«Spieghiamo dunque anzitutto che cosa intendiamo con l’aggiunta di “illustre” e per quale ragione usiamo il termine “illustre”. Con questo termine intendiamo qualcosa che illumina e che, una volta illuminato, risplende. In questo senso definiamo illustri certi uomini; essi infatti o ricevono luce dal potere e illuminano gli altri con la giustizia e la carità, o hanno ricevuto una dottrina eccelsa e impartiscono un’eccelsa dottrina: così fecero Seneca e Numa Pompilio. Ora, il volgare di cui parliamo è reso sublime dalla dottrina e dal potere e rende sublimi i suoi cultori con l’onore e la gloria.»
Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Libro I, cap. XVII, vers. II[1]
Lucio Anneo Seneca (Cordova, 4 a.C. – Roma, 65) ricevette un’educazione romana di buon livello; dopo aver studiato retorica e lettere frequentò la scuola cinica dei Sestii, fondata da Quinto Sestio, avendo come maestri Sozione di Alessandria, Attalo e Papiro Fabiano: la scuola trasmetteva conoscenze neopitagoriche, stoiche e ciniche, e molti segni fanno presumere si trattasse di un’organizzazione iniziatica di matrice pitagorica. Il lungo soggiorno in Egitto poi consentì con ogni probabilità a Seneca di approfondire la scienza egizia. Nella dottrina di Seneca sembra trovarsi una sintesi delle conoscenze greco-romane precedenti, sapientemente adattata alla situazione storica e geografica contingente. Saggio stimato, Giulia Agrippina Augusta lo scelse quale precettore di suo figlio, l’imperatore Nerone. Sotto la sua tutela vi fu il cosiddetto “quinquennio di buon governo”, anche se poi Nerone arrivò a costringere Seneca al suicidio, ritenendolo implicato in una congiura contro di lui. Fra le numerose opere di Seneca ricordiamo: i trattati etico-politici De beneficiis e De clementia, che si riferiscono all’impegno a fianco di Nerone; le Quaestiones Naturales, in cui lo studio dei fenomeni naturali è strumento per ascendere alla dimensione divina; le Lettere a Lucilio, in cui sull’esempio di Epicuro, Seneca istituisce un rapporto di formazione e di educazione spirituale con il suo allievo. Di seguito presentiamo alcuni estratti di quest’ultima opera dove, con un linguaggio semplice e familiare, l’autore espone dei concetti molto profondi, che possono essere un valido supporto di riflessione per tutti coloro che intendono combattere i vizi e cercare la virtù.
Lettera 34. Ti incito a proseguire lungo la via della virtù
[1] Mi sento più forte ed esulto e, scossa via la vecchiaia, riprendo ardore ogni volta che da quello che fai e che scrivi comprendo quanto hai superato te stesso – infatti, hai già da tempo lasciato indietro la massa –. Se l’agricoltore è contento quando un albero produce i frutti, se il pastore prova piacere per i nuovi nati nel gregge, se tutti guardano quello che hanno allevato come se giudicassero la sua giovinezza come propria, che sentimento credi che provi chi educa gli animi e vede all’improvviso maturo quello che ha plasmato quando era ancora tenero?
[2] Ti rivendico: sei opera mia. Essendomi accorto della tua indole, ti ho posto le mani addosso, ti ho esortato, non ho permesso che tu procedessi lentamente, ma ti ho incitato ripetutamente; e adesso faccio lo stesso, ma ormai incito uno che corre e che a sua volta mi incita.
[3] “Che cos’altro c’è?”, soggiungi. “Finora ho buona volontà”. Questo è molto importante, non nel senso in cui si dice che chi ben comincia è alla metà dell’opera. Questo è qualcosa che dipende dall’animo; perciò, gran parte della bontà consiste nel volere diventar buono. Sai chi definisco buono? L’uomo compiuto a perfezione, che nessuna forza, nessuna necessità può rendere malvagio.
[4] Prevedo che diventerai tale, se persevererai e metterai ogni impegno, e farai in modo che tutte le tue azioni e le tue parole siano coerenti e consonanti fra loro e siano dello stesso stampo. Non è sulla retta via l’animo dell’uomo le cui azioni sono in contrasto. Stammi bene.
Lettera 37. La saggezza è l’unica vera libertà
[1] Hai promesso di essere un uomo virtuoso, ti sei impegnato con un giuramento, e questo è il legame più stretto per unirti alla saggezza. Si prenderà gioco di te chi ti dirà che si tratta di un’impresa lieve e facile. Non voglio che tu venga ingannato. Sono identiche le parole di questo contratto, che è il più nobile, e di quello dei gladiatori, che è il più infame: “essere disposto a lasciarsi bruciare, incatenare e uccidere trafitto dalla spada”.
[2] Da coloro che prestano la propria opera all’arena e mangiano e bevono quanto poi restituiranno col sangue ci si assicura che sopportino questi tormenti anche loro malgrado: da te che li sopporti volontariamente e di buon grado. A loro è concesso abbassare le armi, tentare di ottenere la pietà del popolo: tu non potrai né abbassare le armi né implorare la grazia della vita; devi morire in piedi e invitto. A che cosa serve poi guadagnare pochi giorni o anni? Siamo destinati dalla nascita a combattere senza tregua.
[3] “Come, dunque, potrò trarmi d’impaccio?”, chiedi. Non puoi sfuggire alla necessità, ma puoi vincerla. Con la violenza si apre la via[2], e sarà la filosofia ad aprirti questa via. Rifugiati in essa, se vuoi essere salvo, tranquillo, felice e, infine, se vuoi essere, ciò che è più importante, libero; non puoi riuscirci in altro modo.
[4] La stoltezza è una condizione miseranda, ignobile, sordida, da schiavi, e soggetta a molte e ferocissime passioni. La saggezza, che è l’unica vera libertà, allontana da te questi padroni così duri, che comandano talora a turno talora tutti assieme. Ad essa conduce un’unica via, e diritta; non sbaglierai; procedi con passo sicuro. Se vuoi sottomettere a te ogni cosa, sottomettiti alla ragione[3]; guiderai molti, se la ragione ti guiderà. Da essa imparerai che cosa devi intraprendere e come; non ti imbatterai di sorpresa nelle situazioni.
[5] Non potrai citarmi nessuno che sappia come abbia cominciato a volere ciò che vuole: non vi è stato condotto dalla riflessione, ma sbattuto dall’impulso. La fortuna ci attacca non meno frequentemente di quanto noi attacchiamo lei. È vergognoso non procedere, ma farsi trascinare, e all’improvviso, in mezzo al turbine degli eventi, chiedersi meravigliati: “Come sono giunto qui?”. Stammi bene.
Lettera 67. Ogni bene è desiderabile
[1] Per iniziare con un argomento banale, ha cominciato a sbocciare la primavera; ma quando già andava verso l’estate e doveva portarci il caldo, si è rinfrescata, e neanche adesso c’è da fidarsi; spesso, infatti, si ripiomba nell’inverno. Vuoi sapere quanto il tempo sia incerto? Non mi arrischio ancora a fare il bagno nell’acqua gelata, ma ne mitigo il rigore. “Questo significa”, osservi tu, “non sopportare né il caldo né il freddo”. Proprio così, Lucilio mio: ormai alla mia età basta il suo freddo; soltanto in piena estate sento svanire il gelo. Perciò, passo la maggior parte del tempo sotto le coperte.
[2] Ringrazio la vecchiaia che mi costringe a letto: e perché non dovrei ringraziarla per questo motivo? Tutto quello che non avrei dovuto volere, non lo posso fare. Mi intrattengo a lungo con i miei libri. Se a volte mi arrivano tue lettere, mi sembra di stare con te e ho l’impressione di risponderti a voce, non per iscritto. Perciò, esamineremo insieme, come se discorressi con te, la questione che poni.
[3] Domandi se ogni bene sia desiderabile. “Se è un bene”, dici, “subire con fortezza la tortura, stare tra le fiamme con coraggio e sopportare con pazienza una malattia, ne consegue che queste cose sono desiderabili; eppure, non vedo alcuna di queste degna di essere desiderata. Certamente non conosco nessuno che abbia sciolto un voto per essere stato frustato o storpiato dalla gotta o allungato dal cavalletto”.
[4] Fa’ una distinzione, Lucilio mio, e ti renderai conto che in queste situazioni c’è qualcosa di desiderabile. Io vorrei che i tormenti se ne stessero sempre ben lontani da me; ma se dovrò subirli, desidererò comportarmi con fortezza, con dignità e con coraggio. Perché io non dovrei preferire che non scoppi la guerra? Ma se scoppierà, desidererò sopportare valorosamente le ferite, la fame e tutti i mali che la guerra inevitabilmente comporta. Non sono tanto insensato da volermi ammalare; ma, se mi ammalerò, desidererò non compiere intemperanze e non comportarmi da effemminato. Così, desiderabili non sono i disagi, ma la virtù con cui si sopportano i disagi.
