7 Ottobre 2024
Modernità Società

Silenzio tra le generazioni. L’autismo ipermoderno – Roberto Pecchioli

 

Quando i sociologi si uniscono agli statistici, scoprono l’acqua calda, o il filo per tagliare il burro. L’ultima rivelazione di questi esploratori del labirinto della nostra società è che le varie generazioni non parlano tra loro, e specialmente i giovani, che nell’istogramma statistico sono quelli tra i 18 ed i 36 anni, non comunicano con le generazioni più anziane. Nessuna novità, nessuna sorpresa. Giriamo intorno all’argomento dagli anni 60, e un grande regista italiano, Michelangelo Antonioni fece dell’incomunicabilità il tema principale delle sue opere.

Questa è la modernità, ragazzi. La generazione del 68 rovesciò il tavolo, ma a suo modo comunicò, contestando i genitori, l’autorità, le convenzioni, il mondo borghese. Dopo le convulsioni degli anni Settanta, che furono un modo estremo di relazione, improntata sullo schema amico- nemico e sull’uso della violenza e della prevaricazione, il potere di sempre ha ripreso il controllo della situazione. Il nuovo capitalismo antiborghese ha assorbito facilmente le pulsioni giovanili degli anni precedenti, orientandole al consumo, al piacere immediato, alla rivendicazione di sempre nuovi “diritti”.

L’unica “narrazione” ancora ammessa, per usare il lessico di Jean François Lyotard, inventore del postmoderno, è stata una forma volgarizzata della psicoanalisi, centrata sulla morte del padre e il principio di piacere, adatta a trascinare  le generazioni in un limbo senza leggi morali, chiusi nel soggettivismo, dipendenti del feticismo delle merci e di un individualismo egoista ed egotista. Da quasi cinquant’anni è vietato vietare, da altrettanti si decostruisce, si demitizza, si deride ogni principio veritativo, si recidono legami e radici. Il nostro tempo è quello della morte del padre, quindi della legge, della trasmissione. Perché dovremmo parlarci? L’ipermodernità è formata da neo plebi istruite e ignoranti dell’essenziale, desideranti rivolte al consumo di tutto: esperienze, merci, corpi.

I giovani descritti dalla statistica sociologica sono la prima generazione dei figli del post Sessantotto e dei grandi sconvolgimenti sociali, familiari, antropologici degli anni successivi.  I loro padri hanno ucciso i nonni, nessuno stupore che i figli li ignorino. E’ il solito discorso: chi taglia il legame con il “primo”, inevitabilmente, nega la possibilità del “dopo”. C’è solo un “durante “, un presente continuato e faticoso, un quadro puntinista senza l’arte di Georges Seurat nella “Domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte”. Il capolavoro del “pointillisme”, peraltro, già rivela una certa indifferenza reciproca, la separatezza di singoli o piccoli gruppi che comunicano solo al proprio interno, o che, al più, si offrono allo sguardo altrui esclusivamente attraverso la moda o l’atteggiamento, oggi direbbe l’immagine.

La psicoanalisi freudiana, filosofia di serie C, ha inventato il complesso di Edipo, i suoi epigoni hanno preteso non di superare la contrapposizione con il padre, ma di abbatterne definitivamente, insieme con l’autorità anche la figura. E’ del 1972 l’“Anti Edipo” di Deleuze e Guattari, che accusa Freud di conservatorismo, e invita ad andare fino in fondo, troncare ogni legame con il passato e i padri. E’ andata così, con la complicità interessata di quel liberismo nuovo che ha compreso il vantaggio immenso di lavorare su generazioni plastiche, sradicate, possedute dalla “furia del dileguare”, cioè di liberarsi di ogni retaggio, idea ricevuta, tradizione, che Hegel, già all’inizio del XIX secolo, aveva individuato come fondamento della modernità nascente.

