Nell’introduzione al volume Iduna – che in qualche modo “celebra” il cinquantesimo anniversario dell’edizione originale francese (Fayard, 1972) e il trentesimo della morte di Paul Arnold (1909 – 1992) – Riccardo Rosati spiega qual è il senso del libro secondo l’autore:
la consapevolezza che non di rado, quando da noi si guarda a Oriente, si tende d’istinto a riversare su questo ampio e complesso Continente delle “categorie” totalmente approssimative, col risultato di generalizzarne l’essenza.
Scopriamo così che l’opera qui in esame è il resoconto (spirituale, mistico, religioso…) di un viaggio che Arnold, gaijin buddista affinatosi in Tibet, fece in Giappone nella calda estate del 1970 insieme alla moglie, originaria di Tokyo. L’autore si addentra nei “misteri” dello Zen e delle scuole buddiste giapponesi, sottolineandone i contatti con lo scintoismo e descrivendo le incredibili pratiche dello sciamanismo popolare nipponico. Spiega Rosati:
Una delle cose che Arnold tiene a evidenziare è il sincretismo caratterizzante il Giappone, che si erge ai suoi occhi come uno splendido esempio di tolleranza. Un Paese così lontano, che comunque gli permise di compiere una esplorazione capace di far sorgere con vigore in lui una visione antimoderna contro “gli intellettuali materialisti o spiritualisti” d’Occidente. Sia chiaro: la sua non è una lettura ermetica della mistica e della religiosità dell’Arcipelago, propria del Pensiero Tradizionale, quanto piuttosto un racconto fluido e coinvolgente, in cui ci viene restituita l’idea del Sacro di una cultura, come quella giapponese, talora positivamente arcaica. Il punto fermo della sua riflessione si concentra nell’avversione nei riguardi della società post-illuminista e della sua arroganza: “La sufficienza dei nostri scientisti e della maggior parte dei missionari è imperdonabile”.
Il Giappone di Arnold non è certo quello a cui sono abituate le nuove generazioni occidentali; non è il Giappone dei moderni manga, né quello del cartone animato di fantascienza con i robot giganteschi; non è il Giappone delle nuove tecnologie, quello del CD, quello della riproduzione HI-FI; non è (ancora) il Giappone delle multinazionali che facevano paura negli anni ‘80 e nella prima metà dei ‘90 (riflessi di ciò li troviamo nella letteratura e nella cinematografia “di genere”, come in Blade Runner e in Sol Levante); etc. È un Giappone ancora parzialmente “arretrato” quello che si rivela agli occhi dei visitatori già all’aeroporto di Aomori (Primo capitolo, Lo sciamanismo moderno), tappa obbligata per recarsi dalla capitale al tempio buddista di Osorezan (o Ossoresan), la Montagna della Paura: vie che sembrano quelle del Far West impestate di polvere rossa, insopportabile afa ovunque, un taxi scalcinato e sporco, con i finestrini che non si possono abbassare perché non hanno la manovella. L’autista del mezzo, che accompagna i due coniugi dall’aeroporto fino al tempio lungo un percorso obbligato di 120 km, è quasi una versione moderna – ma non troppo – del postiglione di diligenza dei tempi che furono.
Al tempio, fra turisti e pellegrini, spicca la figura della itako, una donna-sciamano tradizionalmente cieca (per nascita o per malattia), i cui poteri particolari le permettono di entrare in contatto con il mondo dei morti; la sua preparazione coinvolge sia il buddismo, sia lo scintoismo; con estrema e volgare approssimazione la itako potrebbe essere considerata una medium. Arnold è un uomo sul “limite”: francese alsaziano buddista, esperto orientalista, e maritato con una giapponese. Il suo sguardo sulle manifestazioni tradizionali è attento, coinvolto ma non troppo, da cronista-romanziere; il suo saggio si tinge di sfumature che ricordano i viaggiatori-scrittori del Settecento/Ottocento. Chi sono le itako? Fattucchiere da baraccone capaci solo di sgranare rosari facendo finta di dialogare con gli spettri, sfruttando la propria cecità per raccattare qualche centinaio di yen, oppure vere iniziate? Arnold interpella dunque un’alta “carica” del luogo:
Pregai subito il maestro Oyama di parlarmi delle itako. Quelle che si riuniscono qui arrivano sovente da molto lontano, dalla zona settentrionale del paese. Dotate di veri poteri medianici, queste donne si identificano con il morto e, terminata la loro cantilena, dimenticano completamente le parole che hanno pronunciato nello stato di sdoppiamento. Il mio interlocutore credeva ai poteri delle itako anziane, ma non aveva fiducia in quelle giovani, che hanno avuto una iniziazione approssimativa. Secondo lui, anzi, c’era da temere una prossima estinzione di quell’arte.