[5] Alcuni dei nostri ritengono che la capacità di sopportare con fortezza tutti questi mali non sia da desiderare, ma nemmeno da respingere, perché bisogna tendere al bene puro e tranquillo e fuori da ogni molestia. Io non sono d’accordo. Perché? Prima di tutto perché non può succedere che una cosa sia buona, ma non sia desiderabile; in secondo luogo, se la virtù è desiderabile e non esiste nessun bene senza virtù, anche ogni bene è desiderabile. Inoltre, anche se [i tormenti non sono desiderabili], la capacità di sopportare coraggiosamente i tormenti è desiderabile.
[6] Ancora domando: non è forse desiderabile il coraggio? Eppure disprezza e sfida i pericoli; il suo aspetto più bello e straordinario è il non arrendersi al fuoco, l’andare incontro alle ferite, a volte il non evitare i dardi, ma porgere il petto per riceverli. Se il coraggio è desiderabile, anche la capacità di sopportare pazientemente i tormenti è desiderabile: anche questa, infatti, è un aspetto del coraggio. Ma fa’ una distinzione, come ti ho detto: niente potrà indurti in errore. Non il sopportare i tormenti è desiderabile, ma il sopportarli con coraggio: desidero quel “con coraggio”, in cui consiste la virtù.
[7] “Tuttavia, chi mai si è augurato questo?”. Certi desideri sono aperti e dichiarati, quando sono espressi particolareggiatamente; altri rimangono segreti, quando molti sono compresi in un unico. Per esempio, mi auguro una vita virtuosa; ma una vita virtuosa è composta di diverse azioni: comprende la botte di Regolo, la ferita che Catone si inferse con la sua stessa mano, l’esilio di Rutilio, il calice col veleno che portò Socrate dal carcere al cielo. Così quando mi auguro una vita virtuosa, mi auguro anche queste cose senza le quali talvolta la vita non può essere virtuosa.
[8] O tre e quattro volte beati quelli ai quali toccò in sorte di morire davanti agli occhi dei loro padri, sotto le alte mura di Troia![4] Che differenza c’è tra l’augurare questa sorte a qualcuno o il riconoscere che è desiderabile?
[9] Un Decio offrì se stesso per la salvezza della patria e, spronato il cavallo, si slanciò in mezzo ai nemici cercando la morte. Un altro Decio dopo di lui, emulo del valore paterno, pronunciata la formula sacra a lui familiare, si gettò nel folto della schiera nemica, preoccupato soltanto di offrirsi in sacrificio, considerando desiderabile una morte valorosa. Dubiti, dunque, che morire gloriosamente e compiendo un’azione valorosa sia la cosa più bella?
[10] Quando uno sopporta con coraggio i tormenti, mette in pratica tutte le virtù. Forse una sola è in evidenza e si manifesta più di tutte, la pazienza; del resto c’è il coraggio, di cui la pazienza, la resistenza e la tolleranza costituiscono lo sviluppo; c’è l’assennatezza, senza la quale non si prende alcuna decisione, e che ti convince a sopportare col maggior coraggio possibile ciò cui non puoi sottrarti; c’è la costanza, che non può essere scacciata dal posto e che nessuna forza può costringere ad abbandonare il suo proposito; c’è tutta l’inseparabile compagnia delle virtù. Ogni azione virtuosa è compiuta da una sola virtù, ma per deliberazione di tutte le altre; ora, un’azione che è approvata da tutte le virtù, anche se sembra compiuta da una sola, è desiderabile.
[11] Che cosa? Tu ritieni che siano desiderabili soltanto quelle cose che vengono a noi attraverso il piacere e la quiete, che si ricevono con le porte ornate a festa? Ci sono alcuni beni dall’aspetto severo; ci sono voti la cui realizzazione viene esaltata non da una schiera di gente che si congratula, ma da una schiera di gente che ci ammira e ci guarda con religioso timore.
[12] Così tu non credi che Regolo desiderasse giungere a Cartagine? Immedesimati nell’animo di quel grande uomo e allontanati dalle opinioni del volgo; cerca di comprendere come devi la bellezza e la magnificenza della virtù, che dobbiamo onorare non con incenso e ghirlande, ma con sudore e sangue.
