Qualcuno ritiene ancora la statistica una scienza minore, pronta a certificare che abbiamo mangiato un pollo a testa anche se qualcuno è rimasto a digiuno mentre altri si sono strafogati. Soprattutto, sembra pensarla così- disgraziatamente- la miserabile classe dirigente di governo e di opposizione. Se così non fosse, infatti, chi ha responsabilità di decisione si mobiliterebbe dinanzi ai rapporti periodici degli istituti di ricerca e di statistica. Al contrario, al massimo un giorno di interesse mediatico e l’indomani silenzio, via verso i nuovi intrighi, le beghe di cortile, il consueto spettacolo da angiporto che chiamiamo politica.
L’Istat ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla povertà in Italia, le sue conclusioni sono gravi, ma ciò che conta è la polemica sul nuovo libroide autocelebrativo di Matteo Renzi. Eppure, l’istituto pubblico- dunque un ente dotato di prestigio, ufficialità e con accesso privilegiato ad ogni canale di informazione – mette nero su bianco qualcosa che gli italiani normali sanno per esperienza diretta: diventiamo ogni anno più poveri, ed il disagio si concentra sugli anziani e soprattutto su giovani e giovanissimi.
I numeri dovrebbero determinare la reazione popolare, e, nelle classi dirigenti, riflessioni, autocritiche e progetti di lungo termine. Nulla. Le famiglie in condizione di povertà assoluta sono oltre 1.600.000, e costituiscono il 6,3 di quelle residenti. La percentuale sale al 7,9 della popolazione se consideriamo gli individui. Si tratta di 4.762.000 persone, più dell’intera popolazione del Piemonte e della Valle d’Aosta. L’aumento rispetto all’anno precedente è dello 0,3 per cento, un dato apparentemente non drammatico, ma si tratta di 180.000 persone in più schiacciate dal bisogno e dal disagio. Soprattutto, conta che il dato continui ad aumentare, segno evidente che non siamo affatto usciti dalla crisi, con buona pace del dottor Draghi, e che le politiche governative, a cominciare dal magico jobs act sino alla mancia di 80 euro di qualche anno fa, non hanno sortito effetto alcuno.
Tuttavia, l’elemento più pesante è la certificazione dell’ISTAT relativa ai gruppi maggiormente colpiti. Tralasciamo in questa sede il divario territoriale Nord- Sud, la cui forbice è peraltro in ulteriore aumento, e concentriamoci sulle fasce di età. Qui il disastro antropologico è più evidente. I giovani considerati indigenti superano il milione, attestandosi al 10 per cento del totale. Per i minorenni, il dato è ancora più sconfortante, giacché i poveri sono adesso uno su otto (il 12,5%), con un aumento percentuale di oltre un punto e mezzo in un solo anno. Parliamo di un milione e duecentomila giovanissimi poveri, un numero pari all’intera popolazione dell’Abruzzo. Come è ovvio, le più disagiate sono le famiglie numerose, oltre un quarto delle quali sono considerate statisticamente povere, con un balzo impressionante di otto punti e mezzo in un anno. Dal 18,3 per cento al 26,8. Ulteriore aggravante è l’indice di intensità della condizione disagiata, ovvero chi era già povero sta diventando poverissimo o misero, ed il piano inclinato sta travolgendo un numero crescente di residenti.
E’ definitivamente saltata la vecchia regola sociologica della società dei due terzi. Due su tre stavano più o meno bene, secondo le vecchie categorie di giudizio, e con aspettative positive (il cosiddetto ascensore sociale), l’altro terzo era in affanno. Le percentuali si stanno rapidamente rovesciando, rendendo più evidente l’effetto Clessidra, ossia la polarizzazione del reddito e delle opportunità nella fascia più alta, con una strozzatura sempre più accentuata al centro (la proletarizzazione progressiva del ceto medio di una volta) e una enorme massa alla base. Innanzitutto, è diventato chiaro a tutti che i giovani hanno non solo un reddito inferiore a quello dei padri e dei nonni, ma le loro prospettive sono disastrose. Dopo diverse generazioni, il destino è certamente quello di essere più poveri e meno sicuri di chi li ha preceduti. Ci permettiamo di affermare altresì che le ultime generazioni hanno una cultura materiale ampiamente inferiore ai loro padri. Possiedono diplomi, spesso lauree e persino master, ma lo scarto tra conoscenza, saper fare e istruzione certificata da titoli di studio attribuiti dalla scuola è imbarazzante.