La descrizione dell’iniziazione della “vera” itako rivela una tradizione complessa fatta di ascetismo, digiuno, resistenza, privazioni, studio di antiche formule e gestualità. Alla fine di un travagliato periodo presso una itako anziana, la giovane mistica cade in trance e viene posseduta da un kami, uno spirito che dovrà chiaramente rivelarsi a lei; a quel punto è pronta per entrare in comunione con il regno dell’aldilà e per esercitare i suoi poteri di guaritrice. Ci sono giorni precisi nei quali è possibile contattare – avendone il potere mistico – l’anima del defunto, che non rimane per sempre “a disposizione” della medium. Tutto questo, dice Arnold, è basato su due assiomi: la credenza di una sopravvivenza della parte psichica dell’uomo e il potere degli sciamani. Fa da contrasto, nelle parole di Arnold, il Giappone contemporaneo, “occidentalizzato”, nel quale vanno via via spegnendosi tutte le antiche tradizioni, come quelle delle feste che celebravano il culto dei morti; nell’estate del 1970 resistevano ancora nelle zone rurali e in qualche quartiere povero delle metropoli; il Giappone è diventato il “regno dell’incredulità”, nel quale i giovani non frequentano più i templi. Non è certo un caso che Yukio Mishima, decise di darsi la morte il 25 novembre dello stesso anno in cui Arnold compiva il suo viaggio in quel che restava del Giappone tradizionale; disse Mishima nel suo proclama finale:
Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo. Non c’è nessuno tra voi che desideri morire lanciando il proprio corpo contro quella Costituzione che ha evirato il Giappone? Se c’è, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione spinti dall’ardente desiderio che voi, che avete uno spirito puro, possiate tornare ad essere veri uomini, veri samurai!
La Montagna della Paura è anche la Montagna della Morte: le itako evocano i defunti e il paesaggio oltre il tempio rappresenta il passaggio dall’inferno al paradiso incarnato da mucchietti di pietra sormontati da statue jizo, addobbate con stoffe infantili e cappelli bianchi e rossi, offerte in voto dai parenti dell’acerbo morto. Arnold spiazza il lettore occidentale parlando di “colpa” del bambino deceduto. Ma la cosa ha un senso: essendo scomparso prima dei genitori, non è potuto diventare adulto, mancando così di adempiere i propri doveri filiali; la sua anima necessita dunque di un “aiuto” spirituale per distaccarsi dal mondo e raggiungere la pace eterna. I giorni della Festa dei Morti sono descritti brillantemente dal saggista – perché brillanti, giocose, allegre sono quelle stesse festività, assimilabili, per coincidenza non fortuita, ad alcune analoghe festività sudamericane. Il caso non è “a caso” per l’autore: io credo al destino, dice, perlomeno all’avvenire che si è già realizzato in quello che a noi si presenta come tempo futuro. Misticismo profondo, ma, a pensarci bene, anche estrema frontiera della scienza: un uomo percorre (vivendo e muovendosi) nello spaziotempo quadridimensionale una “linea di universo”, che è sempre presente, che è sempre esistita nella sua interezza (le strane proiezioni serpentiformi che escono dai corpi dei personaggi del film Donnie Darko – Richard Kelly, 2001 – sono una sorta di linee di universo), dove passato e futuro sono semplici sequenze della linea.
