Da sempre certo cinema americano porta avanti con impegno la sua missione di svilimento del fenomeno ufologico, propinando risibili pellicole in cui gli extraterrestri vengono descritti, spesso e volentieri, come null’altro che un nemico da combattere. Pericolosi e facinorosi mostri orripilanti che non avrebbero nessun intento pacifico da rivolgere alla nostra specie evoluta, oltre al fatto di volerla annientare a tutti i costi o al massimo soggiogarla o schiavizzarla (vedi, per esempio, il più recente A Quiet Place). Anche Arrival, del bravissimo Denis Villeneuve (che dopo Blade Runner 2049, opera eccelsa, checché ne dicano i “colti”, si è guadagnato la regia del remake di Dune, previsto per il 2020), non si esime dal concedere fattezze detestabili ai suoi visitatori alieni, anche se, data l’invidiabile scrupolosità dei suoi contenuti, il film si pone senz’altro fra i vertici cinematografici sul tema degli ultimi quindici-vent’anni. Fuori dal contesto della finzione, invece, tralasciando le moltitudini di video fake su alieni e compagnia che impiastrano ormai da anni la rete, sono sempre più in aumento i soggetti a cui capita di avvistare, da più parti nel mondo, strane “sfere” dal bagliore intenso (a volte descritte di colore bianco, altre volte blu, rosse o anche gialle), colte nell’atto di emettere manovre assurde nei cieli terrestri senza tuttavia produrre alcun tipo di suono.
Dunque, è la mattina di venerdì 16 settembre 1994. Ci troviamo nell’ambiente rurale di Ruwa, piccolo centro abitato a 22 chilometri dalla capitale dello Zimbabwe, Harare. Sono circa le 10.15, e le diverse decine di studenti della scuola privata Ariel, di un età compresa fra i 6 e gli 11 anni circa, stanno consumando la loro ricreazione scorrazzando nei campi che si estendono all’esterno dell’istituto quando, inaspettatamente, accade qualcosa. Molti di essi, in seguito, non sapranno attribuire all’evento una durata precisa. Alcuni riferiranno di aver provato una sensazione indescrivibile, come se la realtà avesse subìto un rallentamento improvviso. “Il mio cuore ha cominciato a battere veloce, poi ha rallentato di colpo, poi ha ricominciato ad andare spedito, e così via”, dirà una bambina dalla pelle chiarissima e dai capelli biondi. In alto, nel cielo, notano delle “palle argentate” che emettono degli strani flash. (Diversi abitanti del luogo riferiranno di aver avvistato le stesse cose nei due giorni precedenti a quel 16 di settembre.) Un istante dopo, uno di questi tre oggetti viene visto depositarsi lentamente in un’area in disuso ricolma di boscaglia, il cui accesso è negato agli studenti per la presenza, pare, di ragni e di serpenti velenosi . Colti da una strana eccitazione, i bambini corrono in direzione del velivolo, fermandosi a una distanza di circa 100 metri dallo stesso. Accanto o sopra di esso, notano la presenza di un soggetto di bassa statura la cui descrizione varierà a seconda dei racconti. Tutti quanti i testimoni, in ogni caso, converranno sul fatto che costui avesse un volto impossibile da ignorare. I bambini più piccoli, diversi dei quali si convincono che il soggetto di fronte a loro possa essere un tokoloshi (creatura demoniaca folkloristica mangiatrice di bambini), cominciano a scappare e a urlare in preda a un panico imponente. Alcuni degli studenti più grandi, invece, rimangono immobili, come ipnotizzati da ciò che stanno loro malgrado osservando. “Quando li ho sentiti gridare e dimenarsi in quel modo ho pensato che si fossero spaventati per qualcosa che avevano visto, ma non ero pronta a credere all’idea che questo qualcosa avesse un’origine sovrannaturale”, dirà una docente dal forte accento britannico. “Col tempo, data la consistenza dei loro racconti, ho dovuto ricredermi”. Come verrà in seguito specificato, per tutta la durata dell’avvenimento nessun membro del corpo insegnanti (né del personale della scuola) si sarebbe trovato all’esterno dell’istituto.
