Non ricordo se questa poesia è nata in carcere oppure poco prima o, più probabilmente, dopo (Inattuale fu stampato nel mese di dicembre del 1979, Edizioni Settecolori). Il titolo, come per tutte le altre, nacque di necessità al momento della pubblicazione – oggi sarei tentato di lasciarle senza titolo e consentire così al lettore di trovare egli il significato, la sintesi… Ricordo però come, dopo una retata anni ’80 negli ambienti di giovani camerati nel quartiere di Monte Sacro, una ragazza l’aveva trascritta su un pannello, appeso alla parete della sua camera, con alle spalle e con le ali spiegate un bianco gabbiano (nulla a che vedere con Rampelli Colle Oppio e dintorni che, proprio in quegli anni, iniziavano un processo di lento e progressivo abbandono di tante troppe cose, di cui si erano nutriti nel corso di battaglie in piazza e di formazione in sede. Il Capo di Cuib, prioritariamente).
‘Silenzio – questa vita – per anni – senza niente altro – se non il silenzio – un silenzio a volte – anche troppo rumoroso – questa vita…’ (Chi l’ha letta forse ne ricorda il seguito, per gli altri risulteranno più interessanti le seguenti riflessioni o forse no, chissà?).
Contraddizione, lo so: scrivere intorno al silenzio è come parlare con il silenziatore innestato alla pistola, non ne senti lo scoppio, ma analogo è l’effetto. E’ che il dono originario dato agli uomini da un dio, in vena d’essere occasionalmente generoso, è stata la parola non essendo sufficiente indicare con il dito le cose. E, allora, il silenzio è una bestemmia, è lo sdegnoso atto di rifiutare qualsiasi dono che provenga da chi ci ha imposto questo mondo questa realtà questa stessa esistenza? ‘– fatta di cose serie – di giochi presi sul serio – questa vita scelta – contro i giochi degli amici – e le carezze dolci – non abbiamo vissuto – che il silenzio – ed è probabile che esso cesserà – solo per infamarci…’.
C’è una correlazione tra il silenzio e la solitudine? Proviamo ad incamminarci per questo sentiero. Nel 1964 si stampa in Italia Della solitudine dell’uomo (titolo originale dell’opera Von der Einsamkeit des Menschen), con sottotitolo La situazione spirituale dell’epoca della tecnica, da cui emerge il richiamo esplicito, ma non passivo, alla filosofia di Martin Heidegger. E’ il libro una rielaborazione fortemente ampliata e approfondita di una conferenza risalente al 1951 di Johannes Lotz, professore all’università di Pullach, Monaco di Baviera.
Il caso o per qualche ragione ormai persa nella memoria mi trovai alla sua presentazione presso l’Angelicum ove si perseguono e si valorizzano gli studi intorno a San Tommaso. Giovane matricola, svogliato e indeciso tra la piazza con i bastoni e l’aspirazione a divenire insegnante di storia e filosofia (e in fondo posso dirmi un uomo fortunato: ho realizzato entrambi i momenti, a volte intrecciandoli fra loro), fui immerso tra studiosi in tonaca nera, compiti e seriosi, io già con qualche dita di capelli di troppo sulla nuca, un pizzetto luciferino e una camicia nera con grandi fiori gialli e verdi. E fu amore… Ritrovo il libro e vi trovo la stampigliatura con l’autorizzazione del direttore del carcere. Amore, non passione, si badi bene, chè la passione uccide ogni diversità, l’amore la protegge…
La solitudine è un momento essenziale della condizione umana, il suo centro ove l’essere si lascia andare al proprio disvelamento, si manifesta e nel riconoscerlo apre un dialogo con l’altro la natura la sacralità (Lotz, data la sua veste teologica, utilizza il termine Dio). In una nota si riporta l’affermazione di Martin Heidegger tratta da Was heisst Denken? (Cosa significa pensare?) e, cioè, come in ‘Ogni dialogo si arresta e si isterilisce immediatamente, se ci si ferma e ci si irrigidisce solo su quel che è stato detto, invece di introdurre mediante il dialogo gli interlocutori reciprocamente nel luogo della sosta e portarli a quello di cui parlano. Questa penetrazione è l’anima del dialogo. Essa guida gli interlocutori a quel che rimane inespresso’. Ora ‘sosta’ e ‘inespresso’ possono essere un invito a pensare il e in ‘silenzio’? Nella modernità il depotenziamento della solitudine, la privazione del silenzio quale parola inespressa, si rende in isolamento (io sono solo se non nella massa, sotto il potere globale della tecnica, nel pensiero unificante – il ‘man’ di Heidegger, quel si dice che si fa norma –). Non verso alte mete rasserenanti, ma i bassifondi dell’angoscia… (contro questo annientamento la sosta e l’inespresso si fanno spada e corazza per chi ‘ripone la propria casa sul Nulla’, quel nichilismo attivo e liberatorio di cui Nietzsche si fece interprete). ‘siamo morti mille volte noi – assassinati – o suicidi – ma nessuno ci ha pianti – nessuno di noi ha mai detto – quante volte in silenzio – s’è ucciso – ha ucciso il piacere – d’essere ancora bambino’.