Se il libro iniziava con gli incredibili incontri vissuti dall’autore e da sua moglie nel mondo delle itako, donne-medium cieche e dagli enormi poteri medianici e divinatori, il secondo capitolo (Gli uomini della montagna) affronta per così dire “l’elemento maschile”, trattando degli yamabushi, monaci-sciamani che vivono in monasteri scintoisti siti soprattutto in amene località di alta collina oppure appollaiati su vette inviolabili, seguendo la filosofia dello shugendo: montagna come luogo sacro, vita come pellegrinaggio, distaccamento dal cibo e dalle cose terrene, preghiera, ascesi, sobrietà, digiuno, fatica, veglia. Come per le itako, anche per gli yamabushi, suggerisce Arnold, nel Giappone modernizzato post 1945, è però difficile “separare il grano dal loglio”, distinguere ciò che è stato allestito per i visitatori e per i turisti da quello che è veramente il cuore degli antichi riti.
Sulla montagna, scrive Arnold, lo yamabushi vive simbolicamente i sei stati: inferno, gaki (una specie di limbo), mondo animale, mondo degli ashura, mondo umano, cielo; con i meriti acquisiti attraverso i suoi duri esercizi egli ripara gli errori propri e quelli degli altri, riportando così il mondo all’armonia.
Il lungo allenamento fisico, mentale, psichico e metafisico permette allo yamabushi di ottenere i suoi poteri: capacità di guarire, abilità divinatorie, esorcismo, telepatia, indifferenza verso il dolore, invulnerabilità verso le ferite anche da fuoco. La meditazione, a differenza dello yoga e dello zen che privilegiano l’immobilità, si raggiunge nello shugendo attraverso il movimento: lunghe marce in montagna. Fino al XIX secolo lo yamabushi era spesso legato a un samurai che lo usava come strumento di “offesa a distanza”: il monaco poteva colpire a distanza il nemico del suo padrone infierendo su un simulacro della vittima. I più “estremi” fra gli yamabushi arrivavano a compiere esercizi spirituali per quasi trenta anni di fila e abbandonavano il mondo seppellendosi vivi. Altri, come quelli del villaggio di Oami, adoratori del dio montano Yudonosan, seguivano un’esistenza talmente “essenziale” che permetteva loro di mummificarsi da vivi:
Essi dividevano la giornata fra preghiere, aspersioni d’acqua (mizugori) e tre pellegrinaggi alla roccia di Yudonosan, ripetendo ininterrottamente le loro formule. Nello stesso tempo si preparavano alla mummificazione con un regime alimentare simile a quello delle itako, ma più severo: rinunciavano definitivamente alla carne e al pesce; durante un primo periodo di tre mesi abolivano cinque cereali: il riso, l’orzo, il grano, la soia, i piselli rossi. Durante un secondo periodo della stessa durata abolivano altri dieci cereali e tutte le verdure coltivate, nutrendosi soltanto di frutti selvatici o di ghiande. Alla fine mangiavano solo scorza di ippocastani e di tertoya: era il periodo chiamato kigui. Un simile regime eliminava progressivamente dal corpo tutti i grassi e restringeva gli intestini. Il corpo restava vivo, ma si essiccava e cominciava a mummificarsi. Quando l’asceta sentiva che era giunta la sua ora, scavava una buca a sua misura, nella quale restava seduto a pregare per molti giorni, sempre tenendo con sé il rosario, la campanella e relativo martello per suonarla. Chiedeva poi al suo discepolo di ricoprire la buca con rami e uno strato di terra (che veniva trapassato da una canna vuota di bambù per farvi entrare l’aria), e lo pregava di dissotterrare il suo corpo dopo tre anni. Da quel momento restava immobile, senza mangiare né bere, in meditazione e preghiera. Di tanto in tanto colpiva con il martello la campanella, per far sapere al discepolo che era ancora vivo. Tutto questo poteva durate diversi mesi.
L’autore del saggio rimane colpito dallo spettacolo della “mummia vivente” di Dainichibo, uno dei due templi di Oami che conservano monaci auto-mummificatisi. Il monaco è inequivocabilmente morto, ma conserva ancora una traccia (spirituale) di vita che permette un ponte fra il passato tradizionale del Giappone e l’era moderna secolarizzata.