In più, c’è la tecnologia, che ha stravolto modi di vivere, di lavorare, di pensare la presenza nel mondo d’intere masse umane. Lo verifica chiunque lavori da decenni e abbia a che fare con giovani colleghi. L’esperienza non ha più l’importanza che ha sempre avuto, trasmettere conoscenze, segreti professionali, diventa sovente vano per l’evidente inutilità di saperi tramontati, inservibili, e non si ha più l’autorevolezza per dirigere o organizzare, e, peggio ancora, non si sa né si vuole essere esempio. In famiglia non è diverso.  Le famiglie sono sempre più spesso divise, e allora vincono i sensi di colpa e le soluzioni più comode. I padri si trasformano in bancomat, nessuno è in grado di pronunciare quei no, che, unici, educano alla vita. Le madri tengono botta un po’ di più: l’istinto profondo del prendersi cura non ha ancora travolto il desiderio di realizzazione o di autonomia assoluta che femminismo, modernità e tempi hanno ispirato alla stragrande maggioranza delle donne.

Del resto, l’ultimo mezzo secolo è quello dell’uccisione del padre, non della madre, e della svalutazione, se non della ridicolizzazione del maschile.  Nei mestieri, serve meno forza fisica, nelle famiglie sono vietate vietare, insegnare, punire o semplicemente negare. Le biotecnologie stanno rendendo superflua persino la prestazione sessuale dalla quale scaturisce la paternità: bastano provette, siringhe e una mesta polluzione masturbatoria in ambiente asettico. Come può essere preso sul serio un padre simile? E perché discutere con lui, chiedere, interloquire, obbedire, poiché, screditato il legame di sangue e il fatto stesso di generare, la sua unica funzione nel mondo è stata quella di mettere a disposizione il seme?

Troppi adulti, peraltro, troppi padri, accettano di buon grado la retrocessione: nessuna responsabilità, nessun problema quotidiano, giacché educare, insegnare, semplicemente parlare con i più giovani è impegnativo, richiede costanza, empatia, sconfitte, capacità di fornire risposte, mettersi in gioco. Qualcuno forse pensa, mi avete ridotto così, adesso tenetemi come sono.

Eppure, se è falso il complesso di Edipo, e folle l’anti Edipo estremo dell’anarchismo libertario, vero e presente sono Telemaco. Il figlio di Ulisse non conosce il padre, partito quando lui era un infante, ne ha sentito parlare, conosce la sua gloria, sa della forza e della legge che aveva saputo porre. Vede i Proci, i giovani pretendenti al trono spadroneggiare in casa sua, insidiare la madre Penelope, cospirare contro la sua stessa vita. Va in cerca del padre, non lo trova, ma infine si ricongiunge con lui, nel riconoscimento reciproco tra le lacrime, e lo affianca nel ristabilimento della Legge. Nel libro XVI dell’Odissea, Telemaco afferma: “Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre.”

Trattando con molti giovani, si avverte nei migliori tra loro questa mancanza, una nostalgia del padre e, in qualche misura della Legge. I più, purtroppo, non hanno il complesso di Telemaco, ma quello di Narciso, e la loro vita è scandita dalle mode, dall’apparire nei social network, dall’attesa delle varie vacanze e dagli sballi della fine settimana, dal riflesso della propria immagine, il triste amore di se stessi.

Costoro non hanno alcun interesse al dialogo tra generazioni, al più sono interessati alla competizione più frivola o spregevole con i coetanei. Sazi da morire, non sanno affrontare difficoltà e fatiche, smarriti, soli. Ma tutto parte dallo stesso problema: l’omicidio premeditato dei padri – in minor misura della madri – trasformato in suicidio assistito da parte degli interessati, e dalla chiusura autistica che ne è derivata.

Il mio, di padre, era un semplice tipografo e, come Socrate, sapeva di non sapere: però dava l’esempio. I principi di fondo della vita, l’amore per la famiglia, il rispetto degli altri, l’apertura alla trascendenza, l’accettazione serena della fatica ed anche della sconfitta, la capacità di fare rinunce, le praticava senza paroloni od atteggiamenti didattici. Oggi, nessuno ci parla di sacrificio, di fedeltà a qualcuno o qualcosa, di accogliere un destino.

Le madri della mia generazione, l’ultima a crescere prima, o durante, il grande rovesciamento di valori, ci insegnavano il sacrificio: erano loro stesse immagini del sacrificio. Possiedo ancora, dopo almeno 45 anni, un vocabolario di inglese che è la prima cosa che ho guadagnato con il “lavoro”. Mia madre mise un prezzo al fare la spesa, rifarsi il letto, lavare l’automobile e così via. Non ho mai dimenticato l’orgoglio di aver pagato io – erano poche migliaia di lire – il Piccolo Orlandi con la copertina rigida e l’Union Jack.  Quanto al consumismo agli albori, bastava dire che “era roba da signori” ed il nostro orgoglio identitario di figli di operai ed artigiani ci rendeva diversi, diffidenti verso le mode e gli oggetti simbolo: rimasi sbalordito dinanzi al desiderio per me inspiegabile delle mie compagne di liceo per un certo foulard francese. Non so se era “dialogo” nel senso odierno, ma quel modello di trasmissione, quella catena generazionale attivata dal senso comune, funzionava.