Occorre dirlo senza mezzi termini: abbiamo costruito mattone dopo mattone il male dei nostri figli e le conseguenze sono quelle che abbiamo sotto gli occhi e i rapporti statistici non fanno che fotografarle impietosamente. La società senza padri, inevitabilmente, trascura e detesta i figli. Quella in cui viviamo è una società che abortisce se stessa. Per utilizzare una metafora mitologica, si invera l’atto drammatico con cui Crono, o Saturno, il Tempo, divorava i suoi figli. Venuto a sapere che uno di loro lo avrebbe spodestato, il Dio Crono prende a mangiare ad uno ad uno i suoi eredi. La profonda verità del mito greco si adatta perfettamente alla società postmoderna, “che rifiuta il passato e guarda al presente come ad un mero oggetto di consumo; vede il futuro attraverso i raggi di un progresso pressoché ossessivo” (cardinale Robert Sarah).
Nel rapporto Istat, il disprezzo per “prima” si esprime nel basso reddito degli anziani, nella certificazione del loro abbandono e, per conseguenza, nell’aumento della povertà, che si è attestata, nel 2016, oltre il 4 per cento degli ultrasessantacinquenni. Essi, tuttavia, restano meno indigenti dei loro nipoti, in quanto comunque hanno una pensione, qualche risparmio e possiedono molto spesso la casa di abitazione. Il mondo di ieri, a giudicarlo con le categorie della statistica, batte quello di domani tre a uno. Per un nonno in povertà, ci sono tre nipoti in analoghe condizioni.
Basterebbe tale constatazione per emettere una prognosi severa sulla società che abbiamo costruito. Nei giorni precedenti al rapporto Istat, è stato diffuso un altro indicatore di segno diverso, legato alla ricchezza, che ha dimostrato come l’1 per cento delle famiglie possieda circa un quarto dell’intera ricchezza nazionale. La clessidra si allarga in alto, si restringe rapidamente sino a strozzarsi e dilaga in basso, dove sono soprattutto i giovani a pagare il prezzo più alto. Non riusciamo a toglierci dalla mente un brano della lettera di San Paolo ai Galati: “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.”
Il tempo che ha espulso la trascendenza ha eliminato il concetto di filiazione e di eredità. Tutto deve essere esaurito, consumato in fretta, gli altri si arrangino, anche se sono ragazzi, figli nostri. Un esempio drammatico e pregnante è quello del sistema previdenziale. Sino a un quarto di secolo fa, i lavoratori versavano contributi destinati a pagare la pensione agli anziani, i loro padri. Era il sistema a ripartizione. Poi, iniziato il declino demografico, il meccanismo si è inceppato, i lavoratori attivi sono stati costretti a versamenti via via più elevati per sostenere il sistema e, soprattutto, per garantire a se stessi, in un futuro spostato sempre più avanti come la linea dell’orizzonte, una pensione decisamente inferiore. E’ il metodo della capitalizzazione messo a punto da Milton Friedman, l’economista liberale monetarista della scuola di Chicago, l’uomo che dall’ ovvia constatazione dell’inesistenza di pasti gratis ha fatto discendere lo smantellamento dello Stato sociale, le cui vittime finali sono i giovani delle attuali generazioni, quelli che la narrazione mediatica definisce “millennials”, cresciuti nei terribili anni Duemila.
E’ svanita l’eredità, si indebolisce quotidianamente l’idea stessa di filiazione, la parola di Paolo perde significato. Non ci sono più figli, poiché li abbiamo divorati attraverso l’egoismo, dunque mancano gli eredi. Come sempre nelle tragedie epocali, perdono entrambe le parti. Gli ex figli di ieri hanno disconosciuto i padri, sono vissuti nel consumo e nell’assenza di limiti, l’eredità è perduta. I figli superstiti arrancano, e le generazioni non hanno più le risorse morali per cambiare direzione. Nessuna politica pubblica, in Europa ed in Occidente, privilegia la famiglia e la natalità, nessun investimento – materiale, spirituale, culturale- viene fatto sul versante della riproduzione della società. Forse è questo l’elemento che più sgomenta. Oltre un certo limite, abbondantemente superato, l’individualismo genera mostri.
