26 Giugno 2024
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Silvio Waldner (Silvano Lorenzoni): Tomàs Funes, l’ultimo caudillo – Fabio Calabrese

Silvio Waldner (Silvano Lorenzoni)
Tomàs Funes l’ultimo caudillo
Libreria Editrice Primordia
Milano 2017
€. 14,00
Recensione di Fabio Calabrese

Questa ultima opera di Silvano Lorenzoni ha un taglio diverso da quella della maggior parte dei suoi libri, è un saggio storico-biografico, ed è probabilmente questo il motivo per cui l’autore l’ha firmata con il del resto ben conosciuto nom de plume di Silvio Waldner. L’autore, che ha vissuto diversi anni in America latina o, come preferisce chiamarla, Iberoamerica, può vantare una conoscenza di prima mano di quel mondo sul quale noi abbiamo fin troppo spesso nozioni stereotipe e approssimative. In questo testo non lungo, ci racconta la vita, riportata nei dati essenziali e per nulla romanzata, di un personaggio singolare, probabilmente non concepibile in un contesto diverso da quello iberoamericano come fu Tomàs Funes, un uomo ingiustamente calunniato dopo la sua morte e alla cui memoria Lorenzoni vuole rendere giustizia, ma nello stesso tempo ci traccia un quadro vivido e sorprendente di questa realtà che tutto sommato conosciamo ben poco, esplorandone le implicazioni ambientali, antropologiche, politiche, religiose che, in una dimensione planetaria qual’è oggi quella del mondo globale nel quale viviamo, finiscono per coinvolgere anche noi in maniera più diretta di quanto forse penseremmo. Per comprendere sia la vicenda umana di questo personaggio inconsueto, sia il contesto storico nel quale essa è inserita, è necessario tenere conto dell’ambiente geografico, il Venezuela e l’Amazzonia settentrionale, e del momento storico-economico fra gli anni ’60 del XIX secolo e i ’40 del XX, periodo fra i peggiori dello sfruttamento neo-coloniale di questa regione, in cui per la raccolta del caucciù, fino alla sua sostituzione con la gomma sintetica, furono imposte ai nativi durissime condizioni di vita che si possono a tutti gli effetti considerare una forma di schiavismo. Il nostro autore non lo cita, e probabilmente è un peccato (veniale, perché non si tratta di un testo molto noto), ma ad esempio Il fiume dimenticato da Dio di Richard Collier è uno dei pochi testi che ci hanno raccontato questo capitolo ignorato di una storia che è anche la nostra, e che ci svela il fatto che le condizioni di vita dei raccoglitori di caucciù in Amazzonia non furono per nulla migliori di quelle degli schiavi nelle piantagioni di cotone nordamericane nella prima metà del XIX secolo.

Le notizie biografiche su Tomàs Funes sono estremamente scarne. Nacque nel 1855 a Rio Chico un centinaio di chilometri a est di Caracas. Figlio naturale di un generale, Lorenzo Guevara, fu avviato dal padre alla carriera militare. Combatté nelle guerre civili che allora travagliavano il Venezuela nel 1892 e nel 1899. Nel 1900, raggiunto il grado di colonnello, diede improvvisamente le dimissioni dall’esercito, dirigendosi verso l’Amazzonia, la zona del Rio Negro, a San Fernando de Atabapo, dove in breve tempo divenne un ricco e rispettato commerciante di caucciù. All’epoca la zona era dominata da un governatore particolarmente corrotto e spietato nelle esazioni fiscali, Roberto Pulido. Occorre dire che fino all’introduzione dell’elicottero, questa parte del Venezuela poteva essere raggiunta da Caracas solo con estrema difficoltà, così accadeva che questi governatori esercitassero un controllo de facto indipendente dall’autorità centrale. Quale fosse il modo di amministrare di questi governatori, è ben descritto dallo scrittore ed esploratore José Eustasio Rivera:

L’abitudine di inseguire ricchezze illusorie sfruttando gli indigeni e gli alberi [di caucciù]; l’accumulazione paralizzante di paccottiglia destinata ai peones, che rendeva un guadagno del diecimila per cento; la supremazia della casa di commercio del governatore che non pagava alcuna tassa e che, vendendo con mano di funzionario, accaparrava con tutte e due le mani; l’influenza della selva che perverte come l’alcool… Né il governatore commetteva un sopruso quando si attaccava a succhiare dalla fonte delle tasse. Questa sua condotta gli era imposta dalle circostanze, perché quel territorio è come un’eredità le cui spese sono pagate dal favorito cui è toccato, non escluso il suo stesso stipendio. Il governatore di quella zona è un imprenditore che da lavoro ai suoi subalterni: ne risulta che quelli sono impiegati da un privato ma che vengono a espletare funzioni ufficiali. Uno è giudice, un altro sindaco, un terzo notaio. Il governatore da loro ordini di ogni genere, fissa i loro stipendi e li licenzia quando vuole. I tempi del pretore che imponeva la giustizia nelle pubbliche piazze ritornano a San Fernando sotto un’altra modalità: un funzionario dai poteri assoluti legifera, governa e giudica attraverso i suoi uomini di fiducia che egli stesso paga”.

