25 Giugno 2024
Solstizio

Solstizio d’inverno – Maurizio Rossi

 

«Libertà è dove puoi vivere come piace all’intrepido cuore; dove vivi secondo le leggi e i costumi dei tuoi padri; dove gioisci di ciò che già rendeva felici i tuoi avi.»

Fin dalla preistoria, le stirpi indoeuropee dell’ascia, del ghiaccio, della luce e del fuoco confermarono attraverso il sensibile evento del Solstizio la loro appartenenza alla principale patria spirituale e razziale dell’universo ariano delle origini. Per diretta conseguenza i valori fondati sull’èthnos, sull’èthos e sul ghenos, costituiranno le linee di vetta sovraordinanti la loro concezione del mondo e dell’esistenza umana e sovraumana. Fu la loro profondità sacrale e spirituale a conferire alla ricorrenza solstiziale il suo carattere di luce perenne e di rinascita della vita. Nella culminazione estiva del Solstizio il disco solare manifesta l’acme del suo trionfo sulle tenebre, annunciando allo stesso tempo anche l’inizio del suo inarrestabile declino, della sua depressione ciclica, quindi il rischio di sprofondare nell’abisso, di esserne inghiottito per non dover ricomparire mai più. L’astro solare invece risale di nuovo verso la volta celeste tornando orgogliosamente invitto a risplendere, confermando il suo essere manifestazione di un immutabile ordine della vita. La sua conferma di «eterno» ritorno, nel rispetto di eterne e immutabili leggi cosmiche. La consapevolezza dell’importanza dell’avvenimento cosmico del Solstizio d’inverno era quindi ben presente fin dalla preistoria in ogni latitudine e longitudine dell’emisfero di matrice indoeuropea; tanto da essere celebrato solennemente dai nostri antenati. Costruzioni megalitiche e incisioni rupestri ne conservano ancora la memoria, incuranti del trascorrere dei millenni. Dai fiordi della Scandinavia alle foreste di Teutoburgo, dalle rive meridionali e orientali del Baltico fino ai territori occidentali del Caucaso, per scendere fino all’India dei Veda nel Punjab, per poi giungere nel cuore della Grecia arcaica e dorica, e infine a Roma, i fuochi solstiziali illuminavano la notte accompagnando il cammino del Sole nella sua simbolica morte mistica e nella sua rinascita altrettanto mistica e evocativa. Ovunque i medesimi riferimenti, spesso gli stessi gesti e le stesse parole, di certo lo stesso spirito. Governavano le leggi visibili e le norme invisibili presenti nel foro interiore di una razza specifica, di un Urvolk originario dal cui seme tutto nacque.

Manifestazioni di una aderenza tramandata nei millenni, di una molteplicità del tutto, all’interno della quale l’intera natura, il mondo vegetale e quello animale, i viventi che i non viventi, erano parte organica di una armoniosa composizione. Questa arcaica e omogenea complementarietà si fondava su di una precisa narrazione mitopoietica di tipo ancestrale, sulla rivelazione di una inequivocabile interrelazione esistente tra l’universo dei vivi e quello dei morti e su di una prospettiva metafisica legata all’inevitabile e continua manifestazione dell’eredità spirituale e biologica degli antenati attraverso il corpo e il sangue delle generazioni. La viva percezione dell’esistenza primordiale di un nobile «plasma degli antenati», considerato specifico e prezioso in quanto depositario della pura memoria dell’Urvolk dei padri, costituì presso gli antichi la conferma della verità presente nella concatenazione che legava indissolubilmente le varie generazioni tra loro, fino a quelle viventi, fino a quelle che dovevano ancora venire al mondo. Nel loro «buon sangue» e nelle loro anime sarebbero continuate a vivere e a manifestarsi eternamente le virtù, i moniti e i dettami degli ascendenti indoeuropei. Scoprire allora che il sangue era il vettore di un senso ordinato della vita, di vocazioni spirituali e di ritmi spirituali propri della legge della vibrazione universale che pervade la sinfonia del Kòsmos. Lo stesso significato è presente nelle parole di Nietzsche: «Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno scrive col sangue. Scrivi col sangue e allora imparerai che il sangue è spirito.»

Attraverso una trasmissione originaria, lineare e coerente e con una rigorosa protezione della discendenza si sarebbe così garantita la comunione spirituale e materiale del tempo presente con il passato e con il futuro. Affinché il «volto» interiore ed esteriore dei figli riflettesse sempre quello dei padri, nella cura dell’ininterrotta catena generazionale del popolo e nell’osservanza degli insegnamenti divini. Il non adempiere a tali condizioni sarebbe stato considerato empio per la stirpe e ancor più oltraggioso per le divinità celesti. Recitava così una antica formula rivolta alle giovani coppie al momento della loro unione: «Attraverso i vostri cuori e sopra la vostra testa, gli antenati morti tendono la mano a quelli che non sono ancora nati.»

Le genti iperboree del carro solare porteranno inoltre nella loro lunga marcia anche figure caricate di forza e di solarità riflettenti la natura e il mondo animale. Ricordi e immagini di terre lontane che riportarono nei loro manufatti e che resteranno impresse nel tempo come indelebili riferimenti nella memoria delle stirpi e tramandate nell’immaginario culturale popolare e nel suo folklore. Come l’abete, la quercia e la betulla; il lupo e l’orso; il cinghiale, il cervo, la lontra e il cavallo; l’aquila e il cigno. Inviolabili alberi sacri, animali totemici, ierofanie, simbologie rotanti e sacri recinti solstiziali dove i fuochi si levavano alti verso il cielo. Uno speciale cameratismo spirituale li unì agli elementi e alle manifestazioni di un ordine naturale delle cose, percepiti come veicoli di collegamento e di compenetrazione tra il mondo sensibile e quello sovrasensibile. All’interno di questa configurazione cosmogonica si affermò la potenza della ruota solare che tutto comprendeva, intesa sia nel senso fisico e tangibile come in quello metafisico e nascosto, quindi il riconoscimento della parentela del sangue, da cui derivavano il diritto del sangue e il diritto del suolo, della giusta progenie generata da una comune sorgente razziale e spirituale, giungendo così all’identificazione di un unico patrimonio culturale e simbolico comune per tutti i popoli europei. Lo stesso sangue e una identica anima generano sempre identici simboli e identici richiami. Come è sempre stato.

L’identità specifica di un dato popolo nel riconoscimento della sua appartenenza ad un antico retaggio. L’identica sostanza razziale produce un certo spirito e una certa cultura, una certa omogeneità nella memoria storica e nella continuità, dagli ascendenti ai discendenti, di quegli assiomi regolatori della vita, nei riferimenti, nei caratteri e nei temperamenti innervanti la forma biopolitica e comunitaria di un popolo. Essere pienamente un «popolo» implica pertanto dei riconoscimenti sostanziali, imprescindibili, e il poter vivere compiutamente nella salda comunione organica del corporale con lo spirituale, del biologico con il culturale, del politico con il sociale. La ferrea aderenza a questo campo valoriale ha sempre trovato nell’evento solstiziale la sua ciclica perpetuazione e la sua conferma. Una conferma necessaria da rinnovare a ogni Solstizio, andando oltre e contro le barriere del tempo e degli uomini, procedendo con la certezza di un sonnambulo.

 

Maurizio Rossi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *