- Ballario si avviò verso un posteggio di taxi che era all’angolo della strada. Salutò Morosini, che aveva voluto accompagnarlo fin lì, salì sulla prima vettura libera e disse al conducente: “Alla caserma dei Reali Carabinieri di via Monti. Faccia però un giro lungo. Devo prima finire di esaminare un documento. L’avviserò quando termino, così che possa portarmi a destinazione”
Si sprofondò sul sedile posteriore e cominciò a leggere:
“Caro Ballario, ritengo doveroso raccontarle quello che è successo nelle giornate milanesi mie e di Holmes. Come vedrà, la nostra “caccia” non è stata fortunata; spero che lei abbia miglior fortuna con quel Derzinski che rappresenta una vera minaccia per l’avvenire delle nostre due Nazioni e di tutto il mondo libero. Comincerò, quindi, dall’inizio.
La mattina del 6 marzo, ero intento, come tutte le mattine, a curare le mie rose in giardino, quando fui interrotto dall’arrivo del portalettere, che mi consegnò un telegramma. Incuriosito, ed anche un po’ preoccupato da quell’improvvisa violazione della tranquilla routine alla quale ero ormai abituato, mi affrettai a leggere. Era di Holmes, che sapevo impegnato in una tranquilla attività di apicultore nel Sussex. Ormai non lo sentivo da anni, ma non mancavamo di scambiarci i canonici auguri ad ogni festività, e, quando capitava, per il tramite di qualche comune conoscente, rinnovarci l’invito ad un incontro che, però, non era mai avvenuto.
Al solito, il mio amico era autoritario, misterioso e lapidario: “Caro Watson la aspetto il 12 marzo prossimo, alle ore 17, al caffè Biffi di Milano, in Galleria. A partire dal 10 ci sarà una camera prenotata a suo nome all’albergo Cavour. Trattasi di cosa della massima importanza. Conto su di lei”
Il tono non ammetteva repliche o obiezioni, e, a dirla tutta, la proposta di un viaggio (e, forse, di un’avventura) non mi dispiaceva, annoiato com’ero dalla tranquilla vita di pensionato alla quale mi ero autocondannato. Organizzai le mie cose, e il 10 mattina ero a Victoria Station, pronto a partire per l’Italia.
Il viaggio fu lungo e noioso. Comunque, puntualissimo, a mezzogiorno del giorno 12 mi presentai al Cavour. La mia camera, naturalmente, c’era ed era pronta. Un cortese portiere mi informò che Holmes era arrivato il giorno prima, ma si era chiuso in stanza ed aveva dato ordini di non disturbarlo per nessun motivo.
Dopo un pranzo “italiano”, consumato al ristorante dell’albergo, e che fu di mia assoluta soddisfazione, uscii a fare quattro passi e mi “persi” per le vie di questa vostra magnifica città, tra il Duomo e il Castello Sforzesco, come un turista qualsiasi. Alle 16.30, però, ero seduto ad un tavolino dell’elegante caffè segnalatomi da Holmes, in Galleria.
Questa non è una delle mie cronache letterarie, e perciò evito di raccontarle i particolari dell’incontro col vecchio amico e l’affetto che traspariva nei ripetuti abbracci (sarà stato già un effetto del vostro “calore” mediterraneo?) che ci scambiammo.
Dirò solo, per tenermi all’essenziale, che Holmes mi informò del motivo del nostro viaggio: agli inizi del mese, il fratello Mycroft lo aveva convocato e pregato “per i destini della Nazione” di recarsi in Italia ed acciuffare un agitatore e terrorista russo che qualche mese prima aveva colpito (con distinti attentati che avevano provocato anche otto morti) due simboli del nostro Paese: Fleet street, la via dei giornali, espressione della libertà che ci è tanto cara, e la Torre, che racchiude in sé le luci e le ombre della nostra storia.
La missione sarebbe stata non ufficiale, anche se le Autorità italiane non ci avrebbero fatto mancare il loro appoggio.
E, infatti, il giorno dopo ricevemmo la sua gradita visita, per quel primo abboccamento, cui seguì la telefonata nel corso della quale mi informò di alcune novità e dispensò qualche consiglio.
Considerato che non c’era altro da fare, decidemmo, con Holmes, di seguire il suo suggerimento, e “guardarci attorno” per arrivare, con un po’ di fortuna, a Derzinski (che Holmes mi aveva mostrato in una fotografia). Fummo anche d’accordo sul fatto di muoverci in autonomia, e, per questo, evitammo di informarla, per evitare quella “scorta” che lei ci aveva premurosamente promesso, ma che ritenevamo ci avrebbe ostacolato nelle nostre ricerche.
