Dante si finge stupito di trovare all’Inferno il suo maestro di retorica, ser Brunetto Latini, colpevole di sodomia e perciò bersagliato dalle fiamme eterne. Se avesse scritto oggi una cosa del genere, come minimo sarebbe stato radiato dall’Albo degli Italiani Illustri con l’accusa di omofobia. Una sorte condivisa da molte altre personalità del Belpaese, quali ad esempio Julius Firmicus Maternus (306-337 d.C.), allergico ai sacerdoti eunuchi che acconciavano i capelli in modo effeminato e si vestivano con abiti morbidi come quelli delle donne. Oppure sant’Agostino, indignato per il modo in cui i galli e gli arcigalli se ne andavano in giro “con i capelli gocciolanti e le facce dipinte, con le membra fluenti e la camminata femminile” (De civitate Dei 7.26).
Ma d’altra parte non si può paragonare l’evoluta Età dei Diritti al «buio» Medioevo. Un periodo talmente rigido e intollerante da permettere a Dante (e non solo a lui) di scrivere ciò che pensa, ovvero di condannare le frequentazioni discutibili dell’uomo che lo ha iniziato alla letteratura e alla retorica salvandone nel contempo le qualità umane. Gli è talmente riconoscente per l’incoraggiamento ricevuto a bandire ogni timidezza in previsione della fama imperitura, da insignirlo del titolo onorifico di “ser”. Nonostante ci tenga a precisare che il suo vero maestro è Virgilio, cioè il poeta lì presente che lo sta riportando a casa (sul retto cammino).
Pur essendo stato un uomo d’ingegno ser Brunetto stenta a comprendere le ragioni della propria colpa, mostrando ancora nei confronti del mondo materiale un attaccamento inconsueto per un’anima trapassata. Ma tu, chiede a Dante, come sei finito quaggiù? E quello: perdendomi ieri mattina in una valle oscura, dove ho incontrato costui che mi scorta (Virgilio).
Tutto il dialogo è imperniato sulla tenerezza: il vecchio precettore si rivolge a Dante chiamandolo “figliuol mio” mentre l’ex-discepolo lo segue con “’l capo chino” in segno di profonda deferenza, parlando della “cara e buona imagine paterna di voi” che gli è rimasta nel cuore.
S’inserisce in questo quadretto famigliare il monito perentorio dell’ex-letterato: stai lontano dalla volgarità del mondo e segui la tua stella qualsiasi cosa accada, procedendo senza distrazioni approderai alla gloria. “Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto, / se ben m’accorsi ne la vita bella; / e s’io non fossi sì per tempo morto, / veggendo il cielo a te così benigno, / dato t’avrei a l’opera conforto” Inferno, canto XV, 55-60).
Posta in questi termini la figura del Latini restituisce l’immagine di una specie di «eudaimonia» aristotelica (da “eu”, buono e “daimon”, demone). Da un lato ser Brunetto sprona l’ex-discepolo all’«azione al servizio delle virtù», dall’altro gli augura di «avere un buon dèmone», cioè lo incita a lasciarsi pervadere dalle forze genuine che lo abitano, le sole capaci di assicurargli fama e successo. Incrociando (presumibilmente) le dita Dante si dichiara pronto a parare i colpi della Fortuna, ovunque e comunque voglia colpirlo.
Oggi seguire un simile consiglio è un atto eroico. La parola «virtù» è diventata sinonimo di «difetto» e sviluppare le proprie potenzialità nel caos dei disvalori provocato dal sistema unipolare americanocentrico presuppone una forza d’animo enorme. Non che un tempo fossero tutte rose e fiori, altrimenti Platone non avrebbe avuto bisogno di puntualizzare nella Repubblica: “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine, un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.”
