me stesso come di una coscienza relativa e condizionata, presa nella rete del tempo e delle cause. Ma se indago sulla scaturigine di questo ‘io’ intuisco il suo legame con una coscienza eterna, libera e assoluta.
«Non credo di conoscerlo e neppure di non conoscerlo» è scritto nelle Upanishad. La ricerca di Dio oscilla tra questa doppia negazione, tra la nostra sostanziale identità con Dio e l’apparente lontananza. L’Inconscio divino che ci fonda e ci plasma non è diviso dal nostro essere, ne è solo la parte originaria e invisibile. In Dio non riconosciamo un astratto e indistinto ‘Assoluto’, o un Sommo Ente separato da noi, ma la nostra Soggettività trascendente e personale.
«La pietra è Dio, ma non sa quello che è, ed il fatto di non saperlo fa di lei una pietra» dice Meister Eckhart. Allora, in una società sempre più artificiale, tecnologizzata e disumanizzata, la domanda su Dio dovrebbe indurci a chiedere: “chi è l’uomo?”. Cos’è che lo aliena da sé stesso? Un intero mondo tende a dissiparci e a fuorviarci, facendoci dimenticare chi realmente siamo, offrendoci meschini surrogati della vita, trasformandoci in fantasmi affamati. Ma questo non dipende da forze ‘sataniche’. Esprime una nostra libertà, è conseguenza delle nostre scelte.
Vorrei citare infine un luogo comune: il silenzio di Dio. Io credo che Dio ci parli continuamente. Segni, presagi, ammonimenti, ci chiamano al Senso Ultimo, ci guidano oltre i labirinti delle colpe e delle illusioni. Ma Dio «è il sussurro di una brezza leggera». I rumori esterni e le nostre interne affabulazioni lo coprono.
Se Dio esiste non è per offrirci evasioni in un apatico o voluttuoso paradiso ma per reintegrarci nella piena dignità dello spirito. Ci invita ad aprire le pesanti porte di questo mondo, dove si affollano mali d’ogni genere, perché possa entrarvi una luce di nobiltà e verità. Partecipiamo così al travaglio di una perenne creatività. Lavoriamo a una Bellezza ancora informe, a un Amore ancora ambiguo, cui fatichiamo a dare un volto, avvolto com’è nella caligine delle nostre contraddizioni. E quel volto è forse il nostro stesso volto. Allora, che Dio esista, più che un dubbio, è una nostra responsabilità.
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