Quelli della mia generazione ricorderanno certamente il più strano personaggio dei fumetti dei nostri tempi: si chiamava Tiramolla, ed era un essere fantastico, nato da una fortuita reazione chimica fra un blocco di caucciù ed un barattolo di colla. Quel bizzarro personaggio aveva la capacità di stringersi o di allargarsi, di accorciarsi o di allungarsi, di comprimersi o di espandersi a seconda delle sue momentanee esigenze. Poteva – per esempio – rimanere comodamente seduto e allungare il suo braccio a dismisura per prendere un oggetto in un’altra stanza.
I nostri uomini di governo, ma anche prestigiosi giornalisti, celebrati economisti ed altri illustri tutori dell’opinione pubblica nazionale, avranno di sicuro letto i giornalini di Tiramolla: i più anziani nelle loro edizioni originali; i più giovani, certamente, in una delle varie riedizioni che si sono susseguite fin quasi ai nostri giorni. Non si spiega diversamente la loro abilità nel plasmare statistiche e previsioni economiche con consumata abilità, stiracchiandole senza ritegno, plasmandole, adattandole alle esigenze del momento. Il tutto per poter presentarsi alla pubblica opinione senza arrossire; anzi, sostenendo che l’azione del governo di cui tessono le lodi (o comunque del sistema politico di riferimento) sia portatrice di diffuso benessere. E, se questo benessere non è ancora evidente e palpabile, basterà attendere qualche tempo perché possa apparire in tutta la sua “grande bellezza”.
Ma, quanto lungo dovrebbe essere questo “qualche tempo”? Ecco che la profittevole lettura di “Tiramolla” prende a dispensare i suoi copiosi frutti. Aveva iniziato Mario Monti con la sua “luce in fondo al tunnel”, e Letta lo aveva seguìto a ruota, dispensando promesse di impossibile ripresa. Ma quando avremo potuto arrivare in fondo al tunnel? Nel 2012, pronosticavano i cultori di Tiramolla… traguardo allungato poi al 2013… poi ancòra al 2014… Adesso siamo alle prese con le promesse miracolose dei cento giorni di Renzi… diventati rapidamente mille giorni… ben oltre il fiabesco 2015 vaticinato da quei mattacchioni di Confindustria che tanta ingiustificata fiducia ripongono nelle funeste riforme “strutturali”.
I calendari sembrano diventati di caucciù: li allungano e li allargano a piacimento, nella speranza che prima o poi, magari per un “rimbalzo” tecnico, possa comparire l’aumento di uno 0,001% in un qualsivoglia campo o settore, in modo da poter cantare vittoria, sia pur soltanto per il breve spazio d’un mattino.
Intanto – nell’attesa di quel problematico 0,001% – statistiche consolidate e pronostici a breve, medio o lungo termine vengono interpretati con una fantasia da Alice-nel-Paese-delle-Meraviglie. Ognuno dice ciò che gli aggrada, senza un minimo di rispetto per l’intelligenza altrui. Renzi afferma solennemente che il suo governo ha tolto 18 miliardi di tasse e creato non so quante migliaia di nuovi posti di lavoro. E poco importa se, da un’asettica lettura dei dati nudi e crudi, si apprende che in tre anni le sole tasse sulla casa sono aumentate di 20 miliardi di euro (cito “Il Tempo” del 30 novembre), e che la disoccupazione – leggo in pari data su “La Stampa” – è statisticamente «la più alta di tutta la nostra storia».