Holmes chiese (ancora mi domando con quale scusa) al portiere di procurargli due abiti di modesta fattura, e di fargli portare in camera ogni mattina, insieme alla colazione, tre giornali: Il Corriere della Sera, L’Avanti e Il Popolo d’Italia.
Contava così di tenersi aggiornato sulle manifestazioni “rosse” programmate, e apprendere per tempo, se mai ce ne fosse stata, qualche eventuale novità su quel misterioso dialogo colto al caffè dall’Ardito lettore del giornale di Mussolini.
Per farla breve, partecipammo, opportunamente camuffati, a due comizi, il 16 e il 19 marzo. Il primo fu poco affollato e si risolse solo nel noioso succedersi sul palco di oratori indegni anche del nostro Speakers’s corner, ad Hyde Park; al secondo, invece, all’Arena, c’era molta gente, e grossi calibri a comiziare.
Fu proprio in questa occasione che, mentre ci avvicinavamo al palco, Holmes mi strinse forte il braccio, indicandomi un gruppetto di persone poco più avanti, che parlottavano tra loro con aria furtiva. Non c’era dubbio: uno, anzi proprio quello che sembrava stesse impartendo disposizioni agli altri, era Derzinski.
Prenderlo lì sarebbe stato impossibile: non ci rimaneva che aspettare che finisse e seguirlo. Poi, non avrebbe avuto scampo, anche se fosse stato armato (noi, invece, non avevamo armi, perché ci sarebbe stato impossibile portarle da Londra e sul posto non sapevamo come procurarcele).
Eravamo lì da una decina di minuti “alla posta”, quando accadde l’imprevisto: all’improvviso la folla cominciò ad agitarsi, mentre si alzava l’invocazione “Corteo, corteo!”.
La massa che cominciava a premere sotto il palco, mentre l’oratore prudentemente interrompeva il suo discorso, si frappose così tra noi e il russo, il quale, nel frattempo, aveva bruscamente interrotto la sua conversazione, salutato gli interlocutori e si stava allontanando.
Io e Holmes ci precipitammo all’inseguimento, ma fu vano: fendere quella moltitudine che si faceva sempre più fitta ed ondeggiava minacciosamente, era praticamente impossibile. Quando riuscimmo a tirarci fuori, di Derzinski non c’era più traccia, ed era inutile sperare di rintracciarlo nel dedalo di viuzze che dall’Arena portavano al centro cittadino. Avevamo fallito!
Con questa amara constatazione tornammo in albergo.
Ci era di conforto il fatto che il “metodo” della ricerca si era rivelato vincente e che il nostro amico non si era accorto di noi. Con un po’ più di fortuna, la prossima volta ce l’avremmo fatta.
***
- Passammo così qualche giorno in ozio: facevamo, sempre camuffati, dei giri nei quartieri popolari, ci avvicinavamo ai capannelli minacciosi di giovanotti con bracciale rosso e bastone che sembravano impegnati in giri di ronda, scrutavamo ansiosi i volti incrociati per strada.
Era una ricerca senza speranza, lo sapevamo, ma era l’unica cosa che ci restava da fare: Holmes ne approfittò per migliorare il suo italiano, mentre io le poche parole che imparai furono quelle dei menù delle accoglienti trattorie nelle quali ci fermavamo per il pranzo.
Il 22 mattina, stavo preparandomi per il nostro solito giro, quando Holmes piombò nella mia stanza: “Watson domani cambiamo programma. Ricorda che Griffini ci parlò di quella notizia apparsa sul Popolo d’Italia su un presunto agitatore russo presente in città, e ci consigliò una visita al giornale per provare a saperne di più? Non ci siamo andati, ma possiamo rimediare. Domani i mussoliniani si riuniscono per fondare un loro nuovo movimento politico. Ci saranno certamente i redattori del giornale, e, se abbiamo fortuna, anche quell’Ardito del quale conosciamo solo le iniziali A.R. Chissà che non possa dirci qualcosa”.
Mi sembrava, in verità, un’idea ancora più strampalata di quel nostro aggirarci per la città alla ricerca di Derzinski, ma non volli deludere il mio amico, e mi dissi d’accordo. Lo feci anche perché sapevo che l’ozio era il peggior nemico di Holmes, e lo spingeva inesorabilmente nell’abisso del suo inconfessabile vizio.
E qui, lontani da casa, era una cosa da evitare assolutamente.