[13] Guarda M. Catone che accosta al suo santo petto le purissime mani e allarga le ferite non abbastanza profonde. Forse che gli dirai: “Vorrei quel che vuoi tu”, o “Mi dispiace”, o “Abbia successo ciò che fai”?
[14] A questo punto mi viene in mente il nostro Demetrio, che chiama mare morto una vita tranquilla e senza alcun assalto da parte della fortuna. Non avere niente per cui animarsi, per cui infiammarsi, niente che con minacce e assalti metta alla prova la fermezza del tuo animo, ma giacere in un riposo imperturbato non è tranquillità, ma apatia.
[15] Lo stoico Attalo soleva dire: “Preferisco che la sorte mi tenga nei suoi accampamenti piuttosto che fra i piaceri. Soffro, ma con coraggio: e va bene. Cado colpito a morte, ma con coraggio forte: e va bene”. Ascolta Epicuro, egli dirà anche: “È piacevole”. Io non attribuirò mai un’espressione così tenera a un atteggiamento così virtuoso e austero.
[16] Brucio, ma indomito: e perché non dovrebbe essere desiderabile? – non il fatto che il fuoco mi bruci, ma il fatto che non riesca a vincermi. Non c’è niente di più nobile della virtù, niente di più bello; e tutto ciò che si fa per suo ordine è buono e desiderabile. Stammi bene.
Lettera 71. L’unico bene è la virtù
[1] Spesso mi chiedi consiglio su questioni particolari, dimenticando che ci divide un ampio tratto di mare. Dato che l’efficacia di un consiglio dipende in gran parte dalla tempestività, inevitabilmente succede che il mio parere su certe questioni ti giunga quando ormai sarebbe più opportuno quello opposto. I consigli, infatti, si adattano alle situazioni, e le situazioni in cui ci troviamo mutano e si evolvono rapidamente; un consiglio, dunque, dovrebbe nascere nell’arco di un giorno. Anzi, anche così è troppo tardi: nasca, come si dice, su due piedi. Ma ti mostrerò come lo si trovi.
[2] Ogni volta che vorrai sapere che cosa devi evitare o che cosa ricercare, volgi lo sguardo al sommo bene, scopo di tutta la tua vita. Qualunque nostra azione deve essere conforme ad esso: potrà regolare i singoli atti solo chi avrà già dato un orientamento di fondo alla propria vita. Nessuno, pur avendo pronti i colori, farà un ritratto somigliante, se non sa già che cosa vuole dipingere. Perciò sbagliamo, perché tutti decidiamo sugli episodi particolari della nostra vita, nessuno sulla vita nel suo complesso.
[3] Chi vuole scagliare una freccia deve sapere qual è il bersaglio e solo allora dirigere e regolare l’arma con la mano: le nostre deliberazioni vanno fuori strada perché non hanno un obiettivo preciso; a chi non sa a quale porto dirigersi nessun vento è propizio. È inevitabile che il caso abbia un ruolo importante nella nostra vita, dato che viviamo a caso.
[4] A certi accade di non essere consapevoli di sapere certe cose; come spesso cerchiamo coloro che ci stanno accanto, così per lo più ignoriamo che il traguardo del sommo bene è lì accanto a noi. E non occorreranno molte parole né lunghe perifrasi per determinare che cosa sia il sommo bene: lo si deve indicare, per così dire, col dito, senza tante suddivisioni. A che cosa serve, infatti, spezzettarlo in particelle, mentre puoi dire: “Il sommo bene è l’onestà” e, cosa ancor più straordinaria: “L’unico bene è l’onestà, gli altri sono beni falsi e fittizi”?
[5] Se ti convincerai di questo e amerai appassionatamente la virtù (amarla soltanto, infatti, sarebbe troppo poco), tutto ciò che essa toccherà sarà per te prospero e felice, comunque la pensino gli altri. Anche la tortura, se vi soggiacerai più tranquillo dello stesso torturatore, anche la malattia, se non criticherai la sorte, se non ti lascerai sopraffare dalla malattia, insomma tutto quello che agli altri sembra un male si addolcirà e si trasformerà in bene, se saprai innalzarti al di sopra di esso. Sia ben chiaro che niente è buono se non è onesto: e tutti i guai a ragione saranno chiamati beni se la virtù li adornerà.