I padri presenti di questi anni sono “mammi” apprensivi esperti di cambio pannolini, ma non sono modelli, non sono esempi, nessun Telemaco è davvero interessato ad attenderne il ritorno: tutt’al più parteciperanno allo stesso videogioco, più spesso metteranno semplicemente mano al portafogli.

Ma poi, perché i più giovani dovrebbero discutere con le generazioni più anziane? L’orientamento comune, accettato per ripetizione coattiva, è che le idee nuove sono sempre migliori di quelle vecchie, esattamente come le merci.  Il passato è abilito, padri e madri sono “genitore 1” e “genitore 2”, il principio di piacere ha travolto quello di realtà, ed anche intellettuali sinceramente preoccupati della deriva del tempo, come il docente e clinico psicanalista lacaniano Massimo Recalcati, vietano il ritorno di Ulisse. Tutt’al più chiedono, dopo il tramonto del padre, una figura che susciti, simbolicamente “il desiderio”, ovvero, nel loro linguaggio, qualcuno che testimoni la possibilità della legge, e della trasmissione. Proprio Recalcati afferma che il figlio “potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria”. (Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, pag. 13).

Non è così, non può esserlo. Il silenzio delle generazioni non è solo il solipsismo di chi vive la vita con le cuffie dell’I-Phone, scambia la vita con l’acquisto, gioisce dei “mi piace” sui post di Facebook o del volo a basso costo che è riuscito a prenotare online, o, per converso, quello di chi crede di aver esaurito i propri compiti con il mantenimento economico dei figli e con i sì pronunciati dinanzi ad ogni richiesta.

I giovani hanno anche bisogno di maestri, modelli, persino di eroi, e devono essere persone che riconoscono, in cui possono identificarsi. Ben triste è stato l’esito della famosa e fortunatissima frase di Bertolt Brecht “Fortunato quel popolo che non ha bisogno di eroi”. Esauriti i modelli, screditati gli eroi, resta il vuoto, il silenzio di chi non domanda più anche perché sa che non avrà risposte.

I più fragili sono i giovani maschi: il predominio del loro sesso è stato abolito dai padri, le coetanee sono, o sembrano, più concrete e determinate, e sono stati allevati e poi istruiti quasi sempre da donne: madri, maestre, professoresse. Solo una femminista come Ida Magli, l’antropologa scomparsa qualche mese fa, poteva bollare con parole di fuoco quanto sia drammatico, per il futuro dell’occidente, avere estirpato tutto ciò che è specificamente maschile dai giovani europei e americani. Moralismi ridicoli, sensi di colpa generalizzati, ansie da prestazione, colpevolizzazione di attitudini, comportamenti, istinti. Solo l’accusa terribile di “maschilismo” può atterrire quanto quella di razzismo.

Amleto, il mito letterario dell’insicurezza, incapace di essere erede, termina la sua vicenda umana, avvelenato dalla spada di Laerte, dicendo “tutto il resto è silenzio”.

Non è troppo diverso il surreale mutismo ipermoderno che Antonioni aveva sublimato nelle inquadrature straniate e nelle interminabili, snervanti sequenze dei suoi film.

Tacciono le generazioni, chi per indifferenza, chi perché davvero non ha nulla da dire, chi per avversione o perché manca un codice comune di comprensione, e l’incomunicabilità è peggiore del baccano pubblicitario, più diseducativa dei sermoni di chi continua a teorizzare, e legalizzare, le libertà più astratte, insensate e stupide (purché oggetto di scambio economico!) che l’umanità abbia mai inventato .

Tra padri inesistenti, preti garruli e atei, classi dirigenti che non sanno né vogliono dirigere, ma solo approfittare dei privilegi di ruolo, insegnanti che attendono la campanella più degli alunni, giovani attratti da sballo, consumo ed esperienze compulsive, l’unico linguaggio comune sono i consigli per gli acquisti…

 

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