17 Luglio 2024
Arte

Sguardi Velati di Mistica Arte – Vitaldo Conte

1. La Mistica Arte, nelle sue molteplici apparenze e maschere – visibili e di pensiero –, è sempre stata, in ogni epoca, “spazio” e “costruzione” di espressioni. Nel suo interno movimento, al di là dell’immagine scelta, ha evidenziato talvolta presenze innovative, talvolta estreme (per risultati e significati) nella ricerca di essenze oltre. La pulsione a spiritualizzare l’esistenza e la materia stessa può ricercare, nella sua esperienza artistica, un’immagine che può essere espressa in una riconoscibile raffigurazione ma anche in una significante astrazione. Non a caso nelle Sacre Scritture c’è l’indicazione di non fare scultura e immagine «delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto terra» (Deutoronomio 5,8). Di questa istanza diversi artisti si sono fatti interpreti: Mondrian, uno dei pittori del XX secolo maggiormente sensibile alla teosofia, ha trovato nell’astrazione neoplastica il suo ideale di purezza e assoluto. Un’

immagine d’arte, intrinsecamente mistica, ricerca il sacro nel corpo del suo stesso procedimento e linguaggio usato. Anche la sua astrazione, fino alla rarefazione nella monocroma bianca, può permettere una visibilità di creazione che si protende analogicamente verso un oltre. In questi limiti “ultimi” si disperdono i confini tra il visibile e l’invisibile. Molta dell’espressività contemporanea può considerarsi un’astrazione linguistica. I sacri personaggi che volano spesso nei quadri non sono forse un’astrazione della loro stessa immagine visibile?

Le autentiche visioni della mistica artistica sono sempre emozionanti, in quanto si riappropriano della propria componente poetica. Queste espressioni, nell’arte contemporanea, anche quando ricorrono a una icona riconoscibile, risultano talvolta “celate” da un velo o da una maschera simbolica. Vogliono divenire un linguaggio che “entra” nei territori dell’anima e della psiche con i loro percorsi e ritualità. Per “arte mistica” si può intendere tutta quell’area di creazione che attinge al sacro come archetipo dell’inconscio, dove risiede insieme al profano e con tutte le altre dualità connesse. Come nota Jung l’inconscio non è solo una forza naturale, cieca e crudele: è anche sede del luminoso e demoniaco, del sovraumano e dello spirituale. Le tracce dei “di-segni” dell’inesprimibile, iconici o aniconici, possono essere molteplici come le direzioni di uno sguardo. La rappresentazione di qualsiasi sguardo sul sacro passa attraverso una sua ipotetica visione, che non implica un modo specifico di espressività o di tecnica più opportuna per poterla realizzare. Negli sguardi del sacro come arte c’è la volontà insita negli artisti di confrontarsi, attraverso il proprio lavoro, con l’oltre e la morte. È un insopprimibile desiderio (origine di ogni operazione artistica) di esistere in eternità: la scrittura e l’arte si alimentano con questa pulsione per esorcizzare il senso dello smarrimento e della perdita.

2. L’arte sacra, negli ultimi tempi, ha vissuto una profonda decadenza: gravata da esigenze di committenza e insegnamento. Un’opera d’arte per essere sacra non basta che abbia come soggetto una iconografia religiosa: dovrebbe agire sull’immaginazione e interiorità dei fedeli. L’arte iconica (a soggetto religioso) ha rischiato e rischia frequentemente di sconfinare nel devozionale e didascalico. Lo scollamento dell’arte dalla committenza ecclesiastica, esploso nella prima metà del Novecento, ma già incipiente sul finire del secolo precedente, non è tuttavia causato dal distacco dell’arte dalla spiritualità. Questo colloquio è stato svilito da operazioni esclusivamente commerciali di cui spesso i mercanti d’arte del sacro si sono serviti. Non si richiede che l’artista debba essere obbligatoriamente un uomo religioso: molti artisti “dannati”, nel corso dei secoli, hanno sentito, infatti, la necessità di esprimere opere con soggetti sacri. Diversi di questi autori, che si ritenevano estranei dalla verità religiosa, si sono dimostrati invece intensi testimoni di questa. Accanto alle opere di figura, indispensabili per il culto cristiano (crocifisso, immagini della Madonna e dei Santi), le opere non-figurali possono avere anch’esse sui fedeli un’azione religiosa coinvolgente, come accade per la poesia e la musica. La non-figurazione è dunque un’ipotesi per esprimere una forma intrinsecamente mistica, coinvolgente la propria visione interna, favorendo nel contempo un’azione attuale di “arredo” spirituale. Il soggetto dell’arte non deve essere solo un pretesto: per farlo diventare opera d’arte necessita di un autentico linguaggio-pensiero. Ciò accadeva anche quando il committente decideva il soggetto: tra le innumerevoli Madonne con il bambino, dipinte nei secoli passati, poche sono, infatti, quelle che hanno sublimato il soggetto grazie a un linguaggio-pensiero d’arte.