Isolamento è sentirsi soli nel proprio habitat tra condomini di cui non si conosce il nome e poco il volto, a cui non puoi bussare se ti occorre un limone o una presa di caffè; solitudine è misurare sei metri per tre di una cella cantando raccontandosi fole o contando le mattonelle alla parete. Isolamento è prendere il tram tra gente che ti mette i gomiti nelle costole o l’ascella sudata all’altezza delle narici; solitudine è guardare il cielo oltre le sbarre e imparare a volare. Isolamento è la sala professori tra chiacchiere amene o maldicenze o sguardi malevoli perché pensano di conoscere la tua storia, solitudine è entrare in classe e sapere che, in ogni caso, stai donando qualcosa. Un famoso monaco Zen era atteso da lunga data in un villaggio per una lezione, un incontro sul buddhismo. Alfine egli giunse, apri le braccia contemplò la folla riunitasi le abbassò e riprese la via del ritorno. ‘Silenzio – questa è la legge – legge imposta da noi stessi – sul nostro dolore – per il nostro orgoglio – di guardarci l’un l’altro – con forza – con affetto – con gli occhi superbi – di se stessi e dei propri compagni’.
Silenzio è l’ineffabile sorriso del Buddha a chi gli chiedeva di descrivere il Nirvana… Silenzio sono i segni tracciati sulla sabbia da Archimede durante la conquista romana di Siracusa… Silenzio è la musica composta sul pentagramma avvertita nella mente e nel cuore e mai udita da Ludwig van Beethoven… Silenzio è il franco tiratore di Torino, aprile 1945, che catturato da banda partigiana e condotto a fucilazione si aggiusta la cravatta e si mette in posa davanti alle bocche da fuoco, avide del suo sangue… 10 febbraio 1947, città di Pola, Istria, silenzio è una giovane donna, Maria Pasquinelli, con una pistola in tasca e un foglietto piegato in tasca dove sono scritte le ragioni del suo gesto, il profondo disperato amore verso la Patria. E silenzio è (abbiate venia verso questo eretico presuntuoso!) questa stanza che si apre alla notte stellata prima di chiudersi per il freddo e il sonno inquieto con i suoi libri i cimeli della guerra perduta i sogni ormai tardivi e i volti amati di coloro che lungo la strada mi furono fedeli testimoni di un ideale, straccio di nobile seta…
‘Silenzio – la nostra vita – non è fatta per la gloria effimera – non è per i giornali – silenzio – noi siamo i fantasmi dei morti – siamo le immagini di domani – non ci sfiora questo mondo’.
Non è necessario – forse posso aver dato questa impressione – che il silenzio sia la negazione dell’incontro con gli altri, che si debba scegliere il mutismo di certi ordini monastici (penso alla suggestione di Serra San Bruno in Calabria), percorrere la via dell’ascetismo, come indicava Arthur Schopenhauer e che Nietzsche si rifiutava di accogliere, pur vivendo di fatto come un solitario eremita in Alta Engadina ma anche nei bordelli di Genova e sotto i portici di Torino. Di più: proprio l’esperienza del padre di Zarathustra ci insegna come in quella sua condizione di estrema povertà e di alterità potesse egli scandagliare se stesso e, suo tramite, la condizione dell’uomo nell’età prossima del nichilismo ed il farmaco (chissà?) del suo superamento. Durante i reportage nel Vietnam, negli anni del conflitto, raccontava la giornalista Oriana Fallaci di essersi recata dal capo della polizia di Saigon, di cui nota era la fama per i metodi brutali e spicci. Lo si può leggere nel libro, Niente e così sia, da cui l’estraggo citando a memoria (libro andato disperso quando e dove non so e che mi era stato donato da Federico Martignoni, play-boy conosciuto in carcere per questioni di cocaina legata allo scandalo del locale in Number One e schiantatosi con l’auto lanciata a folle velocità). Ebbene: la Fallaci si stupì di una poesia che, nel suo ufficio, egli teneva alla parete dietro la scrivania. Ne rammento ancora il primo verso ‘cresci placidamente nel rumore degli altri’. Appunto la voce del silenzio, simile al soffio lieve di vento a piegare i sottili fili dell’erba dei campi, alla spada che fende l’aria e si avventa sulla carne de nemico (meglio: dell’avversario che l’odio stride), Cataldo grande e grosso, gli eterni occhiali neri, che, mentre dal piazzale della Minerva e dalle arcate del Rettorato, al grido di ‘Assassini! Assassini!’ arrivavano di corsa due tre cento forse ancora di più comunisti si slacciò il nodo della cravatta e decise che non sarebbe scappato e noi, meno di venti, decidemmo di condividerne silenzio e solitudine… ‘Silenzio – camminiamo avanti – avanti nella nostra vita – fatta di silenzio. – Silenzio – non puoi spiegarlo – né a te stesso né agli altri – né alla persona che ami. – Silenzio – perché già troppo parlano gli altri – e non serve un’altra voce. – Silenzio… Silenzio…’.
E’ ora in cui mi attende una tazza di tè. Ore 6,06 mattino.
Mario Michele Merlino
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