Alle frontiere della vita è il titolo del terzo capitolo. Arnold, giunto a Kyoto, parla della setta buddista tendai, alla quale appartiene anche la famiglia di sua moglie, ne descrive i complessi riti funebri che portano alla cremazione del defunto. Ma, dice l’autore, questi riti, per quanto commoventi, sono soltanto una curiosità per il turista; il tendai mi sembrava ridotto a un buddismo per le masse. E anche il maestro Enami di Hieizan, del tempio fondato secoli prima da Dengyo Daishi, lamentò la decadenza spirituale del Giappone, descrivendo però al visitatore le ardue prove di digiuno, preghiera e fatica fisica che gli adepti compiono per dodici lunghi anni al fine di raggiungere uno stato più elevato; lo scopo è quello di far cadere l’illusione della realtà delle cose, far capire che all’origine di tutto c’è il vuoto. Il Nirvana. Come non pensare alla fisica moderna? All’Universo che nasce per una “fluttuazione” del vuoto? Al fatto che la materia è discontinua ed essenzialmente vuota – sia fra gli atomi, sia all’interno degli atomi stessi?
Il quarto capitolo del libro parla di Simbologie e segreti. La visita al museo e ai templi di Koyasan, a sud di Osaka, è l’occasione per l’autore di intrattenere il lettore su alcune caratteristiche figure ricorrenti nella spiritualità giapponese, come Fudo, l’aspetto segreto del Budda, il dio armato di una corda e della spada da doppio corno sopra l’elsa (l’uomo ignorante viene minacciato con la spada e legato con la corda e ricondotto al Budda); o come i mandala segreti di Kongobuji, che rappresentano la struttura dell’Universo oppure la saggezza infinita del Budda che sconfigge l’ignoranza. Una pura atmosfera spirituale impregna questo mondo di astrazioni – scrive Arnold – che struttura tutto l’universo secondo una matematica implacabile, analoga a quella della Cabala ebraica. Un altro tempio, anch’esso inviolabile al turismo, conserva la statua di Kobo Daishi, monaco e sciamano buddista (ritenuto un’incarnazione dello stesso Budda) vissuto fra l’VIII e il IX secolo: fondò la setta shingon e terminò la sua esistenza terrena raggiungendo l’auto-mummificazione. Nell’Università buddista di Koyasan vengono tracciate per l’autore dai maestri mistici del luogo le linee di forza del tantrismo in generale e del buddismo esoterico shingon in particolare, quali sono rintracciabili in studi, rari anche in Giappone e ancor più rari in Occidente: Vuoto come Realtà Assoluta e principio motore dell’Universo, come energia che dissipa l’Errore; Universo come somma di fenomeni interdipendenti che formano “una metafisica magica”; vita come fusione di tre diverse manifestazioni del Budda (Corpo, Parola e Pensiero); sostanza delle cose viventi come unione di sei elementi (terra, acqua, fuoco, vento, etere e coscienza). L’aspirante monaco shingon deve superare tutta una serie di prove fisiche e mentali per avvicinarsi da iniziato alla dottrina. Interessante la spiegazione offerta da Arnold del celeberrimo mantra “om mani padme hum” che gli adepti ripetono all’infinito; si parte da un “primo grado”:
OM (anticamente A-U-M) simbolizza la trinità Budda-dottrina-comunità; MANI (o gioiello), cioè il Budda o la sua dottrina, rivelatosi nel PADMA, cioè nel loto (“padme” indica luogo), simbolizza il mondo; HUM caccia il demonio. Il secondo grado, invece, analizza più dettagliatamente HUM (anticamente HAUM): H sta per “Hetu”, la causa; A è la madre di tutte le sillabe, U sta per “una”, cioè desiderio, involuzione, cioè l’instabilità, la mancanza di realtà, il vuoto; M sta per “atman” e ricorda l’errore di credere nell’esistenza individuale delle cose. Il significato ultimo della sillaba è che l’essenza primordiale delle cose è increata, incondizionata, senza qualità; è vuoto, perché ogni cosa creata ha origine nell’increato. Come si vede, siamo all’essenza della dottrina segreta seguita dalla setta tendai.
