“C’è sempre un momento nella storia degli uomini in cui la difesa della propria tradizione culturale vuol significare che tutto ciò che è accaduto non è stato vano, che il tormento, la gioia, l’odio, l’amore folle e smisurato per affermare la realtà di una passione, continua a vivere e ad avere un senso. Ma quando, guardando indietro, si pensa di appartenere ad una tradizione non più recuperabile, ci si persuade che il destino non dà nessuna spiegazione e nemmeno l’ombra di una motivazione su ciò che è stato, allora la ricostruzione di un’identità perduta e dimenticata diventa impossibile e rimane soltanto l’angoscia dello sradicamento, la desolazione e la solitudine vissute come incubo quotidiano”.
Stefano Zecchi pref.al Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler
Nel Carmelo si entrava nella cella e un teschio appoggiato sul piccolo scrittoio, accanto al rigido giaciglio, ricordava l’estrema debolezza della carne, il martirio dei sensi, il Golgota, la rudezza della vita di un soldato che conosce il breve sonno, mai ristoratore, di una notte corona di poche ore, prima del mattutino.
L’eroe, il santo e il mediocre soli possono morire pacificamente, affermava Bernanos.
In questa ribalta da piccola bottega degli orrori che ci si è apprestati a definire società dello spettacolo (bizzarre-freak), il mercante, il cliente e il politico sono la manifestazione infida del sublime giullare, dell’atletico saltimbanco, dell’illusionista, del ciarlatano da fiera che annusano la credulità del volgo, il senso innato della fede, l’atavico desiderio di spostare ogni centimetro del proprio fragile essere in un’incarnazione, nelle radici occulte di un oggetto di culto supremo che, dopo la morte di Dio, ai bordi della strada, è destinato ad essere un’intercambiabile ridda di metempsichici frammenti di un’ Atlantide Iperborea.
La vita è così tremendamente straordinaria a causa dell’ordinarietà della morte.
La paura è talmente ovvia, salutare e diffusa da rendere il coraggio molto poco desiderabile.
La quotidianità è un elenco di azioni sconclusionate, una serqua di aforismi estrapolati da un inedito di Cioran riscritto dal suo eteronimo, Fernando Pessoa.
Dopo il trascolorare dell’eroe militare in attore cinematografico, in astronauta e in popstar, sul boccascena i castrati danno il peggio di sé ululando la fine dei sessi, il grigiore fluido del genere amorfo, il rovescio della metafisica dell’amore.
Nel 1270 Nicolò Gallico, ex priore generale dell’Ordine del Carmelo, in risposta a questo XXI°secolo, aborto di quello breve, denunciò la sua delusione nel passare dalla vita eremitica alla vita mendicante; dall’Eden del Monte Carmelo situato ad Oriente, ai calici d’oro ricolmi di bevande velenose dell’Occidente cittadino. La sua asprezza verso il nuovo “mondo-mendicante” è possibile rintracciarla nella nostalgia e nella bellezza perduta del “mondo-eremitico”.
Spengler sosterrà lo stesso, necrofilo della decadenza, psicopompo dell’Occidente.
Negli stessi luoghi noi cerchiamo qualcosa di reale, appigli sulla parete di ghiaccio. Cittadini tristi, consumati da invidie commerciali, elettori inutili, siamo gestiti in branco dagli Ingsoc del libero pensiero, del libero comprare, del libero vendere, vendere, vendere, come intuiva l’odiato Bardèche; buttati fuori dagli uteri senza collaudo, scartati dal controllo sostenibilità demografica.
Uteri bianchi contro uteri neri, i secondi prolifici come un’epidemia medioevale.
Nessuna applicazione sterilizzante post-traumatica, soltanto un’adesione genetica pro-meticciato, per scongiurare rigurgiti ariani nel centro dell’Europa dei popoli moribondi per eccesso di narcisismo.
“Se hai dei ricordi autentici puoi avere vere reazioni umane…” Questo è il monito di Philip Dick dalle pieghe cyber.
L’umanità è inutile nell’era del post-lavoro; le torme brulicanti di replicanti, che infestano i bassi mondi, sono diventate un peso insostenibile per chi si vorrebbe unico depositario della conoscenza, unico abitante del pianeta, detentore dei mezzi di produzione di ricordi e di vite soltanto mediatiche.
La nostalgia è il pezzo forte che va in onda 24 ore su 24: non è il futuro ad essere online, è il passato.
Un passato studiato apposta per permettere ad ognuno le sue reazioni da convogliare nella rete per intrecciarsi con classi di ricordi e fruitori di ricordi, a seconda del genere e della generazione di appartenenza.
Alla fine, senza scomodare Eden crollati, abbandonati per ingiustizia divina, noi siamo figli di creati, i veri nati, innestati sulla terra, senza possibilità di redenzione: noi come vite di altri e la nostra esistenza come incubo a pagamento senza aria condizionata.
Siamo e saremo sempre obbedienti servitori indecenti di credi totalitari e anche se l’utopica illusione anarchica o democratica ci sfiora di ridicolo, sappiamo che prima o poi ogni ribellione sarà mercanteggiata, costituirà trust in piena regola, amministrati secondo deteriorati rituali sciamanici da un evanescente consiglio di amministrazione.
I roghi di libri non servono più a nulla nelle dittature ignoranti per gli analfabeti.
Superflui gli uomini libro in assenza di ascoltatori.
Superflui il dolore e il piacere in assenza di corpi fisici.
Superfluo il cibo se il cannibalismo ci sazierà del suo soylent verde.
Così tacque Zarathustra.
All’arresto improvviso come un fulmine, quando le manette ci divorano i polsi, noi rispondiamo con quel banale: “Io? Perché?”
Intorno a noi i carcerieri ci conducono al nostro arcipelago gulag, e noi mansueti come agnelli nemmeno beliamo una minima indignazione, attenti a non far trapelare nulla che possa trasformarsi in un cattivo hashtag da usare contro il nostro sacro io.
Il Poliscriba
Fonte immagine
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