Si comprende dunque che questi governatori erano di fatto dei dittatori dai poteri illimitati, e Pulido pare fosse un tiranno particolarmente esoso e odiato dalla popolazione. I produttori di gomma rovinati dall’esasperata fiscalità di Pulido organizzarono un “colpo di stato” a capo del quale Tomàs Funes si trovò in modo affatto naturale. Nella notte fra l’8 e il 9 maggio 1913 i congiurati assaltarono il palazzo del governatore. L’uccisione di Pulido fu subito seguita dalla carneficina di tutti i suoi uomini – né quelli erano i tempi in cui si potesse agire diversamente – e Funes si trovò insediato al suo posto come governatore di fatto. Tomàs Funes non ricevette mai alcuna carica ufficiale, ma il presidente venezuelano Juan Vincente Gòmez, che fu sempre in rapporti cordiali con lui, riconoscendolo di fatto come governatore nei numerosi scambi epistolari intercorsi. Questo non pare dovuto tanto al fatto che un intervento militare da Caracas fino alla zona dell’Orinoco era praticamente impossibile, quanto al fatto che Gòmez si era reso conto che Funes era proprio l’uomo che occorreva per contenere le mire espansionistiche della Colombia e soprattutto del Brasile ai danni del Venezuela meridionale.

Funes, ci dice l’autore, era un uomo capace di agire con spietata determinazione all’occorrenza, ma non indulse mai, a differenza di molti suoi predecessori, in crudeltà inutili, e introdusse forse per la prima volta da quando la rivoluzione bolivariana aveva posto fine al dominio spagnolo in quelle terre, un’amministrazione onesta quanto le circostanze lo consentissero, permettendo un minimo di benessere alla gente, compresi gli indios da sempre sfruttati e perseguitati: “Dal punto di vista economico , un’amministrazione oculata e onesta – o per lo meno tanto oculata e tanto onesta come era possibile fra quelle popolazioni – aveva creato un diffuso e prima sconosciuto benessere, usufruito da tutti gli strati sociali, non esclusi gli indios. San Fernando de Atabapo era diventata una cittadina ricca e nei magazzini della gobernaciòn c’erano importanti depositi di armi, di munizioni, di cibarie (manoco, scatolame, pesce secco, riso, fagioli secchi, sale, zucchero, caffè, ecc.), mentre nelle casseforti non mancava il denaro contante, nella fattispecie di monete d’oro e d’argento, oltre ai biglietti di banca.

Dal punto di vista sociale, c’era tranquillità, per la prima volta dalla caduta dell’impero coloniale spagnolo – tranquillità alla quale contribuiva naturalmente il tenore di vita più alto. E, novità importante, sempre dalla caduta dell’impero coloniale spagnolo, l’indigeno era divenuto un “cittadino” come qualsiasi altro e non un genuino animale – da soma, da caccia, da macello – come era stata la sua sorte dai tempi di Simon Bolivar”. Tutto ciò finì bruscamente nel gennaio 1921. Tale Emilio Arévalo Cedeno, bandito professionista uso a verniciare le sue azioni banditesche con una tinta ideologica (“partigiano” lo definisce giustamente l’autore), inaugurando una prassi che sarà poi ampiamente seguita dai movimenti sedicenti rivoluzionari dell’America latina che in tal modo otterranno quanto meno il risultato di mandare in visibilio i sinistri nostrani, con una banda di circa 200 uomini, lanciò un attacco a sorpresa contro la gobernaciòn di San Fernando de Atabapo in un momento in cui la sapeva sguarnita di uomini atti a difenderla. Alla testa dei pochi uomini che aveva sottomano, Tomàs Funes si difese coraggiosamente, fino a quando non fu costretto alla resa dalla mancanza di viveri e soprattutto di acqua. Secondo le condizioni negoziate, a Funes e ai suoi uomini sarebbe stato concesso di imbarcarsi per Manaus una volta consegnate le armi, ma Arévalo Cedeno agendo ancora una volta in perfetto stile partigiano, dopo che Funes si fu arreso, si rimangiò la parola data. Tomàs Funes fu arrestato, sottoposto a un processo-farsa e fucilato il 31 gennaio 1921. Un modus operandi, quello di Arévalo Cedeno che era destinato a fare scuola, e che abbiamo visto molte volte all’opera anche in Italia intorno al 1945. Tomàs Funes affrontò la morte come era vissuto, a testa alta, con coraggio e dignità. Al di là dell’aspetto biografico in senso stretto, il centro di interesse di questo libro è probabilmente dato dal fatto che esso ci da una visione del mondo latinoamericano o iberoamericano che in realtà conosciamo poco, o di cui abbiamo una visione distorta perché vista attraverso le lenti deformanti dell’ideologia democratico-progressista che ha, ad esempio, esaltato la figura di Simon Bolivar quando invece si trattava di un malfattore della peggiore specie.

