La gnosi degli illuminati
Eric Voegelin studiò per tutta la vita i nessi storici, psicologici, filosofici del tempo nostro, individuandone il filo rosso nel successo del pensiero gnostico. L’originaria eresia gnostica sosteneva la negatività del creato, affermando che solo alcuni illuminati potevano attingere alla verità e raggiungere la conoscenza. Oggi, ne riconosciamo la profonda influenza nella supremazia alienante della civiltà tecnica, la sua disconnessione dall’uomo, il sentimento di alterazione, trasmutazione della natura corrotta, l’affidamento a cerchie di nuovi sapienti, gli “esperti” depositari del sapere strumentale. Di qui non solo il primato esclusivo della conoscenza scientifica applicabile alla tecnologia, della tecnica biologica, dell’ eugenetica affaristica e l’emersione del transumanesimo teso ad assoggettare tutto per costruire, anzi creare un uomo perfetto, titanico, fatto di protesi sempre nuove, dal cervello rinforzato dall’inserimento di programmi informatici, aspirante all’immortalità fisica. Una gnosi di tipo inedito, quella contemporanea, dai grandi mezzi editoriali e di grande influenza nell’alta cultura e presso i più chiusi circoli di potere, che sostituisce l’inferno della Terra mal fatta con un paradiso di plastica e byte, senza alcun Dio, fondato sul razionalismo estremo e su un egualitarismo ipocrita, giustificato ad uso della massa dalla volontà di appianare le differenze, frutto della malvagità intrinseca del creato, alla quale porre rimedio tecnicamente.
L’attuale predominio di oligarchie opache ma ormai individuate si fonda sul controllo del denaro, il possesso delle tecnologie e la capacità di indirizzare “ tecnicamente”, attraverso il possesso dei mezzi di comunicazione, idee,pensieri, credenze e propensioni di miliardi di esseri umani. Voegelin era cattolico, ed era convinto che il Dio che può salvarci fosse quello della tradizione. Più modestamente, o ecumenicamente, noi, sul sentiero indicato da un Heidegger, immaginiamo, o piuttosto speriamo con tutte le residue forze nel ritorno di un’etica condivisa aperta alla trascendenza, allo spirito, all’idea di Dio.
Dio non è morto.
Siamo orfani delle chiese ufficiali, sperdute in mari tempestosi dove non sanno più orientarsi. Perduti l’astrolabio ed i portolani, incapaci di usare il sestante, navigano a vista e danno per perduta la rotta d’ Europa e d’Occidente. Forse per questo si sono accodate con foga da neofiti al fronte immigrazionista: abolire gli europei attraverso la sostituzione biologica è probabilmente una sottile vendetta per l’incredulità nostra, ma, come capì un grande poeta cattolico, Thomas Stearns Eliot, è la Chiesa, sono le chiese ad avere abbandonato il loro popolo, lasciato solo senza un Dio.
Proponiamo allora alla nostra gente, agli intellettuali come ai politici, a tutti coloro che condividono il dramma esistenziale di una civiltà che non vuole morire, almeno non senza reagire e combattere, di riscoprire, ristudiare ed amare il pensiero e l’atteggiamento di vita dell’ultimo gigante cristiano del pensiero, Soren Kierkegaard.
Dio, infatti, non è morto, lo stesso Nietzsche che ne proclamò la fine è poi vissuto nel lutto, e nel disperato tentativo di reinventare un’umanità che oltre le miserie sapesse riconoscere le voci dell’infinito, del profondo della civiltà, dalla Grecia a Zarathustra. Bastano i titoli di alcune opere del solitario di Sils Maria per comprendere l’ampiezza sovrumana del suo tentativo, come Al di là del bene e del male o La Gaia Scienza. E se anche ha ragione Paul Ricoeur ad inserire Nietzsche, con Marx e Freud, tra i maestri del sospetto, per la sua operazione di smascheramento del “mondo inferiore” in cui anche le azioni ispirate apparentemente a valori morali sono in realtà dettate dall’intenzione di procurarsi piacere o evitare il dolore, il figlio del pastore protestante non sbagliava a denunciare gli aspetti della morale cristiana figli del risentimento dei deboli contro i forti.