Nei giorni seguenti, la ricercatrice ufologica Cynthia Hind si presenta alla scuola in compagnia di un reporter della BBC. Poco prima del suo arrivo, la Hind aveva chiesto al preside della Ariel, Colin Mackie, di far disegnare ai bambini ciò che avevano visto. Quando la donna comincia a esaminare il risultato di quei lavori, si rende conto che su ognuno di quei fogli, seppur con stili e sfumature differenti, vi è approntata la stessa identica scena. È a questo punto che fa la sua comparsa il newyorchese John E. Mack, noto Professore di Harvard (nonché Premio Pulitzer) specializzato in psichiatria infantile, il quale giunge sul luogo scortato dalla collega Dominique Callimanopolus. Il compito di Mack è sostanzialmente quello di estrapolare più elementi possibili dai testimoni circa il loro incontro anomalo. Durante quei colloqui, Mack viene a conoscenza del fatto che alcuni fra loro avrebbero ricevuto dall’essere alcuni messaggi per via telepatica. “Ho pensato che il mondo stesse per finire. Forse qualcuno vuole dirci che il mondo sta per finire”, racconta con pacata magniloquenza una studentessa sui dieci anni, di carnagione scura. “Perché pensi che abbiano voluto spaventarci?” le chiede lo psichiatra. “Forse perché non ci prendiamo abbastanza cura dell’aria e del pianeta”, risponde lei. “Ma il fatto che non ci prendiamo cura dell’aria e del pianeta”, ribatte Mack, “è un qualcosa che avevi sempre pensato, oppure è un’idea che hai maturato dopo aver vissuto questa esperienza?” “Nel momento in cui ho vissuto questa esperienza”. E ancora: “Mi sono sentita orribile dentro”, dice, prima di esporre al suo interlocutore adulto la visione catastrofica tramandatale dall’essere: “Tutti gli alberi cadranno e non ci sarà più aria, e la gente morirà”. Mack, da abile esperto di psichiatria infantile quale è, in quel momento le domanda: “Avevi mai avuto pensieri simili, prima di vivere questa esperienza?” “No”, ella risponde. “E quale pensi che fosse l’origine di questi pensieri? Arrivavano dal velivolo, per esempio, oppure…” “Dall’uomo”, taglia corto la bambina. “Ma quest’uomo, come ti ha comunicato questi pensieri?” “Beh, non ha pronunciato neanche una parola. Era il suo volto, i suoi occhi…”
In un’altra testimonianza, qualcun altro riferisce di aver ricevuto un segnale secondo cui “noi umani dovremmo stare attenti a quello che facciamo”, in quanto saremmo troppo “tecnologizzati” (precisamente, a Mack viene riportato il termine “techknowledged”). Argomenti, di fatto, che sembrerebbero sposarsi decisamente meglio con l’andazzo di questi odierni anni 2010, più che con quei primi anni Novanta. Il verdetto di Mack, il quale morirà a Londra il 27 settembre del 2004, investito da un’auto pirata (o presunta tale), incoraggia di gran lunga la veridicità della storia: “Essi descrivono queste esperienze come se raccontassero con grande scioltezza qualcosa che per loro è realmente accaduto. […] La qualità dei loro discorsi, infatti, mi fa pensare che le abbiano vissute per davvero”. In particolare, poco prima di trarre la sua conclusione finale, Mack era rimasto colpito da una frase – diremmo emblematica – pronunciata da una bambina impensierita dall’idea di non essere creduta: “Giuro sulla Bibbia e su ogni singolo capello della mia testa di aver detto la verità”. Oggi quei piccoli testimoni sono diventati degli adulti. Tuttavia, l’essere cresciuti non ha fatto mutare la loro posizione riguardo a ciò che vissero quel giorno. “In tutti questi anni non ha mai smesso di parlarne”, riferisce la madre di un testimone in un estratto del docu-film di prossima uscita dedicato al caso, Ariel Phenomenon, del regista Randall Nickerson.
È dunque possibile, in conclusione, che un essere proveniente da un’altra dimensione (o da un altro pianeta o da dove ci pare) si fosse palesato per tramandare a quegli studenti – e quindi, di conseguenza, alla nostra specie – un avvertimento (e insieme un allarmante scorcio di realtà futura) sulle conseguenze disastrose delle azioni umane a scapito della Terra? Possiamo solo sperare che, qualora dovessimo mai scoprirlo, non saremo già fuori tempo massimo per salvare il salvabile.
Simone Gall