Di caucciù sembrano diventate pure le statistiche di natura sociale, anche queste stirate, elasticizzate, rimodellate, reinterpretate, piegate alle esigenze del “politicamente corretto” per dimostrare anche l’indimostrabile. Prendete Gian Antonio Stella, per esempio, che sul “Corriere della Sera” del 23 novembre – in prima pagina – utilizzando le ultime statistiche della pro-immigrazionista Fondazione Leone Moressa, sostiene che «i migranti danno all’economia italiana 3,9 miliardi». Ma se lo Stella si fosse scomodato a sfogliare la collezione dello stesso “Corriere”, avrebbe appreso che nel medesimo anno di riferimento (il 2013) gli immigrati hanno mandato rimesse all’estero per 5,5 miliardi di euro: lo rilevo da un articolo di Antonella Baccaro dell’8 luglio 2014. Il saldo negativo sarebbe dunque di 1,6 miliardi: 5,5 miliardi sottratti all’economia nazionale, meno 3,9 miliardi versati in tasse e contributi previdenziali. Ma, purtroppo, il saldo reale è ben più cupo. Infatti, quei 3,9 miliardi non sono una aggiunta ai nostri conti, ma una semplice sostituzione. Sono, infatti, gli stessi introiti che alle casse nazionali sarebbero pervenuti da lavoratori e piccoli imprenditori italiani, sol che soggetti stranieri – lo dico senza alcuna ostilità – non si fossero sostituiti a loro nei posti di lavoro e nelle attività artigianali. Anzi, in questo caso, sarebbero rimasti nel circuito italiano anche quei 5,5 miliardi che invece hanno preso il volo sotto forma di rimesse per l’estero. E senza contare – aggiungo ancòra – tante altre uscite per accoglienza, sanità, alloggi, popolazione carceraria, eccetera.
Ogni tanto, però, l’elastico ritorna indietro più o meno velocemente, e per un momento si torna ad un assetto un po’ più aderente alla realtà. È successo non più tardi dello scorso agosto, quando il Ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan, ha ammesso candidamente che le sue previsioni sulla ripresa dell’economia erano sbagliate; e, con le sue, anche quelle di “tutti”. Dove il “tutti” non indica certo tutte le persone di comune buon senso, ma – mi permetto di chiosare – “tutti loro”: tutti i filosofi dell’ottimismo montian-lettian-renziano e, più su, tutti i soloni di una Europa subnormale (dai teorici del rigore merkelliano ai dragheschi teorizzatori del primato del ripianamento del deficit) e, ancòra più su, tutti gli strapagati supermanager degli organismi finanziari internazionali, dal Fondo Monetario Internazionale all’OCSE e alla Banca Mondiale. Padoan compreso, naturalmente. Perché l’ineffabile Ministro delle Finanze non è un qualunque boy-scout che frequenti il governo del cinguettatore fiorentino, bensì uno dei pochissimi a poter vantare un’esperienza superiore a quella di una Giovane Marmotta. È stato Direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale (con competenza per Italia, Grecia, Portogallo ed altri disgraziati paesi); poi è passato all’OCSE (l’organizzazione che riunisce i paesi più sviluppati del mondo), dove è stato Vicesegretario generale e Capo-economista.
Se uno con il suo curriculum ammette che «sfortunatamente abbiamo tutti sbagliato» (testuale), c’è da crederci: l’elastico, dopo essersi allungato per i meandri della globalizzazione finanziaria, sembrerebbe esser tornato – per un momento soltanto – alle dimensioni normali. Certo, il ritorno al reale non può trasformarsi in una generale e totale ammissione di colpa, ma qualcosa di assai significativo fa comunque capolino dall’intervista di Padoan: «ci siamo sbagliati tutti, sia le organizzazioni internazionali sia i governi, prevedendo per il 2014 una crescita superiore nella zona euro» (“Il Tempo.it” del 19/8/14).
Perché questo? Perché – ed ecco l’elastico tornare ad allungarsi – per vedere il taumaturgico effetto delle riforme renziane non sono sufficienti pochi mesi. Occorre pazienza. Quanta pazienza? Due anni di pazienza, pronostica il ministro. Più o meno 700 giorni, dunque; che, sommati ai circa 300 vissuti fino ad oggi dal governo del pifferaio dell’Arno, porterebbe il totale a 1.000: l’elastico, dunque, si allungherebbe fino alle soglie del 2017.
Dopo di che – sono pronto a scommettere – qualche altro brillante estimatore dei “mercati” verrà a spiegarci che è successo qualcosa di imprevisto e che si dovrà pazientare ancora per scorgere la luce in fondo al tunnel. Quanto? Due, tre, o forse quattro anni. Poi si vedrà.
E, così, continueranno a stiracchiare statistiche e previsioni, come in un giornaletto di Tiramolla. Cosa certamente possibile nei fumetti. Ma, nella realtà, anche l’elastico più resistente ha un suo punto di rottura. E, quando si rompe, l’elastico torna indietro con grande velocità e con grande violenza. E può far male.
[da “Social”, settimanale d’informazione, 5 dicembre 2014]