Da sempre, la prima preoccupazione di ogni comunità e compagine sociale è stato perpetuare se stessa. Per questo nacquero le alleanze familiari, l’istituto del matrimonio, e tutto ciò che abbiamo chiamato comunità, cultura e poi civiltà. Poi, la corda è stata spezzata. Disprezzato il passato, negato il futuro come progetto comune, resta un “presentismo” ossessivo che, declinato in formule matematiche e in istogrammi statistici, descrive una società che getta nella spazzatura tutti coloro che non servono al modello dominante. Per gli anziani, è tutto tristemente più semplice: meno cure, l’idea che la soluzione sia una morte scelta, programmata, resa asettica dai bianchi camici degli operatori specializzati, falsamente disincarnata. In Olanda, uno dei laboratori dell’obitorio post moderno, è in discussione una legge che permetterà a ciascuno di richiedere ed ottenere la propria morte allo scoccare dei 75 anni di età, anche se in salute, a semplice richiesta. Sono cambiati i boia, quelli del terzo millennio non impiccano e non fucilano; con guanti e mascherina sterile, asportano grumi di cellule dal corpo delle donne che diventerebbero fastidiosi esseri umani. Armati di siringhe ipodermiche e lacci, sopprimono malati, anziani. La società dei rifiuti, con lo smaltimento che diventa a sua volta business.
Ecco ciò che rivela la statistica sulla povertà. I giovani sono un tremendo fastidio, l’eredità è un impiccio: impiegano almeno vent’anni per diventare adulti, per anni devono essere accuditi, istruiti, si deve vivere per loro, dimenticando le vacanze nei paradisi artificiali del mare esotico e del sesso a gettone, e poi costano, sporcano, esigono. Nel mondo del lavoro, poi, sono una vera palla al piede: formazione lunga e costosa, inesperienza, un sistema scolastico che non insegna né a vivere né a comprendere. Meglio, molto meglio, ricorrere agli eserciti di riserva. Come gli immigrati: sono già adulti, si accontentano di poco, lavorano in nero e senza protezione sociale. Un paradiso per alcuni, l’inferno per tutti gli altri.
Le residue famiglie numerose sono le più danneggiate dal modello dominante, il che dissuade anche i più coraggiosi dal mettere al mondo figli. Oggi, le famiglie con tre figli sono rarissime, guardate con sorpresa e curiosità, e non c’è neppure un mercato immobiliare a costi ragionevoli per chi abbia bisogno di una o due stanze in più. In compenso, sono a carico della sanità pubblica non solo gli aborti volontari, ma anche le operazioni per il cambio di sesso e persino taluni interventi estetici. Le spese per gli animali domestici sono fiscalmente detraibili, c’è da stupirsi se i giovani esseri umani siano, nei fatti ed al netto del diluvio retorico dell’ipocrisia giovanilistica, l’ultima ruota del carro? Quando si presentano per un lavoro, si richiede loro l’esperienza che non possono essersi fatta, conoscenze e saperi che la scuola non fornisce.
Di che cosa, infine, sarebbero eredi? Forse dello sballo del fine settimana, o dei falsi diritti individuali al capriccio, o ancora dell’egoismo che trabocca ovunque, a partire dalle loro stesse famiglie destrutturate. Non è tutta colpa loro se davanti alla prospettiva di un impiego chiedono innanzitutto se si lavora al sabato o i festivi (come faccio ad andare in discoteca?), o se rifiutano con angoscia il sacrificio, la fatica, il disagio da cui li abbiamo allontanati. Probabilmente sono davvero in maggioranza bamboccioni, ma è l’eredità perfetta di madri e padri iperprotettivi, partigiani intransigenti dei “diritti”, e di una società corriva per la quale ogni condotta è lecita purché sia volta al consumo. Non hanno ereditato l’idea di bene e di male, di giusto e sbagliato perché questi legati non sono stati citati nel testamento. Sprecati, consumati, spremuti come limoni, non sono caduti in successione.
