9 Ottobre 2024
Cultura Sapienza Spiritualità

Spirito e libertà – Livio Cadè

“Non ci si faccia distrarre dalle dottrine e dai libri, nessun potere spirituale può venire da essi”.

La Summa Theologiae, cattedrale del pensiero medievale, fu mutata in paglia (“mihi videtur ut palea”) per ammissione dello stesso san Tommaso, che ne era stato architetto e muratore. La biblioteca di Mircea Eliade, immenso tesoro di libri, note, appunti eruditi, fu invece ridotta in cenere. Quando la ragione costruisce pazientemente i suoi castelli di sabbia, può sempre temere che lo Spirito, come un’onda, glieli distrugga.

Lo Spirito è la presenza elusiva e impalpabile che avvolge la nostra vita. Caligine luminosa, silenzio che arcanamente insegna, direbbe Dionigi. Impossibile trarlo fuori da tale mistero e darne una definizione. Non è la cosiddetta cultura ‘spirituale’ con cui spesso viene confuso. Non è lo Zeitgeist o l’esprit. La differenza tra Spirito e cultura o acume intellettuale è abissale. Lo Spirito è “scandalo per i giudei e follia per i pagani”, ovvero non obbedisce a codici morali o a ordini razionali. L’etica e la ragione sono chiuse nei loro modelli, lo Spirito “soffia dove vuole”.

Non è una costruzione teorica, fondata su argomenti. Non elabora nulla, non dimostra nulla, non procede per sillogismi, mediante una costruzione progressiva di senso. Nello Spirito la realtà è colta tutta intera, come un paesaggio visto dall’alto. È qualcosa evidente di per sé, che non dipende da nulla. Se la cultura capitalizza le conoscenze, lo Spirito predilige una povertà essenziale. Non mostra una quantità di ragione ma sempre il suo zero, o il suo infinito.  Non il socratico “sapere di non sapere”, che è ancora una sottile arroganza della ragione, ma una dotta ignoranza, il non sapere di sapere. Come dice una Upanishad:

Chi crede di non conoscerlo, lo conosce; chi crede di conoscerlo, non lo conosce; è ritenuto incomprensibile da chi lo conosce e come perfettamente compreso da chi non lo conosce”.

Si può capire lo Spirito solo non comprendendolo. Ma la ragione non accetta le contraddizioni in cui la vita stessa le sembra inciampare, incapace di procedere oltre. Al contrario, tutto nello Spirito si contraddice e vive di antinomie. Per questo il mistico parla per ossimori e “le parole vere appaiono paradossali”.

Lo Spirito rivoluziona il pensiero, non aggiornandolo con nuovi paradigmi, come accade nella scienza, o sottoponendo a riesame critico il passato, com’è della filosofia o della storia. Lo Spirito non migliora la mente e non la spinge verso qualche immaginaria evoluzione. La sommerge, la divora, la carica di un peso insostenibile. Perciò la cultura si difende dallo Spirito, cerca di addomesticarlo e di piegarlo ai modi del sapere razionale.

Confucio e Laozi rappresentano l’essenza del conflitto tra cultura e Spirito. Uno si preoccupa di formalizzare i pensieri e i comportamenti sociali attraverso un sistema di regole e di codici. L’altro chiede di “abbandonare l’intelligenza, rigettare il sapere … rifiutare la benevolenza, dimenticare la rettitudine”, vedendo nella cultura un artificio incompatibile con la spontaneità naturale dello Spirito.

Chi si dedica allo studio, ogni giorno aumenta.

Chi si dedica al Tao (allo Spirito), ogni giorno diminuisce”.

La forma mentis del confucianesimo sembra incarnarsi nel fondamento storico degli Stati, nelle burocrazie morali e intellettuali e nelle strutture di potere. Nel laozismo trovano rifugio i fermenti anarchici di una élite spirituale.

Lo stesso cristianesimo mostra le cicatrici di uno scontro tra Spirito e cultura. Nato come scandalo per la morale e follia per la ragione, si è presto murato in un enorme apparato moralistico e razionalistico. Ha ripristinato i vecchi formalismi farisaici, con la loro pruderie ipocrita. Abbandonata la semplice fede, si è impaludato in speculazioni teologiche. Ogni tradizione religiosa tende del resto a revocare il miracolo dello Spirito, di modo che il suo vino ritorni acqua, diventi cioè erudizione scolastica o legalismo morale. L’inesausta motilità dello Spirito si  trasforma così nel letteralismo paralizzante di una cultura che si affida solo alla memoria e alle parole.

Anche le scienze e le discipline umanistiche, mostrando la ragione come criterio assoluto di giudizio, si pongono come antitesi dello Spirito. Lo analizzano come fenomeno meramente storico e umano. Oppure lo confinano nel regno delle illusioni, Genio della lampada da evocare furtivamente per soddisfare desideri impossibili. La cultura moderna tollera ogni credenza spirituale come permette ai bambini di credere alle favole o agli adulti di avere innocue superstizioni. Non conosce il nudo realismo dello Spirito. È lo Spirito a vegliare mentre la ragione dorme immersa nei suoi sogni.