Dovunque si erge lo “stupa dei cinque cerchi”, un monumento buddista comune anche a Koyasan, una rappresentazione stilizzata e spirituale dell’uomo stesso: sopra una base cubica si regge una sfera schiacciata, sormontata da un trapezio che ha sopra una mezzaluna, e alla sommità sta un emisfero che finisce a punta; lo stupa è anche uno strumento di contemplazione.
Singolare la storia di Niciren, raccontata ad Arnold in quel di Tokio dal maestro Suguro in un tempio intitolato a questa figura di monaco del XIII secolo:
Questo figlio di pescatore, monaco tendai a Hieizan dall’età di quindici anni, scandalizzato dalle ambizioni politiche e dalla decadenza religiosa della setta, decise, a trentun anni, una riforma intransigente per sottrarre il buddismo a questi influssi nocivi e alle sottigliezze dell’esoterismo shingon. Egli si prefiggeva di riavvicinarlo al popolo, come già aveva tentato cento anni prima Honen, il fondatore della setta amidista jodo, che nel frattempo era entrata nelle grazie del governo. Radicalmente protestatario e intransigente, rifiutando di piegarsi alle severe rimostranze dei capi tendai, Niciren sfuggì alla morte, ma solo per subire due volte le pene dell’esilio. Egli infatti continuava ad affermare che le sciagure che allora si abbattevano sul Giappone — carestie, epidemie, terribili terremoti, un tentativo d’invasione da parte dei Mongoli sventato soltanto per il sopraggiungere di un tifone chiamato kamikaze, “vento degli dei” — erano causati dalla mancanza di fede, dal rifiuto di credere all’unico sutra del Loto (Hokkekyo), fonte di ogni saggezza e della pura fede. Egli apostrofava apertamente i pubblici poteri con lettere aperte molto severe, e nei suoi trattati esaltava la volontà umana consacrata alla purezza individuale e sociale, all’austerità senza compromessi. Per questo motivo è stato talvolta chiamato il “Savonarola giapponese”.
Arnold descrive i suoi talora infruttuosi tentativi di avvicinare i maestri spirituali zen soto nel quinto capitolo, Zen a freddo. Durante sette giorni di permanenza presso un tempio zen soto Arnold scopre (o meglio riscopre, vista la sua familiarità con i templi tibetani) la virtù della pazienza, senza la quale è impossibile seguire i lunghi e complicati riti spirituali (che, dice l’autore, spesso irritano l’Occidentale sempre smanioso di arrivare subito alla conclusione, spesso mancandola), la pazienza con la quale bisogna scavare il solco che conduce alle radici del proprio io apparente. Lo zen soto è essenzialmente meditazione, la solo pratica che può portare al Risveglio: l’adepto, solo nella penombra, perfettamente immobile, insensibile ai dolori muscolari, con il volto rivolto verso un muro bianco a pochi centimetri dal naso, lascia scorrere liberamente i propri pensieri, cercando un centro d’interesse al di fuori di questo flusso ininterrotto. Ma in realtà, spiega il saggista, tutto è zen: pulire la propria camera, rastrellare il giardino, lustrare il corridoio o recitare litanie, tutto è zen, a condizione che tutto porti alla meditazione pura e all’apprendimento della vacuità; e poi: scopo dello zen è il distacco dalle passioni, perché non siano esse a dominare noi, ma noi a dominare a dirigere loro. La venerazione giapponese per la Natura porta all’arte zen della composizione floreale (ikebana e ohana), molto complessa aldilà delle mode europee.