Costanzo Preve individuava la radice comune di tutte le idee che dal 1789 chiamiamo sinistra nel Discorso della Montagna di Gesù, noto come Beatitudini. Ciononostante, resta profondamente vero che solo un Dio ci può salvare. Per questo, il pensiero di Kierkegaard sembra quello in grado di cogliere meglio gli aspetti morali della crisi contemporanea, indicando soluzioni non intellettualistiche o elitarie.
Soren Kierkegaard e l’esistenzialismo.
Un primo elemento sorprendente della vicenda umana kierkegaardiana è la perfetta contemporaneità con Auguste Comte, il positivista ateo che piegò a semplice sociologia tanta parte del pensiero europeo e, per converso, una certa vicinanza di temi con l’ altro grande danese del XIX secolo, Hans Christian Andersen, autore di fiabe dal profondo contenuto morale. Andersen scrisse di personaggi emarginati, dolorosi o diversi dalla normalità corrente, portatori tuttavia di una loro coerente fierezza e personalità individuale, come Il brutto anatroccolo o La piccola fiammiferaia, o capaci di straordinario sacrificio, come la celeberrima Sirenetta che ispirò musicisti e coreografi, innamorata del principe che aveva salvato, che passa la vita nel desiderio di avere un’anima e una vita eterna come gli esseri umani, giacché il suo destino di sirena è quello di dissolversi in schiuma marina. Alla fine, sacrifica se stessa ed i suoi desideri per non uccidere la sposa del principe e farlo soffrire.
Piccola nazione periferica rispetto alle grandi correnti europee, la Danimarca ha poi offerto alla scienza il genio di Niels Bohr, grande fisico che ha dato la sua prima sistemazione alla teoria quantistica che ha cambiato il mondo, nota come Interpretazione di Copenaghen.
In vita, Kierkegaard fu notissimo in Patria, ma pressoché sconosciuto altrove, e l’importanza straordinaria delle sue idee fu riconosciuta solo nel secolo Ventesimo. Visse soli quarantadue anni, dal 1813 al 1855, come Nietzsche crebbe in un ambiente di profonda religiosità luterana ; il padre era un ricco commerciante cresciuto però come poverissimo pastorello, aderente alla setta mistica dei Fratelli Moravi. Un suo gran merito fu quello di scrivere le sue opere in uno stile piano e per niente appesantito dai filosofemi e dalle costruzioni linguistiche dei pensatori di area germanica, spesso le firmò con pseudonimi, come, cent’anni dopo, un poeta complesso, mistico e misterioso come il portoghese Fernando Pessoa. Strenuo avversario delle grandi costruzioni intellettuali, fu avverso al suo primo maestro, lo Schelling, filosofo panteista della natura, di cui ascoltò personalmente molte lezioni, e soprattutto al gigante della generazione precedente, Hegel, colui che costruì il grande edificio intellettuale di cui si servì Karl Marx per inserirvi il comunismo ed il materialismo dialettico.
Kierkegaard è considerato il precursore dell’esistenzialismo, ovvero quella corrente di pensiero che riscopre, dopo l’ottimismo ottocentesco, declinato nelle diverse forme dell’idealismo, del socialismo e del positivismo, l’esistenza umana concreta ed individuale, nella sua problematicità. Il danese non può essere compreso, e neppure inquadrato, fuori dal tetro luteranesimo nordico, la cui domanda essenziale è se quel determinato uomo che sono io abbia ricevuto la grazia che salva e sia quindi predestinato alla beatitudine eterna. Mentre l’esistenzialismo novecentesco, tranne alcuni esponenti come il francese Gabriel Marcel e l’ultimo Jaspers, è fondamentalmente ateo (nel caso di Jean Paul Sartre anche nichilista e marxista), il suo inconsapevole fondatore era profondamente religioso.