Diciamo che rispetto al passato è salito il prezzo per riscattare se stessi ed è più difficile individuare la meta di perfezione verso cui tendere. Come se ciò non bastasse prima di «chiedere l’amicizia al proprio dèmone» ciascuno di noi deve neutralizzare le «sette teste del drago», ovvero misurarsi con i sette punti principali dell’agenda del terrore individuati da Michel Onfray nel saggio Teoria della dittatura. Nell’ordine: distruggere la libertà, impoverire la lingua, abolire la verità, sopprimere la Storia, negare la Natura, propagare l’odio, aspirare all’Impero.
In questo manicomio cosmico che sembra uscito dai pennelli di Hieronymus Bosch non bisogna perdersi d’animo bensì seguire «il retto cammino» indicato da Dante. A cominciare dall’intenzione di riprendersi la propria libertà, sfuggendo il più possibile alla sorveglianza digitale esercitata da un regime poliziesco di stampo pedagogico che spinge le persone alla vita pubblica (mentre i vecchi dispotismi rinchiudevano l’uomo nella vita privata) perché tutto ciò che può essere tracciato diventa uno strumento di repressione. La seconda cosa da fare è riappropriarsi della lingua perché la neolingua progressista nasce per manipolare la realtà, solo il vocabolario-madre e i classici permettono di riscoprire l’origine dei termini, e all’interno delle parole c’è la dimora dell’essere (Heidegger). La terza cosa da fare è ristabilire la verità respingendo ogni ideologia, le notizie non vanno prese alla lettera bensì valutate minuziosamente prima di esprimere un’opinione. La quarta cosa da fare comprende il recupero della Storia anche (o soprattutto) studiandola fuori dai canali convenzionali, spesso nei libri più nascosti si trovano tesori sepolti, cioè brandelli di autentica memoria. La quinta cosa da fare è rientrare nella Natura, ovvero respingere al mittente tutta la paccottiglia riguardante il green, lo smart, il transumano, l’iper-igienismo di plastica che non è amico né parente del pulito. Come sesta cosa bisogna difendersi dall’odio con lo scudo della compassione, non temere di manifestare il proprio pensiero critico, stare sempre dalla parte dell’uomo. La settima ed ultima cosa da fare implica la volontà di combattere l’Impero in tutte le sue forme prendendo con le pinze il millantato progresso, sottraendo i bambini all’indottrinamento e ai trattamenti medici forzati, diffidando dei politicanti creati in vitro.
Complessivamente preso il botta e risposta tra ser Brunetto e Dante ribadisce un concetto-cardine: per «avere una buona vita» bisogna essere onesti con se stessi e assecondare le proprie virtù. Sotto questo aspetto il monito “segui tua stella, / non puoi fallire a glorioso porto” ricorda il ciceroniano sequi deum, nel quale si coglie il consiglio implicito a non perdere mai di vista le buone letture che aiutano la mente a «formulare» ed «elaborare».
Essendo lontani dal nostro quotidiano i grandi autori ci costringono a fare paragoni, stimolano la riflessione e ci rendono persone migliori. Solo da un terreno bene arato possono spuntare tra le zolle sentimenti del tutto umani ma temporaneamente accantonati come ad esempio la voglia di conoscere se stessi (se noscere), il desiderio di partire dalla Natura come base e unità del sapere, la scelta di vivere senza eccessi (nihil nimis). A quel punto vedremo farsi avanti il nostro dèmone, e finalmente ci stringeremo la mano.
Quanto alle «sette teste del drago», come ricorda ser Brunetto in questo canto attraverso una serie di metafore animalesche (becco, bestie fiesolane, strame, letame), chi di spada ferisce di spada perisce. I violenti finiranno per divorarsi l’un l’altro senza compromettere lo spirito delle persone di livello superiore (i discendenti dei Romani, nel caso della Firenze dantesca) che in barba alle più bieche imposizioni non avranno perso l’abitudine di apprezzare il bello e il buono. Così, fino alla fine del mondo.
Al termine di questa confortante previsione Dante ci mette del suo ricordando l’importanza dei movimenti celesti, che chiamando in causa l’anima rivelano la presenza di dio. Ma nemmeno il Latini se ne va senza lasciare il segno: stai attento, dice al pupillo, oltre a riservarti onore da ambo le parti (Bianchi e Neri) la tua fortuna susciterà odio e invidia. “La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l’erba.” (Inferno, canto XV, 70-72).