Il maestro zen rinzai Mumon Yamada, uno dei maggiori del Giappone (che compiva settant’anni nel 1970 di Arnold e che sarebbe scomparso nel 1988, dopo aver visitato più volte l’Italia e avere persino incontrato Giovanni Paolo II), è il “protagonista” del sesto capitolo, Zen a caldo. Interessante il richiamo alla casualità che non è mai tale: Joji, un discepolo svizzero di Yamada, giunto al monastero di Kioto “per caso”, rimase lì, destinato a vivere una nuova vita per sempre. Il “caso” non è dunque casuale, le coincidenze sono sempre significative (fu proprio durante una visita a Yamada nel 1961 che Arnold conobbe la sua futura moglie, sicuramente non “per caso”). Il monaco zen che non sa guarirsi da solo se si ammala non è un vero monaco zen: lo apprese uno Yamada diciottenne dal suo maestro, un guaritore dalle grandi capacità. Quando Arnold inizia a seguire il discorso di Yamada, durante una seduta mattutina, non può fare a meno di sottolineare un passaggio quasi “futurista”:
Tutto rivolto all’avvenire, chiamava le sue giornate “lo zen del secolo XXI”. In Giappone è considerato un socialista. È uno che sa mettersi al livello dell’uditorio. Qui parlava in tono confidenziale a persone di ogni età e mentalità; Joji ci disse che quando si rivolge ai monaci il suo tono diventa virulento e scava in loro fino alle più intime fibre. Quella mattina spiegava perché lo zen è necessario. I passeggeri di una automobile sono nemici delle altre automobili e dei rispettivi passeggeri, che sono spesso loro vittime o loro aggressori. Quando poi la famiglia cresce bisogna comprare un’altra automobile, che diventa nemica della prima. Ognuna infatti ha in sé degli “io” apparenti che si oppongono e si combattono. Ma ove non esista più l’ “io”, ove l’essere ritrovi la sua vera natura, non vi sono più inimicizie od opposizioni.
Per questo, spiega Yamada, i grandi uomini del passato (i Bosatsu) rinunciano al proprio “io”, alla propria individualità, nel nome dell’interesse del popolo, dell’interesse collettivo; grandi Bosatsu del Novecento sarebbero l’imperatore del Giappone e Lenin.
Il giardino zen viene invece mostrato e spiegato ad Arnold dal maestro Faruta:
Era un “giardino secco”, di sole pietre, lastroni e ghiaia, che con la loro forma e disposizione simboleggiavano l’acqua, la sorgente, le cascate, il ponte, il tutto circondato da un tappeto d’erba, da cespugli di camelie e da alberi diafani. Più largo che profondo, il giardino saliva dolcemente verso il fondo: lì tre rocce triangolari (san-kaku-ishi) indicavano una sorgente, sulla destra. Il fiume di ghiaia bianca veniva verso di noi attraverso false cascate, false rocce e un ponte realizzato con lastroni di pietra, irregolare; poi si allargava e voltava a sinistra con anse sinuose e pigre, lambendo isole fra tappeti d’erba disseminati di azalee verdeggianti. La prima isola suggeriva la forma di una gigantesca tartaruga — il Giappone abbonda di pietre dalle forme più strane — e simboleggiava, secondo il maestro Furuta, “l’isola del paradiso” (Horai-jima); infatti, qui come in Cina, la tartaruga per la sua longevità è ritenuta simbolo di immortalità. Veniva poi la pietra denominata “isola della cicogna” (Tsuru-jima), poiché richiamava la forma slanciata di quell’uccello. La tartaruga infatti è sempre associata alla cicogna, secondo la regola dell’equilibrio dei contrari (yin e yang).
Il monaco zen rinzai deve meditare su un koan (una breve asserzione paradossale che serve a evocare la vacuità) talvolta anche per anni; solo quando lo capisce il suo maestro gli affida un nuovo koan su cui riflettere; nessun monaco, dice Arnold, ha superato la soglia dei 160 koan su un totale di 1700 dell’intero repertorio rinzai.