3. La mistica, come spazio di un movimento segreto, diviene perturbante creazione nelle sue espressioni “celate”. Senza velo non può esserci svelamento, né verso il volto del sacro né verso il volto del desiderio profano: senza misteri da scoprire entrambi i campi s’impoveriscono, mancando la pulsione della conoscenza. Il sacro nello sguardo velato dell’arte è un linguaggio che “entra” nei territori dell’anima e della psiche con i suoi simboli. Non a caso “prendere il velo” è stato ed è sinonimo di una donna vicino al rito delle nozze, in cui la componente del mistero e sogno si unisce con il pudore del non rivelarsi ancora totalmente allo sguardo dello sposo. Il velo, negli antichi testi sacri, vuole superare il dato reale per proiettarlo nella trascendenza assoluta, in cui il mistero dell’infinito, eterno e impalpabile, sfugge in continuazione, attraverso i mille volti di un’essenza. La stessa parola “rivelazione” indica una parzialità di conoscenza di qualcosa che rinnova il proprio velare. Il velo, nascondendo il mistero sacro, segna il limite tra il campo dell’umano e quello del divino, che costituisce un imprevisto specchio di svelamento. Questo volto può rivolgere lo sguardo verso qualcuno come rivelazione, che può esigere l’artificio di un velo di protezione: per nascondere, a chi non è ancora “iniziato”, la propria essenza. Desiderare il divino implica una relazione intima, talvolta lacerante di passione.

La visione dello sguardo divino può essere, talvolta, sufficiente per suscitare la follia nell’uomo, possedendolo senza che ne abbia coscienza: «per accostarsi ad esso occorre accettare di affrontarlo e di cadere simultaneamente sotto la fascinazione del suo sguardo, con il rischio di venire strappati a se stessi e proiettati nell’altrove. (…) vedere la figura del dio significa essere invasi da una potenza estranea, posseduti da un delirio che, se non vi distrugge, quantomeno vi trasforma dall’interno» (J. P. Vernant).

4. Il sacro, come sguardo celato, riguarda naturalmente Raimondo de Sangro (1710-71), singolare personaggio dagli svariati interessi: filosofo, letterato, scienziato, studioso del soprannaturale, inventore. A lui si deve la sistemazione della Cappella sepolcrale dei Sansevero, nel centro storico di Napoli, a cui dedicò gli ultimi venti anni della sua vita, affidandosi ai migliori scultori del tempo. L’immagine d’insieme della Cappella è, come è stato rilevato, quella di «un piccolo scrigno d’arte, avvolta in un alone di fascino e di mistero», che rappresenta la sua testimonianza spirituale. Gli artisti idearono opere emblematiche per il tempo, usando artifici ed estremi tecnici di marmo, per raffigurare volti e corpi coperti da un velo, anch’esso marmoreo. Sono le cosiddette “statue velate”: Il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, La Pudicizia di Antonio Corradini, Il Disinganno di Francesco Queirolo. In queste il piacere eclettico dell’artificio barocco – «vertigine carnale» (J. Baudrillard) della simulazione – risponde alle esigenze segrete di “nascondere”, appunto, il volto del Sacro all’inizio di un percorso spirituale. Costituiscono un marmoreo blocco unico con il tutto, che risponde a una esigenza segreta, criptica. Il Cristo velato simboleggia il trionfo della vita sulla morte: sintesi sublime di morte e rinascita che è presente in diverse e antiche iniziazioni pagane. Il velo, elemento tipicamente esoterico, ha dunque una funzione e un invito: quello di velare un segreto e un limite dell’oltre. Il segreto può essere – a portata di sguardo – per il “fedele” di fede e d’amore. Può divenire una mistica arte: «Resta velato nella misura in cui lo spirito umano si sottrae» (G. Bataille).