La mattina dopo, perciò, ci avviammo verso piazza San Sepolcro, dove si sarebbe svolta la riunione. Avevamo finalmente rimesso i nostri abiti, e, se io potevo essere tranquillamente scambiato per un qualsiasi borghese meneghino, Holmes era inconfondibile, col suo abbigliamento made in London: ulster (credo si possa tradurre: cappotto lungo fino alle caviglie) scuro e deerstalker (che sarebbe un berrettino con doppia visiera).
Arrivati al palazzo, che era la sede dell’Associazione commercianti ed esercenti, notammo subito, all’ingresso e sulle scale, una strana agitazione: giovanotti dall’aspetto deciso, spesso con giubbe militari, e quasi sempre con vistose fiamme nere sul bavero della giacca, sembravano di guardia.
Scrutavano attorno, e fissavano con aria indagatrice chiunque non fosse loro conosciuto. Toccò anche a me e ad Holmes.
Infatti, uno si avvicinò con tono autoritario: “Chi siete? Da dove venite?”
Holmes rispose prontamente, mischiando qualche vocabolo in inglese al suo pur più che accettabile italiano, che eravamo due giornalisti del Times, ed eravamo lì per fare un servizio da inviare a Londra, dove erano curiosi di sapere cosa stava succedendo in Italia.
La giustificazione bastò, e potemmo così accedere alla grande sala dei lavori.
C’erano un centinaio di persone sedute in platea e un piccolo tavolo di presidenza con quattro o cinque individui che il mio amico subito riconobbe: “Vede, Watson, quello seduto al centro è Mussolini, al quale si deve, in misura fondamentale, l’entrata in guerra dell’Italia dalla nostra parte; alla sua destra Marinetti, che qualche tempo fa ha fondato il Futurismo, un movimento culturale che mi incuriosisce, anche se mi lascia scettico per il suo gusto dell’esagerazione; al loro fianco il Capitano Vecchi, pluridecorato Ufficiale di quegli “Arditi” che sono stati la punta di diamante dell’Esercito italiano in guerra. Di lui ho letto qualcosa sfogliando il Popolo d’Italia in questi giorni, e mi sembra veramente un personaggio fuori dal comune.
Stiamo un po’ qui ad ascoltare, chissà che non succeda qualcosa”.
Io, in verità, capivo il venti per cento di quello che veniva detto dai vari oratori che si succedevano alla tribuna, e ne approfittai per guardarmi attorno. Devo dire che l’ambiente mi era familiare: in molti di quei duri visi di uomini d’arme mi sembrava di riconoscere i miei commilitoni delle guerre afghane. Traspariva evidente la stessa sfacciata sicurezza, mista ad un che di strafottente: caratteristiche proprie degli uomini che hanno visto la morte in faccia molte volte e non conoscono la paura.
Ci si avvicinò un giovanotto, in uniforme da Ufficiale degli Arditi: “Buongiorno – disse – sono il Tenente Petruccelli, incaricato di prendere il nome dei presenti per il verbale della riunione e la cronaca del Popolo d’Italia di domani. Voi chi siete, chi rappresentate, e a nome di quale Associazione siete qui?”
La risposta di Holmes fu pronta: “Siamo due giornalisti inglesi e rappresentiamo solo noi stessi. Gradiremmo, però, che i nostri nomi non comparissero”.
Quello sembrò prendersela a male, e ribattè a muso duro: “Allora non vi ci metto, ma i nomi dovete dirmeli lo stesso, perché possa informare Mussolini che ha chiesto di sapere chi sono i giornalisti presenti”.
E, così dicendo, si avvicinò al mio amico, con un atteggiamento che mi parve inequivocabilmente minaccioso. Cominciavo a temere ci fossimo cacciati in un pasticcio.
“Calma, Petruccelli, sono colleghi, ci penso io” intervenne un tipo che, senza darlo a vedere, si era frapposto tra Holmes e il Tenente. Era della nostra età, piuttosto alto, con una lunga barba bianca ed una massa di capelli dello stesso colore che, scomposti, gli incorniciavano il volto. Una gran quantità di giornali era trattenuta a stento sotto un braccio. Con lui c’erano due fanciulle e un uomo in divisa.
“Permettete – disse – sono Merlino, collaboratore del Popolo d’Italia. Questo è il Caporale degli Arditi Nardulli, decorato sul Grappa, e staffetta portaordini dello stesso Reparto d’Assalto del Capitano Vecchi, che vedete al tavolo della Presidenza. Loro sono le signorine Poli e Ruggeri, redattrici del nostro giornale. Gli uomini di guardia all’ingresso mi hanno avvisato della vostra presenza e vi stavo cercando. Posso aiutarvi?”
