Nacque il 21 dicembre 1879, solstizio d’inverno, a Gori, un desolato villaggio della caucasica Georgia, e subito le sue origini sfumarono nel mito. Al proposito si sono evocate persino lontane similitudini con antichi personaggi legati alle guerre giudaiche condotte contro Roma sotto Adriano. Oppure con leggendari ribelli in lotta coi cosacchi del Don. Chi lo dice figlio di un prelato, chi di un esploratore, chi invece mormora sia frutto di una “liaison dangereuse” della madre, Ekaterina Geladze, con un conte. Insomma, In quel giorno si festeggia il sole che, terminata la parabola discendente, comincia di nuovo il lento viaggio di risalita sulla linea dell’orizzonte e a volte il destino può anche essere, se non determinato, di certo influenzato da questi, chiamiamoli così…”fausti” presagi. Fatto è che “da grande” l’uomo di Gori sarebbe stato osannato come il “Sole dei popoli”. Insomma, anche la Russia ha avuto il suo “Roi Soleil”. Ma la luce che per un trentennio circa avrebbe illuminato quello smisurato, invivibile pachiderma situato a cavallo del Circolo Polare Artico ebbe le fosche tonalità vermiglie del sangue. Il sangue di milioni di poveracci che, loro malgrado, sarebbero finiti con l’essere stritolati nell’infernale tritacarne della falcemartello. E, Josif Vissarionovich Dzugasvili, soprannominato “Stalin” (“uomo di ferro”), proprio come un’affilatissima spada d’acciaio, insieme ai suoi compagni di lotta, i “bolscevichi”, avrebbe reciso senza pietà, con un taglio netto, il collo alla millenaria Russia zarista, completando l’opera iniziata nel lontano 1917 dal suo predecessore, Vladimir Ilic Ulianov, detto “Lenin”. E pensare che Josif Vissarionovich da ragazzo prometteva bene. Infatti amava molto leggere, e a scuola divenne subito il primo della classe. Il suo talento gli spalancò presto le porte del seminario di Tbilisi, dove studiò in un convitto superando difficoltà di ogni genere. Tanto per cominciare, lui, georgiano doc, dovette obtorto collo imparare a leggere e parlare correntemente in russo. L’ambiente poi…i ragazzi erano malnutriti e maltrattati, ammassati in trenta per volta negli angusti, sporchi dormitori, continuamente sorvegliati in un’atmosfera cupa, spiati da monaci-aguzzini pronti a frugare nelle loro tasche e a denunciare anche la minima infrazione. Ma lui non fece una grinza e il suo impegno risultò tale da essere mandato in premio a Roma a studiare dai gesuiti. Approdò pure ad Ancona, dove trovò lavoro come portiere di notte nell’albergo “Roma e Pace”. Poi fece tappa a Venezia intenzionato a fare il campanaro. Tornato in patria, cantò persino nel coro della chiesa.
Ma qualcosa nella sua vita deve essere andato storto (o dritto, a seconda dei punti di vista…), tanto da indurlo a intraprendere la carriera politica. Un’attività che a quell’epoca in Russia era sinonimo di sovversione e clandestinità. Cosa che lo portò anche a percorrere i sentieri del banditismo. E fu così che in quelle famose dieci giornate che nell’ottobre 1917 scossero un mondo già di per sé sconvolto dalla Grande Guerra, un gruppo di sognatori assai determinati, guidati dall’ideologo Lenin, strapparono la Russia dal suo secolare sonno di torpore e arretratezza proiettandola bruscamente nei turbine del “secolo breve”. Un secolo breve ma feroce come solo la storia sa esserlo quando ci si mette. Morto Lenin, nel fatidico 1939, il “Sole dei popoli”, ritenuto da molti anche la reincarnazione di Aleksandr Nevskij e Dimitri Donskoij, si strinse in un promettente abbraccio con l’“altro Sole”, lo “Schwarzesonne”, il “Sole Nero” della croce uncinata. Un’alleanza mirata a fronteggiare le armate delle plutocrazie usuraie internazionali, avide di risorse, di commerci e guadagni a discapito dell’umanità.
A simboleggiare l’autentico significato di quella provvidenziale alleanza fu la breve frase pronunciata dal dittatore georgiano il 29 novembre 1939, appena giunta l’eco delle prime raffiche di mitra del secondo conflitto mondiale: <Non è stata la Germania ad attaccare la Francia e l’Inghilterra. Sono state l’Inghilterra e la Francia ad attaccare la Germania>. Poteva essere l’alba di una nuova era per il genere umano. L’annuncio di un radioso futuro per i popoli della terra. La promessa di tempi di splendore e di grandezza per la nostra Europa e per il mondo tutto. Un mondo finalmente libero dal tarlo dell’usura e dello sfruttamento. Si sa come andò a finire. Il risveglio fu brusco e traumatico. Il Sole Nero tradì, si lanciò improvvidamente all’attacco del Sole Rosso, determinando l’autoannientamento. Per l’URSS fu la “Sveshennaya Vojna” (“guerra santa”). Per la Germania fu un tragico errore e per l’Europa intera l’inizio della fine. Una fine segnata dal vittorioso sferragliare dei cingoli dell’eresia materialista sulle fumanti rovine della Cancelleria dei Reich.
