I rifornimenti per le truppe venivano portati in alta quota da colonne di alpini, ma pochi sanno che vi furono donne che, con grandi sacrifici e rischiando la vita, portavano i rifornimenti dalla valle fino alle montagne.
E’ la storia delle portatrici carniche, che si colloca tra l’Agosto del 1915 e l’Ottobre del 1917. La forza media dei soldati presenti in questi territori si aggirava intorno ai 10-12 mila uomini. Essi dovevano essere vettovagliati ogni giorno, riforniti di munizioni, medicinali, attrezzi e così via. I depositi militari e i magazzini erano dislocati nel fondovalle e non c’erano strade per salire che consentissero il transito di automezzi, né di carri trainati da animali. L’unico modo per raggiungere la prima linea del fronte, in alta montagna, era il trasporto a spalla seguendo stretti percorsi fatti di scomodi e pericolosi sentieri.
Furono le abitanti del posto a correre in aiuto dei loro militari impegnati in alta quota e nacquero le portatrici Carniche, così venne costituito un Corpo di ausiliarie formato da donne di età compresa tra i 15 e i 60 anni. Una forza pari a quella di un battaglione di circa 1000 soldati, che non fu mai militarizzata. Per le donne il lavoro non fu disciplinato dalle leggi, né furono mai soggette alle regole militari, ma l’ordine,il rigore, la severità che si imponevano durante le marce fu un raro esempio di ammirevole servizio.
A ogni donna veniva consegnato un libretto di lavoro personale, sul quale ai magazzini di smistamento annotavano le presenze, i viaggi compiuti, il materiale trasportato in ogni viaggio, inoltre indossavano un bracciale rosso recante lo stesso numero del libretto e l’indicazione dell’unità militare per la quale lavoravano. Per ogni viaggio ricevevano il compenso di lire 1,50 centesimi, che veniva corrisposto ogni fine mese.
La mattina si recavano a riempire la loro gerla caricata sulle spalle, poi partivano in colonna e si inerpicavano sulle montagne dirigendosi per gruppi, verso la prima linea. Affrontavano ogni giorno estenuanti marce in salita di due o anche quattro ore, superando dislivelli che andavano dai 600 ai 1200 metri. Scarsamente nutrite, sopportavano i sacrifici della guerra, il pensiero dei mariti o dei figli impegnati a combattere e arrivavano a destinazione stremate dalla fatica, un viaggio che diventava quasi insostenibile durante la stagione invernale, quando camminare richiedeva maggiore energia a causa della neve alta che impediva loro il passo. Scaricato il materiale, si fermavano qualche minuto per riprendere fiato, approfittando per parlare con gli alpini raggiunti, per consegnare loro lettere e notizie dal paese, per riportare biancheria pulita, fresca di bucato, tutti lavori extra, mai retribuiti, fatti per rendersi utili ai soldati e poi ripartivano più contente, col sorriso sulle labbra, certe di aver donato a quei giovani la speranza di non sentirsi abbandonati. Si incamminavano in discesa, per ritornare alle loro case, ai lavori di campagna, ad accudire animali, vecchi e bambini, di cui erano le sole rimaste ad avere totale responsabilità. Un lavoro continuo fino a sera e poi una nuova alba e un nuovo viaggio.
Voglio, in breve, ricordare il fulgido esempio di una di loro, Maria Plozner Mentil, che fu colpita a morte il 15 febbraio 1916. Era una donna dall’animo nobile e gentile coraggiosa e altruista. Sempre pronta a confortare le compagne impaurite dall’artiglieria austriaca, ogni giorno in prima fila, una donna eccezionale, carismatica trascinatrice, che viene considerata la “bandiera “ delle portatrici carniche. Madre di quattro figli piccoli, mentre il marito combatteva sul Carso, si dedicava alla causa con amor patrio e spirito di sacrificio. Quando venne colpita da un cecchino austriaco appostato a circa 300 metri, a Malpasso di Pramosio, sopra Timau, aveva solo trentadue anni.
Ebbe un funerale con gli onori militari e a piangere Maria Plozner, quel giorno, c’erano non solo i paesani e i militari della zona, ma tutte le amiche con la gerla sulle spalle.
Franca Poli
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