[6] A molti sembra che promettiamo più di quanto consenta la condizione umana, e non a torto; infatti, guardano al corpo. Si volgano all’anima: misureranno l’uomo in base al divino.
Innalzati, o ottimo Lucilio, e abbandona questo giochetto puerile dei filosofi, che riducono a sillabe una disciplina magnifica, che deprimono e inaridiscono l’animo insegnando quisquilie: diverrai simile a coloro che scoprirono queste cose, non a quelli che le insegnano facendo in modo che la filosofia appaia più difficile che nobile.
[7] Socrate, che ricondusse tutta la filosofia alla morale e sostenne che la somma saggezza consiste nel distinguere il bene dal male, dice: “Se godo di un po’ di credito presso di te, segui l’esempio di quei tali, per essere felice, e lascia pure che qualcuno ti giudichi uno stolto. Ti insulti e ti offenda chi vuole, tu non soffrirai, se la virtù sarà con te. Se vuoi essere felice”, ribadiva, “se vuoi essere davvero virtuoso, lascia che qualcuno ti disprezzi”. Nessuno vi riuscirà, se non avrà prima egli stesso disprezzato ogni cosa, se non avrà posto tutti i beni sullo stesso piano, perché non esiste bene senza la virtù, e la virtù è uguale in tutti i beni.
[…]
[16] Un’anima elevata obbedisca a Dio e si sottometta senza esitare a qualunque disposizione della legge universale: o viene mandata a una vita migliore per rimanere in un’atmosfera più luminosa e serena fra le realtà divine oppure certamente sarà immune da ogni molestia, se si unirà di nuovo alla natura e ritornerà al tutto. Dunque, la vita virtuosa di Catone non è un bene maggiore della sua morte virtuosa, poiché la virtù non si accresce. Socrate diceva che verità e virtù sono la medesima cosa. Come quella non cresce, così nemmeno la virtù cresce: è completa in ogni sua parte, è perfetta.
[17] Non c’è, dunque, motivo di meravigliarsi che i beni siano uguali, sia quelli che bisogna ricercare di proposito, sia quelli che ci impongono le circostanze. Infatti, se ammetterai delle disparità, così da annoverare il sopportare con fermezza la tortura fra i beni minori, finirai per annoverarlo fra i mali, e giudicherai infelice Socrate in carcere e infelice Catone che riapre le sue ferite con maggior impeto di quando se le era inferte, e più disgraziato di tutti Regolo, che paga il fio di aver mantenuto fede a un giuramento prestato ai nemici. Eppure nessuno, nemmeno tra i più vili, ha osato fare una simile osservazione; dicono che non è felice, ma dicono che non è nemmeno infelice.
[18] Gli antichi Accademici ammettono che uno può essere felice anche fra i tormenti, ma non in modo pieno e perfetto; è una tesi che non può assolutamente essere accolta: se uno non è felice, non possiede il sommo bene. Il sommo bene non ha niente sopra di sé, purché in esso sia insita la virtù e non la indeboliscano le avversità, e rimanga intatta anche quando il corpo viene intaccato: e rimane intatta. Infatti, intendo quella virtù coraggiosa ed eccelsa, per la quale qualsiasi molestia è uno stimolo.
[19] È la saggezza a infondere e comunicare questo coraggio, di cui spesso sono dotati giovani di animo nobile, che la bellezza di qualche nobile azione ha colpito al punto da indurli a disprezzare tutto ciò che è soggetto al caso; essa ci convincerà che esiste un unico bene, la virtù, e che non si può né allentarla, né tenderla, come non si può piegare il regolo con cui si verifica se una linea è retta. Qualunque modifica apporterai, arrecherai danno a ciò che deve essere diritto.
[20] La stessa cosa vale per la virtù: anch’essa è diritta e non ammette storture; può certo diventare più rigida, ma [non] tendersi maggiormente. La virtù giudica ogni cosa, da nessuna è giudicata. Se essa non può diventare più diritta, neppure le azioni che da essa derivano sono alcune più diritte di altre; infatti, devono necessariamente essere ad essa conformi, e perciò sono uguali.
[21] “E allora?”, domandi. “È lo stesso starsene sdraiati a un banchetto ed essere torturati?”. Ti sembra strano? Dovresti meravigliarti maggiormente di questo: starsene sdraiati a un banchetto è male, essere distesi sul cavalletto è un bene, se là ti comporti in modo vergognoso e qui in modo virtuoso. Non è la materia, ma la virtù a rendere questi beni o mali; ovunque essa si manifesti, tutto diventa della stessa grandezza e dello stesso valore.