Quando il fuoco è fresco è lo straordinario capitolo finale del volume (che in realtà è seguito da un’appendice, Nuove esperienze a Darjeeling, nella quale l’autore racconta di un suo nuovo soggiorno sull’Himalaya indiano), nel quale Arnold tira le file delle sue esperienze mistiche itineranti nel Giappone moderno del 1970, il Giappone che nei due decenni successivi avrebbe “fatto paura” al mondo per la sua potenza economica. Concludiamo dunque, lasciando parlare l’autore:
“Ognuno deve seguire la propria strada”, avevo detto a Joji l’ultimo giorno, quando mi aveva sollecitato ad aderire allo zen. Ognuno per la propria strada, quella tracciata nel suo destino, i cui estremi sfuggono alla nostra coscienza. Una sorta di determinismo ineluttabile ci conduce, basato sul valore delle nostre azioni passate, presenti e future. E raramente noi stessi sappiamo con precisione in quale punto ci troviamo della nostra ricerca. Non sono i fini che mi preoccupano ma i mezzi. Di tappa in tappa, questo viaggio a prima vista disordinato mi aveva fatto incontrare altri mezzi. Passando da un luogo all’altro evocavo analogie che devono essere esaminate e collaudate, per vedere se sono elementi di una stessa gamma o se ve n’è alcuno, come lo zen, che non si può allineare con i mezzi di essenza diversa. A priori si sarebbe portati a fare distinzioni radicali tra lo sciamanismo giapponese, con tutto quello che ne deriva o vi si rifà negli yamabushi e nello shingon, e la maggioranza delle sette di cui ho parlato; queste infatti hanno tutte origine diretta o indiretta in pratiche indiane, mentre lo sciamanismo giapponese ha avuto origine in loco e si avvicina alla sciamanismo siberiano. Ma se si eccettuano le itako, costrette a ricevere una volta per tutte il soccorso di un dio durante uno stato di trance, tutti gli altri aspetti della spiritualità giapponese escludono ogni ricerca volontaria di uno stato estatico, il quale, quando si verifica, è sempre soltanto un epifenomeno individuale. In ogni caso, lo scopo è sempre lo stesso: l’identificazione del soggetto con l’oggetto della meditazione, il venire assorbiti in una Essenza primordiale che il buddismo mahayana situa al di là del nostro mondo sensibile, in uno stato stabile, senza qualità, senza forma, senza principio né fine, senza nascita né morte. Quando un soggetto realizza questa unione “in stato secondo”, cerca in effetti semplicemente una visione nuova dell’universo, intuitivamente ma in stato di veglia; questo è il vero Satori, il Risveglio, che gli europei tendono a confondere con un’estasi portatrice di una felicità vicina all’isterismo o agli effetti della droga. Nessun maestro giapponese serio approva una simile confusione. Lento processo del conscio, il Satori (o ciò che gli rassomiglia) satura l’uomo di una certezza che deriva da una esperienza interiore, non da una convinzione ragionata. Il Risveglio è propriamente una comprensione reale dell’universo, della relazione reale che lega la nostra vita apparente, manifesta, alle sue fonti esterne. Se lo sciamanismo delle itako non mira così in alto, se si limita alla efficacia immediata dei guaritori o all’interrogazione dei morti, tuttavia i suoi metodi sono adottati in misura notevole sia dagli yamabushi e dal buddismo segreto shingon, sia dall’insieme delle dottrine scintoiste. È chiaro che tutte le attività spirituali esaminate in queste pagine cercano per vie diverse di limitare durante il periodo dell’iniziazione il normale campo di coscienza, come via alla meta prefissa. Questa limitazione si attua sempre attraverso una progressiva fissazione del conscio su un punto visivo o auditivo, su un pensiero, su una formula o su una forma del nulla o della notte, fissazione che deve sfociare nella identificazione con l’oggetto della meditazione. I vari metodi impongono tutti, per un tempo più o meno lungo (come minimo cento giorni), un tenore di vita eccezionale che va osservato rigorosamente, una regola accettata in partenza con un atto di volontà e che va seguita spietatamente, trascurando dolori fisici o morali, in un addestramento che non dà respiro. Lo zen, malgrado le apparenze, non si allontana da questa regola. Anch’esso impone una vita austera, ma senza limiti precisi di durata, per cui è aperto a ogni individuo, il quale verrà guidato al Risveglio più o meno velocemente