D’altro canto, ogni discorso sullo Spirito utilizza le forme della ragione e pare quindi condannato a un giro vizioso. Laozi, accingendosi a parlare del Tao, ci avverte che non se ne può parlare. Tale contraddizione è però solo apparente. Lo Spirito, essendo totalità onnicomprensiva, include e trascende tanto lo ‘spirituale’ quanto il ‘non-spirituale’. Niente può illuminarlo, essendo lui stesso la luce. È lo Spirito che si auto-rivela nel silenzio o nelle parole. E quando la sua pienezza irrompe nell’io ne provoca l’auto-trascendimento, ossia una profonda trasformazione ‘noetica’. Ciò non corrisponde alla comprensione o alla soluzione logica di un problema, o a un chiarimento storico di fatti determinati, ma a una dissoluzione e rifusione della coscienza.

Ogni attività intellettuale che non conduca a una conversione degli elementi psichici e vitali ma si limiti all’acquisizione di concetti, è perciò una distrazione futile o un’insidia. Perché non cogliere il limite intrinseco di ogni discorso fa cadere nella trappola di uno spiritualismo razionalista, pretesa di risalire dalla ragione allo Spirito mediante la moltiplicazione di formule e simboli linguistici. La parola si riduce a un’ombra senza corpo, ovvero, invertendo l’ordine naturale, si pone la foce a monte e la sorgente a valle; si elaborano forme significanti senza conoscere il significato. Lo Spirito diviene il riflesso di una società in cui la realtà è surrogata dalla sua rappresentazione. [1].

In questa torsione razionalista, lo Spirito viene ridotto a prontuario etico-metafisico o a manuale di congetture teosofiche. Nella prassi religiosa prende i toni del pietismo sdolcinato o del dogmatismo intollerante. In filosofia diventa intellettualismo verboso. Fino a indossare, nella sua degenerazione più grottesca, gli abiti di una borghesia politica e amministrativa: apologia democratica, difesa della moralità, burocrazia della carità, caricatura di principi evangelici.

Costretti a definirlo, si potrebbe dire che lo Spirito è libertà. O che è legge a sè stesso. Per questo Abhinavagupta, scolarca tantrico, critica il Sat-Chit-Ananda della teologia brahmanica, rappresentazione della Realtà come Essere-Coscienza-Beatitudine. Queste tre, per Abhinavagupta, sono ancora categorie della ragione, che forzano lo Spirito in oggetti di pensiero determinati, dimenticando la vera natura di Shiva, che è Libertà.

Lo Spirito non rinchiude l’uomo in una categoria di significati o di valori, non gli impone dottrine o saperi. La sua Legge è di non concepire altro destino oltre quello che l’essere liberamente si crea. La ragione è invece uno strumento di dominio e di controllo. Interpreta la realtà non come autonoma creazione dello Spirito ma come serie di nessi causali, di dipendenze logiche e storiche. Perciò una società razionale trova sempre validi argomenti per giustificare la divisione in oppressi e oppressori, servi e padroni. E anche quando difende la libertà, le pone condizioni prestabilite. Se propone una teoria o una pratica della liberazione, sarà sempre per arrivare a una libertà vigilata dalla ragione e dalle sue leggi.

Nella sua libertà, lo Spirito evoca invece uno spazio infinito, un abisso da cui fluisce misteriosamente la vita. San Tommaso vi fu risucchiato, come in un vortice in cui la sua immensa cultura affondò e morì. Quello che morì poco dopo fu solo il suo involucro vuoto. Anche Eliade sopravvisse solo pochi mesi all’incendio che distrusse il suo ufficio. Così, alla fine, lo Spirito dissolve le forme dell’io empirico, ne contraddice l’identificazione con un processo di crescita e di arricchimento incessante. Per questo la società capitalista nega lo Spirito ed evacua il senso profondo della morte.

La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire. Il saper morire ci libera da ogni sudditanza e costrizione.

Proprio perché questa società non osa più pensare la libertà, neppure può pensare la morte. E poiché l’uomo deve imparare a servire, ha disimparato a morire.

 

 

NOTE

 

[1] Chi volesse capire la natura di tale abbaglio dovrebbe leggere “Un terribile esperimento” di Achille Campanile. L’esperimento in questione vorrebbe indagare gli stati d’animo che un uomo condotto alla ghigliottina prova negli istanti che precedono l’esecuzione. All’uopo si incarica un attore di recitare la parte del condannato e gli si chiede di descrivere le sue emozioni. Ma tutto è semplicemente simulato, anche l’arrivo insperato della grazia. E il finto-morituro, nello stupore generale, non prova alcun turbamento.

2 Comments

  • Emilo Mordini 2 Settembre 2020

    C’è tuttavia una certa ironia nel fatto che coloro che scrivono sull’indicibilità dello spirito e la teologia negativa, vi dedicano volumi su volumi. L’ho sempre trovata una cosa molto divertente.

    • Livio Cadè 3 Settembre 2020

      “Se del Tao non si può parlare, perché Laozi ha scritto 5.000 parole?” È una classica obiezione: il discorso apofatico non si contraddice da sé? Ne ho accennato anch’io qui sopra. Lo Spirito manifesta nelle parole la propria indicibilità. Del resto, l’amore è ineffabile, ma vogliamo impedire ai poeti e agli scrittori di parlarne? La bellezza dell’arte è proprio nel suo sforzo di esprimere l’inesprimibile. Anche il blu della notte o il mal di denti sono ineffabili, ma chi ne ha fatto esperienza capisce di cosa parliamo.

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