Aut Aut
La fede religiosa e la ricerca spirituale diventano in lui lo sfondo di tutta la vita e di un’opera straordinaria. Nel rivendicare il primato dell’esistenza individuale, irriducibile e singolare, mostra come di fronte a ciascuno si aprano scelte ineludibili che corrispondono a tre stadi di vita riconducibili a tre distinti tipi umani: lo stadio estetico, quello etico ed infine, superiore agli altri due, lo stadio religioso. Nella sua opera più suggestiva, Aut Aut, conosciuta anche con il titolo originale danese Enten-Eller, in tre parti, pubblicato con lo pseudonimo Victor Eremita, di cui fa parte anche il celebre Diario di un seduttore, egli descrive la vita dell’uomo estetico, il seduttore, la figura di Don Giovanni del mito europeo, come una successione di attimi di piacere e di ricerca di una perfezione di vita, appunto, estetica, che, una volta realizzata, svanito l’attimo, diventa la noia della ripetizione e l’affanno di ricominciare la scalata. Una sorta di fatica di Sisifo priva di spessore e, soprattutto, di senso. L’uomo “estetico”, tuttavia, si rende conto del fatto che la sua vita dipende dall’altro e da altro, è priva di un centro, insignificante e disperata. La dimensione estetica, nella sua radicale assenza di impegno e di assunzione di responsabilità, non può pertanto che sfociare in disperazione. Non vi è chi non veda in questo quadro il ritratto perfetto dell’uomo europeo delle ultime tre generazioni, dal Sessantotto in avanti.
Di qui l’aut aut del titolo: l’uomo è posto di fronte ad una scelta, alla necessità stessa di poter scegliere o non farlo, e già questa alternativa secca, disgiuntiva, è fonte di timore, tremore, angoscia. Nell’Aut Aut si torna ad Aristotile, in polemica con Hegel, il quale, ad avviso di Kierkegaard, ha disumanizzato la vita negando il libero arbitrio e la possibilità di scelta. La struttura dialettica del processo di cambiamento rende l’esistenza troppo semplice nel sistema di Hegel, i conflitti sono mediati e scompaiono attraverso un processo dialettico naturale che non richiede altra scelta individuale se non la sottomissione alla volontà dell’Idea o dello Spirito del tempo, il Geist. Insomma, si tratta di un “et et”, tipico dell’uomo di oggi, che tutto vuole e sceglie inconsapevolmente di non scegliere. Nel mondo di Kierkegaard, occorre invece compiere le proprie scelte, accettando l’assunzione, consapevole quanto angosciante, delle proprie responsabilità.
Lo stadio etico e quello religioso
L’uomo etico (secondo stadio esistenziale), rappresentato in Enten-Eller dal consigliere Guglielmo, marito, padre di famiglia e persona impegnata nella vita professionale e civile, accetta i propri doveri e gli incarichi che di volta in volta gli vengono affidati, vive insomma in una quotidianità difficile, talora ripetitiva, ma nell’adempimento dei doveri connessi ai vari ruoli prende coscienza di sé, conquistando quella libertà che per l’uomo “estetico” è solo illusione o attimo fuggente. Il problema dell’uomo etico è il rischio di cadere nel conformismo che ne svuota la soggettività, per cui sperimenta un’inclinazione al male cui tenta di sottrarsi, ma che alimenta la disperazione.
Si rende dunque necessario un salto, quello della scelta religiosa, esaminata da Kierkegaard nell’altra sua grande opera, Timore e tremore, in cui attraverso la figura biblica di Abramo egli descrive il percorso della fede. In verità, molto vi è di luterano nella religiosità proposta dal pensatore, o almeno nella lettura di Sant’Agostino fatta dal monaco di Eisleben: in Dio ci si deve abbandonare, perché “inquietum est cor nostrum” e perché radicalmente corrosa dal male è la città dell’uomo. Abramo è l’autentico uomo religioso, poiché accetta di sacrificare il suo unico figlio Isacco al semplice comando divino, a nulla importando il fatto che il severo, implacabile Jahvé ebraico abbia fermato la mano del padre omicida.