[22] Ora vorrebbe cavarmi gli occhi quel tale che giudica l’animo di tutti in base al suo, perché afferma che per chi giudica con onestà sono uguali i beni di chi celebra il trionfo e di chi è condotto davanti al carro trionfale come prigioniero, ma con animo invitto. Infatti, gente simile ritiene impossibile ciò che essa non può fare: esprime un giudizio sulla virtù in base alla propria debolezza.
[23] Perché ti stupisci se l’essere bruciati, feriti, uccisi, incatenati può essere gradito, anzi può addirittura piacere? Per il dissoluto la frugalità è una pena, per il pigro la fatica è un supplizio, l’effemminato compatisce chi è operoso, per l’indolente applicarsi è un tormento: allo stesso modo crediamo difficili e insopportabili quelle cose di fronte alle quali ci sentiamo deboli, dimenticando che per molti è un tormento non avere vino o alzarsi all’alba. Non sono cose difficili per natura, siamo noi fragili e fiacchi.
[24] Delle grandi cose bisogna giudicare con animo grande; altrimenti attribuiremo alle cose difetti che, invece, sono nostri. Così un’asta drittissima, quando è immersa nell’acqua, appare a chi la guarda curva e spezzata. Ciò che conta è non solo che cosa guardi: il nostro animo si annebbia guardando la verità.
[25] Dammi un giovane incorrotto e di intelligenza vivace: dirà che gli sembra più felice chi sopporta a testa alta tutto il peso delle avversità, chi si eleva al di sopra della fortuna. Non è straordinario non essere scossi quando tutto è tranquillo: meraviglia che qualcuno si sollevi là dove tutti si lasciano abbattere, che qualcuno stia in piedi là dove tutti giacciono a terra.
[26] Che cosa c’è di male nei tormenti e nelle altre cose che definiamo avversità? A mio parere questo: il venir meno, il piegarsi e il lasciarsi sopraffare dell’animo. Niente di tutto ciò può accadere all’uomo saggio: sta diritto sotto qualsiasi peso. Niente lo abbassa; nessuna contrarietà da sopportare gli riesce sgradita. Infatti, egli non si lamenta che gli sia capitato tutto quanto può capitare a un uomo.
[27] Non tolgo il saggio dall’insieme degli uomini e non lo privo dei dolori come una pietra priva di sensibilità. So bene che egli è composto di due parti: una è irrazionale, sente i tormenti, il fuoco, il dolore; l’altra è razionale, ha convinzioni incrollabili, è intrepida e indomabile. In questa è riposto il sommo bene dell’uomo. Prima che esso raggiunga la sua pienezza, la mente si agita incerta e inquieta; ma quando il sommo bene è perfetto, ha una stabilità incrollabile.
[28] Pertanto, chi ha intrapreso il cammino verso la vetta e coltiva la virtù, anche se si avvicina al bene perfetto, ma non l’ha ancora raggiunto, talvolta retrocederà e allenterà un po’ la tensione del suo animo; non ha ancora superato le incertezze, e si muove ancora su un terreno scivoloso. Ma l’uomo felice e che ha raggiunto la virtù perfetta è pienamente contento di sé quando si è messo a durissima prova, e non solo sopporta ciò che agli altri appare terribile, se è il prezzo per qualche nobile azione, ma lo sceglie, e preferisce di gran lunga sentirsi dire: “Bravo!”, piuttosto che: “Sei fortunato!”.
[29] Vengo ora all’argomento al quale mi richiama la tua attesa. Affinché la nostra virtù non sembri aggirarsi al di sopra dei limiti della natura, sappi che il saggio tremerà, e soffrirà e impallidirà; tutte queste, infatti, sono affezioni corporee. Dov’è, dunque, la disgrazia, il vero male? Certamente in questi fenomeni, se essi abbattono l’animo, se lo inducono a dichiararsi schiavo, a dolersi di se stesso.
[30] II saggio vince con la virtù la fortuna, ma molti che si professano saggi talora sono atterriti da minacce di poco conto. In questo caso l’errore è nostro, è l’esigere lo stesso comportamento dal saggio e da chi è ancora incamminato sulla via verso la saggezza. Finora mi esorto a seguire questi principi che lodo, ma non sono ancora riuscito a convincermene; e, se anche me ne fossi convinto, non mi sarei ancora preparato ed esercitato abbastanza perché mi si presentassero spontaneamente per affrontare ogni situazione.