Vincenzo Cialini, nel suo pregevole “Stalin per mille anni”, fa il verso al Degrelle di “Hitler per mille anni”. Egli nel suo agile e sintetico ciclostilato prefato da Mario Michele Merlino ha tracciato una versione alquanto insolita del feroce boss dell’Unione Sovietica. Una versione, diciamo così, inaspettatamente umana e contrassegnata da sorprendenti empiti religiosi e devozionali frutto di uno smisurato amore per la sua Grande Madre Russia. Un amore che, con Mosca assediata e in procinto di cadere preda delle armate naziste, indusse lui, feroce sterminapreti, a chiedere l’intercessione della madonna di Kazan, mandando un aereo con la sua venerabile immagine a sorvolare la città in pericolo. Nel suo ritratto però, seppur lodevole e pieno di inedite e preziose informazioni, Cialini sorvola sulle stragi indiscriminate dei kulaki, sulle deportazioni di interi popoli, sui Gulag del Magadan e della Kolyma, sull’inumano esperimento di Nazino, sulla feroce soppressione del movimento anarchico della Machnovscina, sull’Holodomor ucraino e sulla grande carestia degli anni Trenta. Ne viene fuori il cammeo di un uomo che, pur tra i tanti errori e le efferatezze commesse ma taciute nel libro in esame, per arrivare a fare qualcosa di buono ha dovuto lottare con le unghie e con i denti. In primo luogo contro il più acerrimo nemico della Russia, che a quanto è dato capire dall’opera di Cialini non erano gli zar, bensì l’ebraismo internazionale e la finanza mondiale ad esso asservita. Poiché se è vero che la pistola fumante che ha inferto il colpo mortale all’Impero zarista era in mano a Lenin, ebreo da parte di madre, ed ai suoi bolscevichi, il complotto che ha preparato l’evento era stato finanziato dai banchieri israeliti Kuhn Loeb & Co, da Jacob Schiff, da Max Breitung, e Guggenheim. La base organizzativa del colpo di stato invece fu fornita da un altro “genio del male”, un avanzo da galera e giudeo pure lui, rispondente al nome di Levi Davidovich Bronstein, “russizzato” in Trozkij.
Menscevico nel primo atto della rivoluzione, Trozkij, col classico salto della quaglia, passò disinvoltamente tra le fila dei bolscevichi e da quel momento in poi per la Russia millenaria non ci fu scampo. Ma – perfida eterogenesi dei fini! – non ci fu più scampo neppure per Trozkij (colpito a martellate dal suo giardiniere a Città del Messico) né per i sanguinari “gerarchi” rossi che avevano danzato sui poveri resti martoriati di Ekaterinburg. I più noti li conosciamo: Kamenev (Rosenfeld), Zinoviev (Apfelbaum), Martov (Zederbaum ), Dan (Gurevich), Axelrod (Orthodox). Anch’essi, caso strano, tutti ebrei, e tutti, poco per volta, fatti fuori da quel gran figlio di buona donna che Cialini nel suo lavoro ci fa diventare quasi simpatico. Il primo ad essere asfaltato fu Trozkij, che, manco a dirlo, “allergico” ad ogni idea di Patria e di Nazione, intendeva diffondere la rivoluzione bolscevica nel mondo intero, teorizzando una sorta di “pancomunismo” work in progress.
Una cosa assolutamente inconcepibile per un rude caucasico, recalcitrante all’idea di annacquare la purezza rivoluzionaria con poco graditi “esotismi” occidentaleggianti ed incline piuttosto verso una sorta di “panslavismo” genuinamente russo. Cosa che al coriaceo georgiano riuscì in pieno. Tanto che da quel giorno in poi gli ebrei sarebbero stati banditi da Mosca e relegati in un’apposita area riservata esclusivamente a loro. Era nata la Repubblica degli Ebrei, con capitale Birobidzan. Una piatta porzione di taiga relegata a un tiro di schioppo da Vladivostok. Più o meno una succursale della Siberia. Naturalmente il sionismo se la legò al dito e in quel giorno fatale del 5 marzo 1953, l’uomo di Gori, vittima di un ictus, fu lasciato per ore agonizzante sul pavimento del suo studio, assassinato, si ipotizza, da un’eccessiva dose di Warfarin, potente farmaco anticoagulante. Erano gli effetti della celebre “congiura dei medici”. Ebrei pure loro naturalmente…
Il resto è anch’esso storia, ormai. Il nuovo boss del Cremlino, Krusciov, per rendersi presentabile, denunciò il tiranno georgiano davanti all’opinione pubblica mondiale addossandogli tutte le atrocità possibili e immaginabili. Tuttavia l’Unione Sovietica, ormai assurta al ruolo di potenza atomica ma preda dei Piani Quinquennali e della miseria generalizzata, non divenne certo il paradiso in terra. Anzi. La patria di Nicola e Alessandra si chiuse ulteriormente a bozzolo su se stessa alzando, tra lei e il mondo, muri e campi minati, creandosi – altro paradosso della storia – un “Contro-Lebensraum” verso il suo versante ovest. Ne fecero le spese per primi gli ungheresi nel 1956 e poi i berlinesi nel 1961 e Praga nel 1968. Il tiranno era morto ma il sole non sorgeva più ad est.
Angelo Spaziano