Diversa è la figura di Agamennone, il re di Micene della tradizione omerica, il quale sacrifica la figlia Ifigenia per ingraziarsi gli dei, affinché si levi il vento che farà muovere la flotta achea alla volta di Troia per vendicare lo scelta di Paride e riportare Elena in patria ed al talamo. Agamennone, anzi, è l’archetipo dell’uomo etico, che accetta il dolore di padre in nome di un obiettivo cui ha consacrato la vita. In lui l’angoscia della scelta è l’esito dell’ aut aut, o questo – salvare la figlia e non assolvere alla responsabilità di re – o quello, affrontare un dolore lancinante ed il rimorso, ma guidare la flotta verso la guerra decisa.
Un punto essenziale del pensiero kierkegaardiano è che i tre stadi di vita non sono, come dire, evolutivi. Non si passa dall’uno all’altro senza un salto vertiginoso e consapevole, che è fatica, angoscia, sentimento lancinante della possibilità, orrore dinanzi all’idea di male (il peccato) che va sfuggito, ma che resta lì, sospeso, come una scelta che significherà salvezza o dannazione, aut aut, appunto. La piena coscienza individuale, del resto, nasce dalla consapevolezza del male, di cui abbiamo coscienza e comprensione, come Adamo fu preso dal terrore quando si rese conto dell’enormità di quanto commesso disobbedendo al comando divino, che è poi il comando alla natura etica dell’uomo, che fa il salto, non diventa religiosa.
Una nuova libertà
Insofferente ai poteri stabiliti, fondamentalmente uomo di opposizione in quanto uomo di libertà, nettamente sospettoso della nascente democrazia nella sua terra come delle istituzioni in cui regna l’ipocrisia e l’inganno nei confronti del popolo, Kierkegaard fu nemico del conformismo e di quello che oggi chiameremmo pensiero unico, simboleggiato nella Danimarca del suo tempo da una gerarchia luterana ridotta a crisalide di una fede vissuta come potere ed istituzione. La sua idea di libertà come vertigine, pagata con l’angoscia dinanzi all’uso che se ne fa, alle decisioni che impone, allo stesso impasse iniziale (scelgo di scegliere, ovvero di non fare nulla o qualsiasi cosa?) è profondamente moderna, e spiega il successo del suo pensiero nel Novecento europeo, dopo il 1918 e la tragedia della prima “Guerra civile europea” (Nolte). E’ un pensiero per i tempi oscuri, che, rispetto ad altre costruzioni intellettuali, ha il pregio di una certa concretezza e, soprattutto, di offrire non uno, ma due sbocchi positivi.
L’uomo di oggi è uno strano miscuglio di massa indistinta e di individuo bizzarro e scisso (un “dividuo”), ma Kierkeggard ci offre la possibilità di uscire dalla doppia sindrome del Don Giovanni estetico dedito al godimento immediato, all’oraziano “carpe diem” e di Peter Pan, il fanciullo che non vuole diventare adulto. Don Giovanni sceglie una vita inutile e dissoluta, Peter Pan si sottrae, consegnandosi ad essere eterodiretto (gli adulti, il mercato, la pubblicità, il conformismo). L’uomo etico, al contrario, affronta la realtà, prende possesso di sé, avanza, sia pure con tremore, nella foresta della vita, accettandone le sfide, a partire dalla più naturale, quella di costruire una famiglia, allevare ed educare i figli trasmettendo loro valori etici, principi forti, senso del dovere, che è sempre fatica, privazione di qualcosa o di molto, differimento delle esigenze e pulsioni personali.
