Cultura della competizione, ricchezza materiale, culto dell’apparire, liquefazione valoriale, identitaria e delle tradizioni, mito della tecnologia, materialismo, individualismo, sono gli ingredienti principali della ricetta alchemica che impedisce l’avvento del potere luminoso degli uomini e mantiene la pece nera dell’inferno in terra.
Chi ha doti le esprime. Chi ha la forza, bisogni e circostanza permettendo, la usa. E così accade per i poteri, quello della grazia incluso. Chi si mantiene sottomesso favorisce chi lo sottomette. Chi non sa esprimere la propria condizione tace o aggiunge frustrazione per il senso di inadeguatezza che vive. Chi non sa esprimere il proprio sentimento e stato intimo si riempie di tensioni. Queste possono essere sfogate o trattenute in funzione della loro pressione e del gradiente di super-ego disponibile. Forti pressioni possono restare inibite fino a castrarne l’esplosione, e pressioni meno intense possono scoppiare violentemente quando nessun valore morale le contiene più o quando non possono più contenerle.
Come ogni altra condizione umana, la cosiddetta pazzia corrisponde a un’emozione, cioè a una capsula, che ci contiene, che ci impone pensieri, concezioni, realizzazioni. Ogni emozione è figurabile come un campo chiuso in cui ci muoviamo, scegliamo e giudichiamo secondo norme autoreferenziali alle quali pretendiamo, spesso inconsapevolmente, che gli altri si adeguino.
Tanto più l’emozione è intensa, tanto più la capsula assume le sembianze di una gabbia in cui la forza egogravitazionale spegne le luci che permettevano relazioni equilibrate, l’empatia, l’accettazione della realtà, il rispetto dell’altro, la reciprocità di azione, pensieri, sentimenti e di dignità.
Cadere nel buco nero di simili emozioni tende ad essere più o meno possibile in funzione dell’equilibrio della persona. Tanto più un individuo è compiuto, tanto più basso sarà il rischio di gravi inciampi. Viceversa, un essere umano inconsapevole delle proprie caratteristiche, debolezze e forze, tende a essere più esposto ad inconvenienti esistenziali. A essere facile preda del tiranno emozionale. E a pensare e muoversi secondo il volere di quest’ultimo con il quale è identificato e che crede essere se stesso.
Una cultura fondata sulla competizione, che fa della ricchezza materiale il suo scopo, mescolata ai modelli dell’apparire e ai valori individualistici che esprime, non ha in sé il necessario, né l’interesse teorico a alimentare e proteggere valori tradizionali, a pensare politiche destinate a formare uomini compiuti e quindi relative società.
La scuola, bene che vada, aveva potuto spargere il seme e trasmettere il valore del senso critico. Ma era bastato il “sei politico” per iniziarne la demolizione, che ha poi trascinato con sé una serie di altri cambiamenti che sono convogliati nel grande mare della società liquida. Un bacino oceanico in cui si è politicamente voluto affogare il valore delle tradizioni, dei ruoli, dei sessi, della famiglia, della madre e del padre. È il grande oceano del progressismo (lo stesso in cui galleggia, in balia di burrasche soffiate da lontano, anche il relitto del conservatorismo).
Lo spessore di mota rimasto sulle rive è una poltiglia di valori vagolanti, in cui le identità hanno improbabilità a radicarsi. In cui l’educazione alla consapevolezza delle emozioni, dei sentimenti, del nostro sé e della via per coltivare l’invulnerabilità sono stati spinti in profondità, affinché la digitalizzazione, il mito della tecnologia e l’individualismo potessero avere una base su cui erigere i propri ponti dorati per non insozzarsi.
Chi è più debole, come in ogni buon totalitarismo è ipocritamente protetto, ma sostanzialmente condannato. La morale bigotta è un pesce vorace che nuota in grandi branchi in quell’oceano, in cui non in un solo atollo si coltiva il frutto della conoscenza, il solo in grado di mostrarci come emanciparci dalle dipendenze, di dirci quanto queste ci segnalino a che punto sia la nostra evoluzione, ci informino che l’orgoglio ha un lato b di cui nessuno ci aveva detto nulla. Quello capace di trascinarci in basso, dove le avversità e le vulnerabilità ci divorano l’energia e la creatività, ci spingono le malattie egli incidenti e ci tengono a distanza dalla consapevolezza e che solo nell’assunzione di responsabilità di tutto, abbiamo la chiave per uscire dalla gabbia delle emozioni.
Ma era già stato detto da Sigmund (1). Avere contezza del principio di realtà e di piacere è necessario all’uomo compiuto. E anche il suo cugino Zygmunt (2), ci ha poi avvertiti su quanto questo uomo non possa più avere di che costituirsi.
Note
1 – Freud
2 – Bauman
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