Holmes raccontò anche a lui dell’interesse inglese per questa iniziativa politica che si annunciava promettente, chiese qualche informazione sui programmi e le prossime iniziative del movimento, e poi, un po’ a bruciapelo, fece: “A proposito, Merlino, volevo chiedere qualche notizia su quel trafiletto apparso un pò di tempo fa sul suo giornale in merito ad una conversazione udita da un vostro lettore tra alcuni sovversivi, tra un quali un russo”.
Poi, rendendosi conto che, posta così la domanda poteva sembrare sospetta, aggiunse: “Glielo chiedo perché a Londra quattro mesi fa ci sono stati degli attentati opera di terroristi russi che poi, stando a quello che risulta a Scotland Yard, sarebbero fuggiti in Italia. Per noi sarebbe un gran colpo se riuscissimo a trovare una pista utile al loro arresto”.
La risposta fu, però, deludente: l’Ardito A.R., che pure aveva promesso di rifarsi vivo col giornale, era scomparso; qualche ricerca fatta dai suoi ex commilitoni aveva dato esito negativo, e tutto lasciava intravedere il peggio.
La conversazione finì così. A me dispiacque un po’, perché, mentre i due parlavano (in italiano, con mia grande disperazione) avevo scambiato qualche occhiata – senza malizia, la mia età ormai me lo permetteva – con una delle due graziose accompagnatrici di Merlino, quella di nome Poli .
A dir la verità, ero stato impressionato, fin dal primo momento dalla somiglianza tra lei e la mia indimenticabile Mary. Mi resi subito conto che, forse proprio per questo, la stavo guardando un po’ troppo insistentemente, ma, se il mio fiuto di vecchio “appassionato” conoscitore dell’universo femminile non mi ingannava, la cosa non sembrava dispiacerle.
Holmes, prima di accomiatarsi definitivamente, promise una visita al giornale ed un’intervista a Mussolini, sempre che a Londra fossero stati d’accordo. Per questo si fece dare il numero di telefono di Merlino, con la promessa di richiamarlo se la cosa fosse andata in porto. Io, da parte mia, mi esibii in due baciamano come non mi capitava di fare da almeno quindici anni.
Al momento di salutarci, però, il giornalista trattenne un attimo il mio amico per la manica del cappotto: “Aspettate, Holmes, ci hanno segnalato che nelle strade vicine si aggirano gruppi di anarco-socialisti intenzionati a dare una lezione ai partecipanti alla riunione. Vi faccio accompagnare”.
E, così dicendo, chiamò un ragazzetto che era lì nei pressi: “Asvero – disse – prendi qualcuno dei tuoi e accompagna questi signori. Mi raccomando – aggiunse sorridendo – sono nostri Alleati, non farmi fare brutta figura”.
Il giovanotto si avvicinò, ci strinse la mano e si presentò sbrigativamente: “Gravelli, mussoliniano dal 1914”. Poi chiamò tre suoi coetanei che erano in un angolo della sala: “Voi, venite con me, e occhi aperti!”
Ci avviammo, con quella insolita scorta. Holmes era visibilmente soddisfatto e divertito. Intuivo che aveva gradito il clima di quella sala, con quell’aria guerresca che contrastava con le verbose riunioni politiche delle nostre parti, ed ora non gli dispiaceva quel procedere per le vie della vecchia Milano così scortati. Era un’esperienza che mai avrebbe immaginato, nemmeno ai bei tempi andati, davanti al camino della nostra vecchia confortevole magione londinese, affidato alle cure dell’impareggiabile Mrs Hudson.
E improvvisamente, quasi stesse anche lui inseguendo vecchi ricordi, mi fece, con un sorriso: “Sa, Watson, questi ragazzi mi ricordano i miei “irregolari di Baker street”, e mi fanno sentire quasi a casa”
Ero d’accordo con lui, ma evitai di dirglielo, per non dare la stura al fiume dei ricordi che ci avrebbe sommersi.
Giunti all’albergo, i quattro, che erano stati silenziosi fino allora, e si erano tenuti a qualche metro di distanza, si avvicinarono, e il loro capo, Asvero, tese la mano a Holmes: “Ecco fatto, signore, lieti di esserle stati utili. Quando torna al suo Paese, dica che sta nascendo una nuova Italia, che vuole essere degna erede del sacrificio dei suoi caduti nella guerra combattuta a fianco dell’Inghilterra”.
Salutò anche me, con una stretta di mano inaspettatamente vigorosa, girò le spalle e si avviò con i suoi.