Lo stadio religioso dell’esistenza può corrispondere oggi all’accettazione di quella finitezza di cui l’esteta è terrorizzato, ma che combatte consegnandosi alle sensazioni, ai paradisi artificiali e momentanei dei piaceri, alle esperienze sempre nuove, arrendendosi al consumo di sé. In fin dei conti, non sappiamo credere nell’esistenza di una vita “buona” senza che il fine sia esterno a noi, senza una tensione, un’apertura verso la trascendenza, che non necessariamente significa aderire a credenze e dottrine della religione rivelata, ma prendere atto del mistero della vita e della morte, e risolverlo nell’unico modo che allontana l’angoscia.
Oltre l’angoscia
Angoscia, quella kierkegaardiana, della scelta, ma anche quella, tanto prossima all’orrore, del nulla di chi non ha altro orizzonte che l’esperienza terrena, e rende tanto drammatico l’esistenzialismo più vicino al nostro tempo, compreso quello dello stesso Heidegger, esploratore sino allo sfinimento intellettuale dell’angoscia e della colpa esistenziale. Solo nell’ultima parte della vita e della riflessione di oltre mezzo secolo, l’uomo di Messkirch sembrò aprirsi all’infinito, in quel suo modo oscuro e trattenuto, nell’ invocazione sulla venuta di un Dio per salvarci dall’impero della tecnica e, più ancora, da noi stessi. Con maggiore semplicità, il danese accoglie Dio, il Dio cristiano, in un abbandono che ricorda la fede dei primi secoli, quella ad esempio di un Tertulliano “credo quia absurdum”, credere come un bimbo, proprio per l’assurdità logica, misurata con il cervello umano, di quell’infinito che tutto spiega senza permetterci di capire.
Nel caso di Kierkegaard, l’idea di Dio è collegata a quella della scelta, dunque del libero arbitrio, che, secondo gli insegnamenti della chiesa di prima, di quando credevano nel Dio salvatore e risorto, è decisione consapevole di fare il bene. Una curiosità di un certo interesse è il collegamento territoriale con la figura di Amleto. Il principe di Danimarca si trova, nel dramma di Shakespeare, sull’orlo di una terribile decisione, un aut aut cui il filosofo di Copenaghen deve aver pensato: uccidere lo zio, il nuovo re, o lasciare invendicata la morte del padre. Compiere un gesto enorme, il regicidio, oppure prestare fede al Fantasma che svela il complotto, che è il padre di Amleto, ma anche il suo alter ego.
Quanto alla scelta di Don Giovanni come eroe eponimo dell’esteta, va rammentato che nei suoi soggiorni tedeschi Kierkegaard conobbe la musica e le tematiche di Mozart, dei cui personaggi, ad esempio Papageno, parla diffusamente ed ascoltò le parole del più grande dell’epoca, Goethe, la vastità dei cui interessi ne fa non solo il gigante delle lettere germaniche, ma anche uno scienziato ed un filosofo di livello.
Oggi
Un intellettuale contemporaneo di grande rilievo, il russo Alexsandr Dugin, ha elaborato per il nostro secolo una complessa teoria, una sorta di rivoluzione conservatrice in salsa euro asiatista che ha chiamato “quarta teoria politica”, superamento culturale e pratico del liberalismo, del comunismo e dei fascismi. Il punto critico, l’ obiettiva debolezza della sua vasta, eruditissima elaborazione è l’aver posto al centro, come nucleo fondante- egli lo chiama, in modo un po’ oscuro, circolo ermeneutico – l’idea di “esserci”, il Dasein di Heidegger. Troppo intellettualistica, colta, oscura ed elitaria per diventare l’architrave di una concezione politica. Meglio sarebbe stato, probabilmente, ricorrere all’aut aut di quell’appartato visionario scandinavo: la vita è decisione, responsabilità, ed insieme umile sottomissione ai limiti della propria umanità, che può essere accettata del tutto solo facendo quel certo salto verso lo stadio religioso, unica modalità per ammettere, addirittura amare il sacrificio, la quotidianità, la lotta con la responsabilità, l’angoscia tremante dinanzi alla possibilità del Male e del Nulla.