secondo le sue disposizioni. Questo sistema di vita eccezionale non si riduce, come troppi da noi ritengono, a un regime alimentare. Certo, tutte le “vie” giapponesi proibiscono gli alimenti che riscaldano e soprattutto la carne; c’entra sicuramente la compassione per gli animali, ma questa compassione non spiega tutto, e tanto meno spiega deroghe alle regole almeno per quel che riguarda il pesce; la proibizione si spiega con il caldo clima estivo, quando un certo tipo di alimentazione rischierebbe di eccitare i sensi. Una delle tante sorprese che ebbi nel Tibet fu il vedere che i lama non disdegnavano né il pesce né la carne; là infatti il rigore delle altitudini esige un certo apporto di proteine. C’è da notare poi che l’alimentazione del monaco giapponese, vegetariana ma abbondante, apporta all’organismo la quantità normale di calorie. Le restrizioni eccezionali interessano sempre e soltanto quelle iniziazioni che io chiamerei violente, perché rapide e fisicamente sfibranti. A questo proposito abbiamo potuto osservare alcune costanti curiose: dopo l’esclusione del pesce, soppressione progressiva dei diversi cereali, poi del sale, infine del cibo cotto. Si ha insomma un ritorno allo stato naturale anteriore a ogni “civilizzazione”, che ha reso sofisticato l’organismo. Sembra che vi sia un legame tra lo stato naturale del corpo e lo stato dello spirito che il buddismo chiamerà normale o naturale, originale. Se si pensa ai risultati e soprattutto alla forza di guarigione, alla telepatia e al magnetismo, si può concludere che in questo stato lo spirito è come reintegrato nel mondo magico dal quale la civilizzazione lo aveva strappato. L’insieme di queste esigenze tende a sottomettere l’organismo con una fatica fisica o morale eccessiva, se paragonata alla nostra vita di ogni giorno. E questo scopo è ancora più evidente nella riduzione (che per un certo periodo è addirittura soppressione) del sonno, unita a pratiche sfibranti, quali la marcia ininterrotta, la lunghissima meditazione in posizione seduta, le prosternazioni ripetute per mesi interi, la recita all’infinito di una stessa formula, le docce di acqua gelida o il pregare sotto un getto di acqua. Tutti questi procedimenti limitano, paralizzano l’attività cerebrale normale e favoriscono la fissazione del conscio su di un pensiero unico, scelto volontariamente. Un modo di domare lo spirito domando il corpo tramite le restrizioni alimentari. Se si svuota il cervello da una sostanza e da una meccanica ininterrotta che prima sfuggivano al controllo del soggetto, si ha un indebolimento momentaneo che fa scaturire dalle profondità del subconscio un mondo di visioni passeggere le quali non sono che l’apprensione paralogica di una nuova comprensione dell’universo, una rettificazione della nostra appercezione quotidiana soggetta alle illusioni dell’io. Passato questo istante privilegiato, il soggetto ritrova il proprio stato fisico e spirituale “normale”, ma lo trova impostato su basi diverse. Senza nulla aver perso della sua acutezza spirituale anteriore alla esperienza, egli ragiona secondo ciò che ha finalmente capito. La miglior prova di questo arricchimento è costituita dall’intelligenza acuta, eccezionalmente lucida — non dico extralucida, perché sarebbe ora che cadesse la storiella del “terzo occhio”, che fa ridere tutti gli orientali e che esiste soltanto nell’immaginazione romanzesca di un mistificatore inglese —, dalla vivacità dello spirito e nel contempo dall’animo sereno e paterno degli autentici maestri della spiritualità giapponese. Ecco dove confluiscono tutte le vie che abbiamo intravisto. Esse non differiscono da quelle del Tibet e del sud-est asiatico. (…) Ciò dimostra che in Estremo Oriente vi è una costante comune a tutte le dottrine, un mezzo infallibile per raggiungere il Risveglio, e che certi mezzi,
certe mitologie, il ricorso a lettere o formule sanscrite o tibetane, non hanno valore intrinseco e non sono che aspetti secondari, pratiche comode nell’uso, che hanno forse la stessa funzione delle immagini, dei colori, dei suoni-bija diffusi dal tantrismo indiano, e ai quali in Europa sono legati maestri molto quotati.
Paul Arnold
VIAGGIO TRA I MISTICI DEL GIAPPONE
Titolo originale: Avec le sages du Japon
Introduzione di Riccardo Rosati
pagg. 200 – € 18,00
Iduna Edizioni, 2021
Francesco G. Manetti