Silvano Lorenzoni

“La condizione lasciata da Francisco Solano [uomo d’armi ed esploratore spagnolo cui la Spagna aveva affidato nel 1754 il compito di riorganizzare la regione dell’Orinoco] rimase fino al 1820 circa, cioè fino ai tempi della cosiddetta “indipendenza” portata a termine per conto dei massoni inglesi dal “libertador [liberatore]” Simon Bolivar. Una delle misure prese da quel figuro fu la liquidazione della rete delle missioni istituita dalla Spagna, con fucilazione di non pochi fra i missionari e saccheggio dei loro averi per rimpinguare le casse della causa emancipadora [causa emancipatrice]. La scomparsa delle missioni significò immediata via libera per gli inglesi da est e per i portoghesi (poi i brasiliani) da sud; con la conseguenza che in pochissimo tempo quella che era stata la capitanìa spagnola del Venezuela (adesso “indipendente”) ci rimise la metà del suo territorio”. Questo – lo sappiamo – fu ancora il minimo, perché l’insurrezione bolivariana offrì agli Stati Uniti il pretesto per intervenire nelle faccende iberoamericane e al presidente statunitense Monroe di proclamare e imporre al mondo la sua famosa e ipocrita dottrina: “L’America agli Americani”, che in realtà significava e ha sempre continuato a significare il doppio continente dallo stretto di Bering alla Terra del Fuoco agli Stati Uniti. Il liberalismo non era altro che la maschera di nuove e più spietate forma di sfruttamento, e a soffrirne fu in particolare la condizione degli indios. Un cascame della mentalità illuministica era rappresentato dall’idea di eliminare gli indios considerati alla stregua di bestie selvagge allo scopo di “civilizzare” il continente. Se l’idea ci può sembrare disumana e delirante, non dobbiamo dimenticare che la stessa cosa accadde nel XIX secolo nell’America settentrionale, e su scala maggiore, lì gli yankee sterminarono quasi completamente la popolazione nativa, che agli inizi del secolo ammontava a 5 – 10 milioni di persone, e alla fine di esso era ridotta a poche migliaia, uno dei più spaventosi genocidi della storia. Forse le condizioni ambientali non permisero ai “liberali” venezuelani di “civilizzare” il paese in maniera altrettanto radicale, nondimeno la condizione dei nativi si fece tragica. “L’indio – elemento maggioritario ancora a fine ottocento – che prima aveva goduto di un notevole margine di protezione da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche, era adesso divenuto un animale. De facto la sua condizione divenne peggiore di quella di uno schiavo. Se una volta i missionari cattolici chiamavano racionales [razionali] gli indios battezzati per distinguerli da quelli ancora selvatici equiparati alle bestie, adesso tutti gli indios erano bestie, mentre racionales divennero gli ispanofoni con essi a contatto, di massima meticci ma anche negri. Quella dell’etnocidio-genocidio dell’indio divenne dopo “l’indipendenza” politica ufficiale dei nuovi governi, basati sull’ideologia illuminista per i quali l’indio, elemento arretrato, doveva scomparire come tale per fare largo al progresso (naturalmente per il suo proprio bene, perché anche lui potesse godere dei vantaggi della “civiltà”).
(…).