Nel pensiero euro asiatista, c’è un’idea particolarissima, che andrebbe indagata con attenzione dagli europei occidentali, la “passionarietà”, lo spirito individuale e collettivo tipico della stirpe che orienta il tempo e gli uomini, trascinandoli fuori dalle secche del materialismo e dal tornaconto. La si deve a Lev Gumilev, un intellettuale figlio della grande poetessa russa Anna Achmatova. Forse la passionarietà, che è slancio, vitalità, voglia di futuro, unita alla serena accettazione dell’Aut Aut, può essere uno strappo profondo dalle stanche ragioni della nostra contemporaneità.
Futuro: ciò che non esiste più, a livello personale, travolto dal presente. Per l’ oggi, questo tempo che ha screditato tutto, destituito di valore qualsiasi principio o legame, Kierkegaard il solitario senza legami che amava passare ore in un punto della costa danese in cui osservava i gabbiani, ci parla, per bocca della semplicità e del fervore del consigliere Guglielmo, del profondo significato morale, dunque esistenziale, del matrimonio, della famiglia, dell’avere figli, del tramandare. Un ritorno al reale cui non è estranea la matrice contadina di quella sua piccola patria nordica. Ci guida, da quella fredda periferia d’Europa, verso un equilibrio interiore oltre l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, esorta a scegliere il “bene”, quello che l’uomo sa leggere, se lo vuole, nella propria coscienza morale traccia dello spirito creatore, in qualsiasi modo vogliamo chiamarlo, ci incoraggia a compiere scelte vincolanti, l’unico metodo, infine, per sconfiggere l’angoscia. Contro Dio, proclama esplicitamente in Enten-Eller, siamo sempre in errore.
E’ arduo chiarire se lo stadio etico immaginato da Kierkegaard possa essere vissuto al di fuori della religiosità, specie tenuto conto che il dolore è una categoria legata all’idea cristiana di salvezza. Comunque, è straordinariamente urgente una cultura non conformista e forze civili e politiche che vogliano veicolarne il progetto, che, ascoltando Dugin, possiamo situare ben oltre le ideologie dei due secoli passati, ed impugnino come una lanterna nella notte il senso morale, la spigolosa eredità etica e religiosa di un pensatore che, nella sua breve vita, ha percorso un itinerario spirituale di grande ampiezza, e di cui, nell’epoca che ci è toccata in sorte, possiamo apprezzare la dirompente portata antimoderna.
Solo un Dio ci può salvare….
Da Don Giovanni a Peter Pan, dal Ritratto di Dorian Gray sino al ragno della Metamorfosi kafkiana. Questo è l’uomo che rifiutiamo senza compromessi. Nel nostro personale aut-aut, abbiamo il dovere di scegliere per noi ed i figli un uomo nuovo ed antico: l’uomo etico, l’uomo religioso, che sa guardare “con occhi asciutti se stesso “ (Camillo Sbarbaro) per dare nuovamente senso, direzione, orientamento, ordine a questo transito drammatico e misterioso che chiamiamo esistenza.
Dacché l’uomo non crede più in Dio, ce lo ha ricordato un cattolico, Chesterton, è disposto a credere in qualsiasi cosa, poiché credere, “prestare fede” è una necessità profondissima dell’anima. Un grande ortodosso come Dostojevskiy scoprì non soltanto che senza Dio tutto è permesso, ma giunse ad affermare di preferire di aver torto dalla parte di Dio, che avere ragione contro di lui. Un protestante del XIX secolo ci ha invece invitato all’etica, che nasce individuale ma cresce comunitaria, ed ha un parente stretto, non l’unico, ma forse il più importante, il senso religioso. Non resta che accogliere la possibilità evocata da Heidegger insieme con il suo amato poeta Hoelderlin: solo un Dio ci può salvare.