5. Il rosso sacro, caduto su un velo bianco, traccia i percorsi di una mistica d’arte che tende a espandersi con lo “sguardo velato” oltre il tempo e le parole. Per questo il corpo sindonico possiede un magnetismo e un mistero che induce artisti di ogni tempo a rapportarsi, con molteplici modalità, a questa “suggestione” immaginale. Negli ultimi anni della sua attività Gina Pane esegue delle partizioni. Il corpo non c’è più, c’è la sua evocazione. Nascono così i luoghi dove si esprime l’assenza, la sparizione fisica. In Saint Georges il corpo del martire è costituito da orme, tracce: il suo enigma è anche nel suo altrove. In La prière des pauvres et les corps des Saints (1989) si assiste a una grande messa in scena: attraverso nove teche che simboleggiano i corpi dei santi. S’incrociano, in una rete di ricordi e analogie, i temi caratterizzanti le azioni dell’artista. Le teche, nell’ambiente, contengono segni che possono essere letti come reliquie. L’artista sigilla le teche: è la fine della “cerimonia”, un tempo chiamata “azione”.

Nella mostra Dispersione a Foggia (Palazzetto dell’Arte, 2000) presentai la sindone come arte. Le sue rosse impronte erano risolte pittoricamente da Wolfango Telis e come velo-corpo desiderante da Elisa Valdo. Esempi di possibilità estreme per rapportarsi con il velo di questo sguardo sacro. Con Telis realizzai poi una mostra bi-personale a Siracusa (Il Cammino, 2001) dal titolo La ferita e la sindone, nel cui catalogo ricordai il Seppellimento di Santa Lucia (1608) del Caravaggio, custodito in città. La mostra era dedicata all’artista siracusano Gaetano Giulio Zumbo (1656-1701), geniale ceroplasta di corpi di cera in decomposizione: come il Cristo Deposto (Museo Nazionale del Bargello, Firenze).

6. La ferita è presente nelle pieghe e nel corpo della storia dell’arte con le sue tante immagini, che rimandano al sangue fuori dall’opera: questo “rosso” esprime, simultaneamente, la purezza e l’impurità, la dimensione religiosa e quella sociale, la vita e la morte. Gli stessi umori fisici fuoriusciti dai segni-ferita degli artisti diventano “reliquie”. Queste sono sempre state nella nostra tradizione un visibile punto di congiunzione fra la terra e il cielo, l’esistenza e l’eternità, il profano e il sacro. L’esposizione della ferita ha ispirato e contaminato gli artisti di ogni tempo e linguaggio con varietà estreme di martirio, soprattutto della cristianità, avente come soggetto il corpo di Cristo e dei suoi Santi. Le sue rappresentazioni di rosso hanno “ferito” anche lo sguardo e l’interno di chi guarda. Questo sangue d’arte ha il potere di sigillare il contatto, visivo e intimo, tra il corpo “segnato” e l’occhio di chi guarda, più di ogni altra comunicazione verbale, legandoli entrambi a una condivisione dai profondi risvolti. L’immagine cruda della crocifissione e della ferita sacra sono comunque “segni” che adoriamo: la violenza può risultare catartica percorrendo il sacro. Sono profondi, infatti, – come ho scritto nell’introduzione a una mostra di costumi dedicati a Sant’Agata a Catania (Cappella Bonajuto, 2007) – “i tagli” delle sante siciliane, eroiche vergini della fede, Santa Agata e Santa Lucia. Continuano a vivere “impresse” sull’epidermide-anima delle città di cui sono patrone, Catania e Siracusa: venerate icone di fede-pensiero e di suggestione d’arte per qualunque linguaggio.

7. Il bianco e il rosso si contaminano nella ferita d’amore: sacro e profano. Possono attraversare i veli della mistica e passione per “parlare” alle architetture impalpabili dell’anima, divenendo fuoco interiore dello stesso fare-arte e delle nostre ritualità. Queste valenze sono diventate una “esposizione-racconto” di Mistiche Extreme (…come una rosa rossa nel bianco) a Catanzaro (Open Space, 2007), attraverso l’espressione di una dozzina di autori che avevo invitato in precedenti iniziative nel Sud Italia. Nei percorsi di questi artisti, pur di diversa cifra stilistica e generazione, c’era una predisposizione ad ascoltare i moventi della mistica, rielaborati talvolta con memorie antropologiche ma anche con la pulsione desiderante. Diventavano “epifenomeni”: scritture, ex-voto, ambienti di arte e luce possono essere infatti possibili letture di archetipi dell’anima, diventando “narrazione” e “maschera” di mistiche extreme, come quelle a sud. Queste attraversano luoghi e ancestralità con una erranza del sacro a tutto campo, antica e rinnovabile, in cui si confrontano istanze immaginali di religiosità diverse con memorie pagane, ancora presenti nella coscienza collettiva del Sud Italia. Possono costituire sguardi velati di Mistica Arte.

Vitaldo Conte

NOTA. Il testo dell’autore è pubblicato su AA.VV., Arte e Sacro, Dionysos n. 6, Edizioni Tabula fati, Chieti 2019.

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