La caccia all’indio divenne uno sport riconosciuto in tempi post-coloniali, mentre i casi di cannibalismo nei riguardi degli aborigeni divennero di ordinaria amministrazione (…).  Questo stato di cose peggiorò ancora di più quando lo sfruttamento del caucciù acquistò importanza, a partire dagli anni sessanta del XIX secolo e fino agli anni quaranta del XX secolo. Lo sfruttamento del caucciù era già cominciato sotto la Spagna ma, essendo tempi pre-industriali, non aveva costituito un ramo importante dell’attività economica. L’estrazione per l’esportazione in un mondo ormai in via di industrializzazione, usando anche nuove tecniche (introdotte nella zona dell’Orinoco, secondo Jean Chaffanjon, da un francese proveniente dal Brasile), venne a costituire la tappa finale dell’aggressione contro la popolazione aborigena. Nell’Amazzonia venezuelana rimangono, adesso come adesso, meno di 20.000 indios”. Non si stenta a immaginare che quello di aver trattato gli indios come esseri umani e non come bestie, sarà stato uno dei capi d’imputazione rivolti a Tomàs Funes nel processo-farsa che lo condannò a morte. Da Silvano Lorenzoni, dall’autore de La figura mostruosa di Cristo, non c’era da non aspettarsi anche un’attenta disamina dei fenomeni religiosi dell’Iberoamerica, anche alla luce del fatto che la mentalità profonda delle varie culture è qualcosa di molto più tenace di quel che potremmo forse pensare, e sappiamo già che la cristianizzazione dell’Europa, l’introduzione nel nostro continente di una religione mediorientale, ha avuto effetti destabilizzanti e drammatici. L’evangelizzazione dell’America latina, di quello che siamo soliti considerare “il più grande continente cattolico”, in realtà si scontra con la mentalità india con esiti talvolta grotteschi. “Da quelle parti le comunicazioni erano allora esclusivamente per via fluviale, e le stesse rotte erano usate dai missionari cattolici e dai testimoni di Geova anch’essi presenti nella zona. [Il missionario] Luigi Cocco aveva un itinerario fisso per visitare periodicamente le rancherìas [agglomerati di capanne, villaggi] degli indigeni (…). Un giorno arrivò a una determinata rancherìa e non c’era nessuno, anche le capanne erano vuote. Quando stava per andarsene, un indio uscì dalla foresta, e serissimo senza contraccambiare il suo saluto, gli domandò a bruciapelo se lui era Gesù Cristo. Luigi Cocco rispose naturalmente di no, dopo di che l’indio fece un gesto, e tutta la popolazione della rancherìa uscì dalla foresta (…). Pochi giorni prima erano passati i testimoni di Geova, i quali avevano raccontato agli indios che molto presto sarebbe arrivato Gesù Cristo per imporre la sua autorità, dopo di che non ci sarebbero più state feste, più spedizioni di caccia e più godimenti di alcun genere, ma si sarebbe passato tutto il tempo a cantare inni. Gli indios (…). erano arrivati alla conclusione che Gesù Cristo doveva essere un elemento estremamente pericoloso”.

“Vale la pena di riportare un comico fatto avvenuto negli anni Sessanta del XX secolo: i bibliolatri [calvinisti] battezzavano e battezzano gli indios per immersione completa e a chi aveva fatto il bagno dicevano poi: adesso sei Tal dei Tali (Giuseppe, Giovanni, Abramo o qualcosa d’altro). Inoltre per loro valeva la proibizione della carne suina, anche se il maiale selvatico era una componente importante della dieta indigena. Un indio piuttosto furbo (…). si procurò da mangiare uccidendo un maiale selvatico e poi, immergendolo in un ruscello, dicendo, quando lo tirò fuori, “Adesso sei un cervo”.Certi episodi ci potrebbero muovere semplicemente al riso, se non fossero una spia delle profonde differenze di mentalità che si cerca di annullare sotto il manto di una religione monoteista a diffusione planetaria. La religione può tuttavia servire all’occasione per maneggi ben strani. Calvinisti, testimoni di Geova, avventisti del Settimo Giorno e altri bibliolatri assortiti si fecero alla fine dello scorso secolo, assertori del progetto di un fantomatico stato indio amazzonico. Dietro c’erano i De Beers e altri circoncisi mercanti di pietre preziose. Un documento del 1981 di cui l’autore è riuscito a procurarsi la fotocopia, e una cui copia è riportata nel testo, diretto ai missionari calvinisti in Brasile, prescriveva di impegnarsi per difendere l’ambiente amazzonico, i suoi animali, i suoi indios (sullo stesso piano!), ma che il sottosuolo doveva rimanere libero per un “opportuno sfruttamento”.

L’autore cita ancora un caso sul quale occorrerebbe meditare, perché sembra una prefigurazione di quel che sta per capitare a noi stessi in Europa. Molte tribù amazzoniche sono oggi sull’orlo dell’estinzione. Nel 2000, i membri di una tribù brasiliana ormai ridotta a una decina di anziani, ma fra cui c’era ancora una ragazza da marito, reclamizzarono la ricerca di un giovane indio come compagno per lei. I vari candidati che si presentarono furono però tutti respinti perché tutti più o meno meticci. I membri della tribù furono denunciati con l’accusa di razzismo. Questo è il mortifero segno della democrazia: razzismo non è più voler sopraffare etnie altrui, ma voler salvaguardare la propria. Non è difficile preconizzare che domani noi stessi ci troveremo nella stessa situazione su di una scala molto più vasta.

 

Fabio Calabrese

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