S’inserisce in queste righe la profezia dell’esilio, corredata da una precisazione tristemente nota: la correttezza politica non paga mai, cozzando contro la grettezza della moltitudine, rappresentata per l’occasione dai bifolchi scesi da Fiesole che ancora conservano “l’indole della rupe e della pietra”. Mentre Dante considera se stesso e la sua famiglia di ascendenza antico-romana (Paradiso, XVI, 40-45), cioè appartenente alla santa semenza di quei Romani che restarono a Firenze quando fu fondato il nido di tanta malvagità.
L’ex-discepolo rassicura il vecchio precettore. Ha preso nota di tutto, ma si riserva la facoltà di sottoporre questa e l’altra profezia (quella di Farinata sull’esilio) a una donna in grado di fornirgli maggiori spiegazioni (Beatrice), ammesso che riesca ad arrivare fino a lei. In ogni caso è pronto ad accettare ciò che la fortuna vorrà concedergli, purché non faccia a pugni con la sua coscienza.
Virgilio approva: il buon ascoltatore è colui che raccoglie e conserva gli avvertimenti di chi ha un’esperienza più lunga. Quindi, noi siamo fritti. Se “ascolta con profitto una cosa solo chi sa ricordarla”, di cosa potremmo fare tesoro noi Ultimi che abbiamo portato nella discarica della Storia tutto ciò che ci ha preceduto? In assenza di punti di riferimento stiamo infatti aspettando come la manna dal cielo una fantomatica «rivoluzione» capace di rimuovere il marciume dal mondo.
Siamo talmente storditi da avere dimenticato il vero significato della parola «rivoluzione», che prima di scivolare nella politica indicava in astronomia l’intero movimento di un pianeta da un punto all’altro del suo percorso, cioè dalla casella di partenza al termine della corsa. Effettivamente dopo un tragitto travagliato avveniva una ricostruzione, ma era il ripristino di quanto era stato distrutto.
Per quale motivo la società umana dovrebbe replicare un simile processo? Quante volte la rivoluzione è stata tradita e il popolo, semplicemente, ha cambiato padrone? E quando mai le diseguaglianze sono state abolite? Immancabilmente i fattori di base, del tutto naturali, sono rimasti invariati: chi era intelligente ha continuato ad essere intelligente, chi era stupido è restato stupido e chi per natura era un animale da soma, o una bestiola belante, ha mantenuto la sua indole.
Con la differenza che ad ogni giro di boa l’umanità cadeva in condizioni peggiori delle precedenti perché la Storia umana non è un fenomeno progressivo bensì degenerativo. Sarebbe bello poter decretare d’ufficio l’uguaglianza e realizzarla ipso facto, ma è impossibile. Eppure su questa svista grossolana insiste da secoli la sinistra global-progressista, ex-leninista, ex-marxista, ex-robespierrista, ex-rousseauiana. Incuranti del primo principio della termodinamica, certuni preferiscono tralasciare il fatto che le vittime di ieri una volta raggiunto il potere impongono un ordine più ignorante di quello spazzato via e diventano i carnefici di oggi.
Come Saturno la rivoluzione mangia i suoi figli, promette quello che non può mantenere producendo il contrario di ciò che si era proposta all’inizio, fomenta l’infelicità, la miseria, la fame, la guerra, l’odio indiscriminato. Una persona sana di mente non inserirebbe mai questa voce nel suo libro dei desideri. Risulta a qualcuno che la Prima, la Seconda, la Terza e adesso la Quarta Rivoluzione Industriale abbiano migliorato il benessere collettivo? Calando un velo pietoso sulle «rivoluzioni storiche».