La povertà morale e spirituale diviene compagna inevitabile del disagio economico. Le vite nomadi, precarie, vissute alla giornata nell’indifferenza per il futuro si accompagnano alle nuove povertà materiali. Non ci si può formare una famiglia, posto che lo si voglia, ancor meno mettere da parte un gruzzoletto per il domani. Eppure, si trovano sempre i denari per i fine settimana di alcool ed eccessi, ci si deturpa il corpo con costosi e orribili tatuaggi (la regressione allo stato tribale, senza il senso della vita comunitaria della tribù).
Eduardo Zarelli, benemerito editore controcorrente, nella prefazione ad un recente libro di Alain De Benoist, esprime un’altra verità sconcertante. Le ultime generazioni hanno competenze tecniche enormemente inferiori alle società tradizionali. In sostanza non sanno fare pressoché nulla, prigioniere della tecnologia. La tecnica, spiega Zarelli, “è il saper fare con scopo, mentre la tecnologia è un riduzionismo funzionale, una scienza applicata il cui fine è quello di fornirci una funzione senza passare attraverso il saper fare”. Una povertà che è tremenda responsabilità delle generazioni degli adulti e degli anziani. Esempi concreti, l’incapacità dei più a risolvere problemi di matematica e fisica in quanto ci pensa il computer, e la stessa perdita della memoria a lungo termine per cui non ricordiamo più neppure i numeri telefonici degli amici e parenti (stanno in rubrica!) e perdiamo progressivamente il senso dell’orientamento (tanto ci sono i GPS e Google Maps).
Quante povertà diverse dietro i nudi istogrammi della statistica, e quanto è grande la perdita che abbiamo addossato ai nostri figli. Il futuro prossimo è ancora più nero: incombe l’era dei robot, ci sarà sempre meno lavoro, anche di quello qualificato e cognitivo. Sarà ancora più importante recuperare la volontà, il sacrificio, il ritorno alla manualità e alla capacità di far da sé, come i nostri nonni che erano più poveri in denaro – però li stiamo raggiungendo- ma più ricchi di conoscenze, autonomia, spirito di adattamento. La divisione del lavoro, insieme con indubbi successi, ci ha portati ad un sistema di vita per cui senza denaro non solo non abbiamo nulla, ma non siamo nulla.
Dal male, tuttavia, occorre trarre opportunità. I giovani diventano poveri in termini monetari, ma, fortunatamente, alcuni di loro stanno recuperando il gusto del fare con le proprie mani e con il cervello, dell’intraprendere, del ri-costruire. Privati di eredità, o respinta con sdegno quella, avariata e menzognera dei padri, dovranno riprendere a navigare per l’alto mare aperto. Forse, avranno molto da imparare dai coetanei stranieri, più scafati, non pochi si perderanno per debolezza e assenza di esempi, ma la vergogna dovrebbe essere la nostra.
Nel tempo delle opportunità e della ricchezza più ostentata, i nostri disvalori, le nostre follie hanno prodotto una povertà diffusa soprattutto a carico dei nostri giovani. Hanno il diritto di maledirci, hanno la necessità di comportarsi in maniera esattamente opposta ai genitori. Ma sapranno farlo, qualcuno oserà insegnarlo, oppure i figli che abbiamo contemporaneamente messo al mondo ed abortito o divorato faranno un altro passo verso il basso? L’Istat non può elaborare statistiche morali, o, come Richard Easterlin, tentare di misurare la felicità in rapporto al reddito. Può soltanto suonare l’allarme sulla povertà economica, e sulla sua drammatica concentrazione tra i più giovani membri della società.
Senza padri, non si cresce. Senza figli, si muore senza funerale. Rifiutate l’eredità dell’ultimo mezzo secolo, il nostro, ragazzi traditi. Fate quel che vorrete, ma, per favore, non seguite il nostro esempio!
ROBERTO PECCHIOLI