di Mario M. Merlino
La costituzione del regno d’Italia (1861) sembrò attuare il risorgimento, pur mancando ancora il Veneto (1866), Roma (1870), Trento e Trieste (1918), ma non seppe affrontare e risolvere le grandi questioni sociali ed economiche. Anzi, necessitandosi lo sviluppo industriale, il divario tra settentrione e meridione, urbanesimo e campagne, nascita di una borghesia capitalista e mondo rurale andò inasprendosi con ulteriore impoverimento, analfabetismo, arretratezza delle masse. Così lo stato nazionale vide il sorgere quali forze ostili il movimento cattolico, soprattutto fra i contadini, e quello socialista fra il proletariato urbano.
Le inchieste messe in atto dimostrarono lo stato di miseria e di abbrutimento in cui erano costretti a vivere migliaia e migliaia di uomini donne bambini. La questione meridionale è divenuta parola chiave proprio a indicare quel divario tra Nord e Sud, oggi trasferita in chiave planetaria. Il brigantaggio, che fu tutto tranne che scorrerie banditesche e di rapina; l’introduzione della carta moneta e le conseguenti tasse a demolire un sistema di baratto naturale funzionante da secoli; il servizio militare obbligatorio a sottrarre braccia al lavoro dei campi…
I governi Giolitti, se diedero una spinta alla crescita del Paese, evitarono però di toccare gli equilibri del Meridione che consentivano a Giolitti stesso di avere un numero di deputati, conosciuti con il soprannome dispregiativo di ‘ascari’, circa un centinaio, eletti con il sistema clientelare e, quindi, tenuti ben stretti per ‘le palle’. Immagine drammatica fu l’emorragia di intere aeree verso altri continenti senza più esito di ritorno. Emilio Corradini e i sindacalisti rivoluzionari, pur con sfondi diversi, ne denunciarono la piaga sia come lavoro sia come dignità nazionale.
La prima guerra mondiale vide la partecipazione delle masse al conflitto, soprattutto provenienti dalle campagne, esigendosi gli operai nelle fabbriche, e questa partecipazione, sovente subita e senza consapevolezza delle motivazioni ideali, fu il segno che poteva e doveva nascere un popolo, una nazione. L’aridità delle statistiche è, comunque, eloquente: in ogni famiglia siciliana vi fu un caduto sul fronte del Carso o in Trentino.
La promessa non mantenuta di dare terra ai contadini, le spinte sovversive sotto la suggestione retorica della rivoluzione bolscevica, la deficienza della vecchia classe liberale, insensibile alla richiesta di cambiamento sembrarono vanificare i sacrifici del conflitto, rigettare le masse nella disperazione e nelle insorgenze sterili e faziose. Fu allora che sorse il fascismo e con indomita volontà seppe conquistare il potere.
A meno di un anno dalla nascita del governo, Mussolini annunciò l’intenzione di ‘liberare il popolo italiano dalla schiavitù del pane straniero’, dipendenza questa che era stata causa di tante sommosse e dell’emorragia endemica dell’emigrazione. Fu, dunque, l’agricoltura il principale settore a cui si rivolse il nuovo regime, sviluppando una politica di rapida attuazione, efficace ed economica. Nel giro di pochi anni i risultati furono conseguiti senza aumentare la superficie coltivata a grano per non danneggiare ulteriori prodotti. Introduzione di macchine agricole, qualificazione tecnica dei lavoratori, bonifica integrale di aree paludose e malsane (l’agro pontino è solo l’esempio più vistoso ), nuove e più redditizie culture di cereali.
Varrà la pena ricordare come paesi ad agricoltura elevata, si pensi all’Olanda e al Regno Unito, inviarono commissioni a studiare il modello delle aziende italiane, le cosiddette ‘cattedre ambulanti’, gli ispettorati… insomma voler rendere il paese autonomo e sgravato da pressioni esterne, mantenere una cultura di valori familiari e frugali, pur inserendo l’Italia fra le potenze del vecchio continente. Poi la guerra… del sangue contro l’oro, delle nazioni proletarie contro il potere finanziario…