L’infondatezza di qualsiasi iniziativa rivoluzionaria è dimostrata dal fatto che oggi sia lo stesso Potere ad agire in modo «sconvolgente», e lo faccia alla luce del sole. Ad esempio in Europa comandano attualmente affiliazioni mondialiste come la Fabian Society, che si propone di buttare tutto all’aria per instaurare un comunismo elitario mondiale in grado di esercitare il pieno controllo delle masse.
Contrariamente a quanto credevano i nostri nonni, vissuti quando il liberalismo non era ancora diventato neoliberismo, il comunismo e il mercato NON SONO principi antitetici. Cosa che un autore perspicace come Herbert Spencer aveva intuito già molto tempo fa, teorizzando che lo Stato alla fine si sarebbe dissolto per lasciare il posto a relazioni contrattuali libere basate sui principi del mercato. Nel 1893 Emile Durkheim tentò di dimostrare la fallacia di tale previsione, a suo dire priva di evidenza empirica, ma la successiva deriva del cosiddetto Occidente lo ha sconfessato in pieno.
Non solo ma anche perdendo tempo dietro a romantiche rivoluzioni abbiamo trascurato il nostro dèmone e dimenticato che l’unica rivoluzione possibile è, ed è sempre stata, la «rivoluzione del buon senso», cioè la rivoluzione che si fa in nome del benessere di una comunità, non per innalzare la bandiera dell’idea di qualcun altro.
Sempre attento al bene comune fu invece ser Brunetto Latini, guelfo militante ed esule in Francia, poi rientrato in patria per impegnarsi civicamente. Sulle sue doti personali Dante non discute, sebbene lo spedisca all’Inferno fra i “violenti contro natura”, cioè fra i sodomiti, dove spiccano numerosi ecclesiastici e dotti di chiara fama.
E’ nota l’integrità morale del poeta, che già nel V canto aveva puntato il dito contro “i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento”. Secondo alcuni commentatori vi sarebbero tuttavia altre cause alla base della condanna del Latini: in parte artistiche (E.G. Parodi), cioè dovute alla sua cultura enciclopedica di ascendenza francese anziché toscana, in parte riconducibili alla fragilità umana che aumenta nei soggetti non toccati dalla Grazia (F. Montanari).
In entrambi i casi appare chiaro che l’ingegno non basta a raggiungere la salvezza, un concetto che Dante non si stanca di ripetere, pur dedicando ai grandi spiriti un trattamento di riguardo. E’ appunto con gli occhi velati di tristezza che osserva il vecchio maestro mentre rientra nei ranghi in tutta fretta, quasi fosse un podista in gara per vincere il Drappo Verde al Palio di Verona.
Il richiamo alla competizione veneta si colloca storicamente in una società medioevale propensa ad utilizzare le feste di questo genere non tanto per divertimento quanto più per fare politica. Nella fattispecie, il Palio veronese era legato a doppio filo alla rivalità tra famiglie guelfe e ghibelline perciò parteciparvi annualmente significava per i gruppi nobiliari schierarsi pubblicamente in attesa del consenso popolare, strutturalmente collegato alla nascita e allo sviluppo delle Signorie.
Oggi, invece, il consenso è superfluo. Chi ottiene il potere comanda, chi gli si oppone è il nemico. Con l’aggravante che i nostri «fiesolani» non sono rozzi e ignoranti bensì potenti e intelligenti. Solo uno Stato veramente sovrano potrebbe tutelarci dalle angherie di costoro, purtroppo, però, sotto l’impero dei bankers non c’è posto per le comunità politiche organizzate e ognuno di noi è solo soletto davanti all’oppressore.
I tempi sono quasi maturi per l’avvio di una palingenesi culturale e spirituale che mandi all’aria l’intero progetto di riformattazione del mondo, ma ci vuole ancora un po’ di pazienza, che è la più grande delle preghiere (Buddha). Nel frattempo a nessuno è concesso di stare con le mani in mano, al contrario, se il Latini fosse qui consiglierebbe a tutti di sbrigarsi a collaborare con il proprio dèmone, l’unico angelo custode capace di farci schivare l’etterno essilio (l’Inferno).
(il viaggio continua)
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