[31] Come la lana prende subito certi colori, mentre di certi altri si imbeve dopo essere stata ripetutamente messa a bagno e cotta nella tintura, così la mente assimila immediatamente appena ricevuti alcuni insegnamenti: la saggezza, invece, se non è penetrata in profondità e non ha sedimentato a lungo e non ha tinto leggermente, ma ha permeato profondamente l’animo, non mantiene alcuna delle sue promesse.
[32] Questo si può anche esprimere in breve e con pochissime parole: l’unico bene è la virtù, non esiste certamente alcun bene senza la virtù, e la virtù risiede nella parte migliore di noi, quella razionale. Che cosa sarà questa virtù? Un modo di giudicare vero e saldo; da questo provengono, infatti, gli impulsi dell’animo, da questo sarà riconosciuta ogni falsa apparenza, che eccita la passione.
[33] Sarà logico per questo modo di giudicare considerare tutte quelle situazioni che sono in rapporto con la virtù come beni e uguali tra loro. I beni del corpo sono sì beni per il corpo, ma non sono beni in assoluto; avranno qualche valore, ma nessuna nobiltà; ci sarà tra loro una gran differenza: alcuni saranno minori, altri maggiori.
[34] E anche tra i seguaci della saggezza dobbiamo riconoscere che ci sono grandi differenze: uno ha già fatto tali progressi da osare alzare gli occhi contro la sorte, ma fermamente (infatti, li abbassa abbagliato dal troppo splendore), un altro è progredito tanto da poterla affrontare faccia a faccia, se non è già arrivato alla vetta, ed è pieno di fiducia in se stesso.
[35] Inevitabilmente chi è ancora imperfetto vacilla, ora avanza, ora scivola indietro o si lascia abbattere. Ma scivolerà indietro se non persevererà nell’andare avanti con tutte le sue forze; se si allenteranno l’impegno e la tenacia dei propositi, dovrà retrocedere. Nessuno si è ritrovato lungo la via del progresso al punto in cui si era lasciato.
[36] Pertanto, impegniamoci assiduamente e perseveriamo; ci restano ancora più vittorie da conseguire rispetto a quelle già conseguite, ma gran parte del progresso consiste nel voler progredire. Sono consapevole di questo: voglio e voglio con tutta l’anima. Vedo che anche tu hai questi impulsi e tendi con slancio verso le mete più belle. Affrettiamoci: a questa condizione soltanto la vita sarà ben spesa; altrimenti non è che una perdita di tempo, e vergognosa per chi la trascorre in mezzo alle perversioni. Facciamo in modo che tutto il tempo ci appartenga; ma ciò non avverrà se prima non cominceremo ad appartenere a noi stessi.
[37] Quando ci capiterà di disprezzare la buona e la cattiva sorte, quando ci capiterà di soffocare tutte le passioni e di ridurle all’obbedienza gridando: “Ho vinto”? Vuoi sapere chi ho vinto? Non i Persiani, né i lontanissimi Medi, né le popolazioni bellicose che forse abitano oltre i Dai, ma l’avidità, l’ambizione, il timore della morte che ha vinto i vincitori di tutti i popoli. Stammi bene.
[1] Cf. Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, UTET, Torino, 1986. Ricordiamo che lo stesso Dante, nella Divina Commedia, pone Seneca fra gli “Spiriti Magni”.
[2] Virgilio, Eneide, II, 494.
[3] Ricordiamo che qui il termine latino ratio, tradotto con “ragione”, dev’essere visto come sinonimo del lògos greco, principio divino che regge il mondo. Una delle critiche che possono essere mosse alla tradizione greco-romana è d’aver talvolta portato a un decadimento delle idee tradizionali («Il sedicente “miracolo greco” … è l’individualizzazione delle concezioni, la sostituzione del razionale al puro intellettuale, del punto di vista scientifico e filosofico al punto di vista metafisico», R. Guénon, Introduction générale à l’étude des doctrines hindoues, Véga, Paris, 1952, cap. III: Le préjugé classique).
[4] Virgilio, Eneide, I, 94-95.
(in collaborazione con Lettera e Spirito, rivista di studi tradizionali)